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Sola,
ma non in solitudine
A cura di
Paola Nucciarelli
Qui a
Soverato l’epidemia del Covid 19 si è fatta sentire molto più
tardi che in altre zone del mondo e a fine febbraio eravamo
ancora convinte che il virus potesse interessare solo la Cina e il
nord Italia. Non pensavamo che si sarebbe bloccato il Paese, il mondo
intero e che sarebbero capitati tanti disagi e tanti morti.
Il 31
gennaio il Consiglio dei ministri dichiara stato d’emergenza
e il 22 febbraio 2020 esce
un’ordinanza sulla quarantena obbligatoria e isolamento per chi
torna dalla Cina. Alla tv si sentono i consigli per come starnutire,
come lavarsi le mani e come usare la mascherina. Comincia ad
assalirmi un’ansia da surplus di informazioni e troppe fake news
circolano nelle chat.
Stavamo
organizzando una manifestazione per la Biblioteca delle Donne contro
la violenza di genere per il 7 marzo e nei giorni precedenti
insieme a una mia amica architetta ero andata ad allestire la mostra
fotografica, anche se avevamo il timore che le scuole non potessero
partecipare, poiché il ministero della pubblica istruzione aveva già
iniziato a dare delle limitazioni per quanto riguardava le uscite
didattiche. Francamente molte di noi non avevano ancora molta paura
del virus in quei giorni.
La stretta
ci fu con DPCM
del 4 marzo 2020: L'attività didattica nelle scuole e nelle
università fu sospesa dal 5 al 15 marzo 2020 in tutta Italia.
Sabato 7
Marzo ancora abbastanza spavalda e incosciente sono andata a prendere
un caffè con la panna al bar vicino casa che ho trovato stranamente
deserto. Uscendo per strada ho salutato un’amica che era affacciata
al suo balcone e le ho chiesto di darmi qualche dritta sulle serie tv
poiché avevo cominciato a capire che anche per noi ci sarebbero
stati dei giorni di quarantena. Mi grida: “vediti Homeland!”.
In quei
giorni stavo vedendo a tempo perso una serie tv spagnola dal titolo
“Le ragazze del centralino” (titolo originale Las
chicas del cable), ambientata a Madrid nei primi anni del 900,
esattamente nel 1928 che racconta le vicende di quattro donne, Maria
Immacolata detta Marga, Carlotta, Angeles e Lidia. Queste ragazze
erano state assunte tutte nella compagnia dei telefoni come
operatrici e ne combinavano di tutti i colori, aiutandosi a vicenda
in ogni situazione. La serie in sé non è bellissima, intendiamoci,
assomiglia alle telenovele sudamericane di una volta, ma lo spirito
intraprendente di Lidia, coraggioso di Angeles, disinvolto di
Carlotta e allegro di Marga mi ha fatto divertire e in quel momento
cominciavo a sentirne il bisogno.
Sono passata
ad “Homeland” – Caccia alla spia - una serie televisiva
USA che ha per protagonista una donna, Carrie Mathison che è
un’agente della Cia affetta da disturbo bipolare. Questa è una
serie di 6 stagioni molto avvincente e l’attrice Claire Danes è
stata premiata più volte per il suo ruolo da protagonista.
Inizialmente ho visto le prime puntate con mio marito che è anche il
mio migliore amico, col quale fin dai tempi dell’università
andavamo al cinema e al teatro quasi tutte le sere. Siamo una coppia
che legge molto, che vede anche dei ”mattoni” e li sopporta, ma
consapevole che la serie fosse di suo gradimento perché si sa,
quando ci sono pistole alcuni uomini restano incollati allo schermo,
e il mio non fa eccezione, ne ho proposto la visione.
All’improvviso,
mi sono ritrovata a passare tanti giorni da sola perché ha subito
un’operazione improcrastinabile in un periodo, il tempo del
Coronavirus, in cui Soverato è divenuta zona rossa e gli ospedali
vietavano gli ingressi ai parenti. Io a Soverato sola, lui a
Catanzaro operato. Tragedia nella tragedia: sono stati giorni molto,
molto pesanti per entrambi, per quello che poteva succedere, per
quello che non ci potevamo dire, per quello che non potevo fare.
Carrie
Mathison, la matta, la coraggiosa, la disubbidiente, la migliore
detective del momento, mi ha fatto compagnia nelle diverse notti che
ho dormito poco per i troppi pensieri. Carrie l’agente della Cia,
la regina dei droni, donna in carriera che non si lega a nessuno
resta incinta, partorisce e lascia la figlia alla sorella e torna in
Medio Oriente a combattere i cattivi. Grazie a lei scopriamo che i
“cattivi” sono dappertutto e i più pericolosi sono quelli
travestiti da buoni. Col tempo Carrie riesce a gestire sia il suo
handicap sia a riprendere le fila della sua vita, compreso l’amore
per la sua bambina.
La
sincronicità mi fa trovare una miniserie bellissima “Unbelievable”
creata, prodotta, sceneggiata e diretta da una donna: Susannah Grant.
