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Noi donne al tempo del Covid 19

a cura di Maria Grazia Riveruzzi



Mi soffermo a pensare alla mia giornata appena iniziata e una pianura piatta e desolata si offre alla mia immaginazione, un vuoto da colmare: allora mi affretto a riordinare, poi decido di leggere o di guardare un film, di fare due chiacchiere con le mie amiche. Anche il clic frequente di Whatsapp mi aiuta a distrarmi dal tarlo che non mi abbandona e che mi ripete “Bada che il tempo scorre inesorabile“.

Il tempo è “una dimensione dell’anima” secondo S. Agostino nelle “Confessioni “, una distensione della coscienza relativa alla condizione contingente del soggetto e se il soggetto, l’essere umano, vive una situazione di lunga attesa il tempo si dilata a dismisura. Nel silenzio della mia casa, il tempo si dilata fino ad abbracciare col presente surreale un passato nostalgico e un avvenire imprevedibile. Viaggia come un treno estremamente lento su un unico binario, senza deviazioni, senza incroci, senza fermate. Questo è il mio tempo durante il corona-virus, un tempo vissuto come “perdita”. Perdita di contatti umani, di relazioni feconde, di passeggiate spensierate alla luce del sole e alla vista del mare, ma anche rammarico di cose non avvenute, di parole non dette, di abbracci mancati… ”Allora si raggruma una sorta di disperazione per quello che potrebbe essere stato e non è stato, per quello che potrebbe essere e non è, e il riaccorciarsi del tempo davanti a te ti presenta un’immagine di futuro impregnata di ripetitività e di ripetizioni …” e “ il rimpianto può trasformarsi in risentimento per un colpo inferto dal destino da cui non si potrà tornare indietro”. (“L ‘età in più “ di Marina Piazza )

Eravamo, almeno credevamo essere, una generazione fortunata, l’unica a non avere subito la “Guerra”. Abbiamo avuto il tempo di pensare, di elaborare teorie e pratiche all’avanguardia per vivere con maggiore comodità questo mondo; noi donne insieme con gli uomini abbiamo lottato per gli ideali di giustizia, di democrazia, di libertà e abbiamo rivendicato il diritto all’uguaglianza pur nella differenza di genere. Ma non ci siamo accorte che qualcuno barattava la nostra anima, i nostri ideali con una vita consumistica, edonistica e individualistica …. Nel frattempo la Natura, offesa e violentata, preparava, sorniona, la sua vendetta.

Ed ecco il cosiddetto Covid 19, un mostro, un virus, invisibile e misterioso, che ci minaccia e ci devasta nel corpo e nella mente. Dilaga ovunque, nel nostro Paese e in tutto il mondo: è una pandemia. Semina morte, insinua diffidenza e paura dell’altro/a, disorientamento e confusione nelle menti, contraddizioni tra esperti scienziati e politici saccenti. Io stessa, nell’incredulità di vivere un tempo surreale, mi chiedo se ciò che credevamo normale fosse veramente normale e se il male non si fosse annidato già nella normalità della nostra vita quotidiana.

Ma il tempo del Covid 19 è anche il tempo della separazione dagli affetti più cari, del distacco coatto dalle mie figlie, dai miei nipoti che vivono lontano laddove i l contagio e la mortalità crescono in modo esponenziale. Non posso raggiungerli, non posso/non possiamo garantire loro un futuro e un mondo migliori. Abbiamo fatto danni irreparabili, non aggiungiamo false promesse!!! Non scimmiottiamo lo slogan ” Andrà tutto bene”.

Il tempo del covid 19 è il tempo della privazione: dello spazio fisico, della libertà, della socialità e, soprattutto, di vite umane a cui si nega una carezza amorevole, una parola di conforto, anche uno sguardo pietoso che accompagnino la loro dipartita.  Non posso non pensare che io, per caso o per fortuna, ho potuto tenere la mano di mia madre fino al suo ultimo respiro e ho potuto conservare come ricordo una ciocca di capelli di mio padre.

Il tempo del coronavirus è il tempo della dimenticanza: non c’è posto per i vecchi né per i bambini/e nella pianificazione socio politico -sanitaria dei governanti di tutti Paesi; ieri come oggi sono affidati alla cura e assistenza delle donne cui, In questo frangente tragico, si è aggiunto un sovraccarico di lavoro, costrette a colmare l’assenza delle insegnanti, delle colf, delle tate e dei servizi sociali.

Eppure al tempo del Covid 19” noi donne siamo entrate a pieno titolo nella Storia per i ruoli svolti come biologhe, virologhe, scienziate, giornaliste, mediche della mutua, farmaciste, ricercatrici e le innumerevoli operatrici sanitarie, etcc. Ma contemporaneamente non siamo state sollevate dagli oneri della vita domestica. La tragedia dell’epidemia, anziché livellare le disuguaglianze sanitarie, economiche, politico-sociali della nostra società, le ha portate alla luce con virulenza e ancor più ha evidenziato la disparità di genere che ci eravamo illuse di aver superato con la conquista del mondo del lavoro e di una fantomatica parità.

La competenza e la professionalità delle donne, la capacità di assistere, di curare, di mediare e di organizzare più aspetti della vita quotidiana, sono state riconosciute ed esaltate nella prima fase di contenimento del virus. Poi sono state   eluse e dimenticate nella costituzione di task force che dovrebbero decidere della nostra vita nella 2° fase di ripresa economica. Chi non ricorda l’emarginazione delle donne che avevano combattuto a fianco degli uomini durante la Rivoluzione Francese, durante le guerre d’indipendenza, e durante la Resistenza nella 2° guerra mondiale e in tutte le innumerevoli volte in cui la Storia le ha viste protagoniste?

 L’esperienza stressante delle mie figlie è emblematica per tutte quelle donne che, chiuse nelle loro case per il lockdown, ancora una volta sono chiamate a conciliare il fabbisogno della famiglia con il lavoro extradomestico e l’educazione dei figli con il loro benessere psicofisico; il tutto accompagnato dal timore di rientrare al posto di lavoro senza sapere dove o a chi affidare i figli  Colf e baby setter e nonni sono stati allontanati perché possibili untori o suscettibili di contagio. E non sono di certo i bonus e gli incentivi per l’ assistenza delle famiglie erogati dal governo a sollevare la donna dai suoi impegni lavorativi e familiari.

Mi auguro che da questa terribile esperienza e dal tempo trascorso in lockdown si tragga l’insegnamento fondamentale per la crescita civile e la felicità dell’umanità; quello di porre mano ad un rapido cambiamento culturale che investa tutti i campi della società dove l’essere uomo e l’essere donna non siano più asimmetrici ma complementari. Un cambiamento che investa la dimensione del tempo lavorativo umanizzandola nel rispetto delle differenze di genere.

Un tale cambiamento di prospettive conduce a rispettare le donne come cittadine maggiorenni, ad arricchire la comunità di valori di cui essa ha bisogno; la pratica dell’intersoggettività, il senso del concreto, la cura del futuro e a permettere la convivenza delle donne e degli uomini, non solo al livello dell’istinto- con tutte le violenze pudicamente nascoste nella famiglia- ma al livello della civiltà “. ( Luce Irigaray “ La democrazia comincia a due “)



 
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