In verità, alla regia ha partecipato anche Lisa Cholodenko, la
bravissima regista di “I ragazzi stanno bene” e di “Olive
Kitteridge”. Questo fatto mi ha fatto ripensare a “Yentl” un
vecchio film prodotto, diretto e interpretato da un’altra donna
Barbra Streisand, e non per la tematica, ma perché a volte le cose
le devi fare tutte da sola dalla A alla Zeta perché vengano bene.
Unbelievable è una miniserie che tratta di una serie di stupri
realmente accaduti nello stato di Washington e in Colorado. La storia
racconta di una ragazza che viene accusata di mentire sulla violenza
subita da parte di uno sconosciuto. Marie resta annichilita,
impotente e remissiva per diversi mesi, dovrà perfino pagare una
multa per avere detto il ”falso” alle forze dell’ordine. Grazie
al cielo due detective donne che appartengono a due diversi distretti
di polizia scoprono che stanno seguendo casi di abuso che hanno forti
analogie fra di loro e, scoprendo il colpevole, daranno la
possibilità a Marie di essere riabilitata e di riprendere in mano la
propria vita. Una delle detective è Toni Colette, un’attrice
fantastica che dà un grande spessore al personaggio.
Miniserie
bella, bella, bella.
Durante uno
zapping notturno m’imbatto in “Selfmade: la vita di Madam C.J.
Walker”. Anche questa è una miniserie statunitense che ha come
interprete principale l’attrice Oscar afroamericana Octavia
Spencer. E’ girata un po’ sopra le righe, ma il tema è molto
interessante, perché racconta la vita dell’imprenditrice,
filantropa e attivista statunitense Madam C.J. Walker, la prima donna
afroamericana a diventare milionaria vendendo prodotti per capelli.
Nata nel
1867, non ebbe una vita facile perché rimase orfana a sette anni,
moglie a 14 per sfuggire a un cognato e vedova a 20. Per potersi
mantenere lavorò come lavandaia sottopagata e come cuoca. Studiò e
realizzò un tonico per capelli perché soffriva di alopecia e grazie
al suo coraggio e alla sua determinazione riuscì a essere conosciuta
per i suoi prodotti in tutta la nazione. La grandezza della storia
sta nel fatto che Madam riesce a superare le barriere imposte al
pregiudizio razziale e di genere e diventare una grande
imprenditrice. Un episodio della sua vita molto interessante e
riportato nella miniserie è stato trovarsi a fronteggiare la
presidente di un’associazione delle donne di colore nonché moglie
del presidente degli imprenditori per chiederle di mettere una buona
parola col marito per avere degli investitori per la sua nuova
fabbrica, perché si sa, gli uomini colgono una buona idea se sono
altri uomini a proporla.
Fra un
telegiornale alla ricerca di notizie sugli effetti coronavirus e
qualche riga dei quattro libri che stavo leggendo in contemporanea mi
trovo una miniserie che mi ha lasciato senza parole e che ho guardato
in un giorno: “Unorthodox” ispirata all’autobiografia di
Deborah Feldman, un libro che spero di leggere a breve. La storia
racconta di una ragazza ebrea di fede ortodossa chassidica di nome
Esher Shapiro che vive a New York in un quartiere dove tutto è sotto
controllo del fanatismo religioso. Etsy, così viene chiamata, è
vissuta con la nonna perché la madre è stata cacciata dalla
comunità e a 19 anni viene fatta sposare, attraverso un matrimonio
combinato, con un ragazzo buono, ma soggiogato dalla propria madre.
Dopo un anno di matrimonio infelice, Etsy è ancora incapace di dare
un figlio al marito e le regole rigide della sua comunità la fanno
diventare una “diversa”, una da ripudiare. Etsy scappa e va in
Germania dove ritrova la madre, si farà degli amici e darà sfogo
alla sua passione: il canto, un’attività vietata per le donne
dalla sua comunità perché troppo seducente. Un capolavoro, la mia
eroina Etsy è bravissima, delicata, poetica, mai banale e forte,
molto forte.
Passo mio
malgrado alla serie televisiva statunitense “Greenleaf”
prodotta da Oprah Winfrey, la famosa conduttrice afroamericana che ha
anche un ruolo nella serie oltre a essere la produttrice esecutiva.
Ho deciso di vedere la serie perché capisco che tratta di una donna
pastore della chiesa protestante di Memphis. Qui i buoni non
esistono, tantomeno nella Chiesa. Vengono anche delineate figure di
donne veramente terribili e questo non mi piace, ma continuo a
guardare, il brutto o il bello delle serie su Netflix è che vanno
avanti da sole, e scopro che la terribile lady Mae, la moglie del
pastore James Greenleaf è stata una bambina abusata dal padre, e che
Grace, la figlia del pastore James, pastore anch’essa, riesce a
smascherare il colpevole degli abusi sui minori all’interno della
comunità religiosa. La serie è una ferocia denuncia al sistema
corrotto della Chiesa Americana. Amen.
Una mia
amica di Verona, fra scambi di ricette di pane e di cuzzupe, mi
consiglia la serie “When calls the heart” (Quando chiama
il cuore). Questa è ambientata in Canada nei primi del ‘900 in una
cittadina mineraria, che si chiama Coal Valley. La nostra eroina è
una giovane insegnante di buona famiglia, Elisabeth Thacher che
decide di andare a insegnare in questo paesino di frontiera dove
trova un affascinante giubba rossa della guardia nazionale di cui si
innamora. La serie è tratta da una saga letteraria della scrittrice
canadese Janette Oke.
La miniera
verrà chiusa dopo che la frana ha fatto diventare vedove decine di
donne che dovranno rimboccarsi le maniche per sopravvivere e, dopo
l’apertura di una segheria che darà lavoro e speranza alla gente
del luogo, cambierà anche il nome della città in Hope Valley. C’è
la sindaca, la maestra, la giudice, l’imprenditrice, l’attrice e
sono tutte in gamba, brave. C’è anche la pettegola, ma anche lei
troverà la sua strada come operatrice telefonica. Qui il mondo è
magico, pulito, per bene, persino i cattivi diventano buoni.
Bene, sono
diventata una Heartie, così si chiamano le fan della serie.
Un’altra
amica mi consiglia “Le regole del delitto perfetto”, una
serie che è in Italia da diversi anni che ha come focus la vita di
Annalise Keating, interpretata dall’attrice afroamericana premio
Oscar Viola Davis, un’avvocata penalista di Filadelfia, nonché
professoressa della cattedra di diritto penale alla Middleton
University. Annalise è una professionista senza peli sullo
stomaco che, se deve vincere una causa, lo fa anche in maniera poco
ortodossa, ma le sue arringhe sono splendide. Come tirocinanti e per
sfruttare le abilità dei migliori aspiranti avvocati del paese, la
professoressa Keating sceglie ogni anno cinque fra i suoi più
promettenti studenti per assisterla nei suoi casi. Da qui inizia una
storia nelle storie, quella di Annalise abusata da piccola dallo zio,
che ha perso un figlio all’ottavo mese di gravidanza, che viene
tradita dal marito: si comincia a comprendere che lei è quello che
la vita ha fatto diventare e così si sviluppa la storia dei tanti
casi che segue come avvocata insieme agli aiutanti di studio e ai
suoi studenti. Da non sottovalutare negli episodi: Bonnie
l’altra avvocata dello studio pluriabusata da piccola e la madre di
Annalise che, nonostante l’incipiente demenza senile, spiega la sua
visione del mondo: “Tua zia Lynne è stata violentata dal maestro
di prima elementare… il reverendo Daniels mi prendeva dopo le prove
del coro…il primo uomo per cui ho lavorato… alcuni uomini con cui
sono uscita… te l’ho detto gli uomini prendono le cose, prendono
le cose dalle donne dalla notte dei tempi e non c’è motivo di
parlarne tanto e di fare tanto casino e non c’è una ragione per
chiedere aiuto a uno psicanalista e finire per sposarlo, non hai
imparato niente!”.
La Keating
verrà a sapere che la madre aveva volontariamente dato fuoco alla
loro abitazione per uccidere nell’incendio lo zio che l’aveva
violentata e la scoperta le consentirà di riprendere il rapporto
madre-figlia interrotto ai tempi dell’adolescenza.
Nel dare
l’addio al suo personaggio, Viola Davis, su Instagram, le ha
dedicato un messaggio di profonda riconoscenza: “Grazie Annalise
per aver condiviso i tuoi casini, la tua forza e la tua intelligenza…
Hai spalancato la porta ed aiutato a ridefinire cosa significhi
essere nero. Cosa voglia dire essere una donna al comando. Grazie per
la tua umanità. Impersonarti è stata l’esperienza di una vita.
Con amore. Viola”.
In questo
momento sto finendo di vedere la quarta stagione, so già che la
serie terminerà alla sesta con un finale travolgente, ma non è
questo il punto.
Penso che
molte di queste storie di donne hanno un fil rouge che le
accomuna - la violenza, l’abuso, lo stupro - e quello che siamo,
nel bene o nel male, è frutto anche delle brutte esperienze che ogni
donna, e dico ogni donna ha subito, da piccola o da grande.
Chi non ha avuto almeno un apprezzamento pesante o ha dovuto cambiare
posto al cinema, è stata costretta a spostarsi sull’autobus…o
chi non ha avuto paura almeno una volta nel rientrare da sola a casa?
Ai primi del
‘900, in una città di frontiera fra il Canada e gli Stati Uniti,
dove le tensioni si sistemavano con un colpo di pistola, dove c’erano
gli assalti alla diligenza e le bande di fuorilegge, la serie “When
calls the heart” è quantomeno irreale.
Possibile
che non sia mai successo niente a tutte queste ragazze?
Nella vita
reale purtroppo si, ma lasciatemi essere una “Heartie” ancora
qualche giorno in questo periodo sospeso. Sola, ma non in solitudine.
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