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ASSOCIAZIONE “BIBLIOTECA DELLE DONNE DI SOVERATO”
Palazzo di Città - 88068 Soverato (CZ)

 

NIENTE CAFFE' PER SPINOZA

 

 

a cura di Paola Nucciarelli







Autrice: Alice Cappagli

Editore: EINAUDI - Super Et

ANNO 2019

Pag.278



TRAMA

Maria Vittoria, una giovane donna semplice e pacata in crisi matrimoniale, cerca lavoro all’ufficio di collocamento e accetta quello di collaboratrice domestica, badante, nonché lettrice per un vecchio professore di filosofia non vedente.  Il professore vedovo da tanti anni ha anche una stravagante figlia musicista, che vive a Milano con il marito e due figlie adolescenti e è spesso in viaggio per le tournée. Il tempo che Maria Vittoria trascorrerà con l’anziano docente darà inizio alla sua fioritura personale. Il romanzo è raccontato dalla protagonista in prima persona in una lingua schietta e semplice in linea a quella di una giovane donna che si è sposata troppo presto non terminando gli studi.

ALICE CAPPAGLI

Foto di Oliviero Toscani

Nata a Livorno, Alice Cappagli è vissuta dai venti anni a Milano dove si è anche laureata in filosofia. Nella stessa città è stata violoncellista al Teatro della Scala per 37 anni.

Come scrittrice ha esordito con il racconto “Una grande esecuzione” nel 2010. Il suo nuovo romanzo “Ricordati di Bach” è stato pubblicato da Einaudi nel 2020.



RECENSIONE

Ho scelto questo romanzo andando a caccia di libri su Spinoza, dopo aver letto quest’estate il libro di Pietro Bevilacqua “Baruch l’infernale”. Sono sempre stata convinta che i libri “ti chiamino” secondo una certa logica.

Per prima cosa vorrei sottolineare che il romanzo è ambientato a Livorno: il suo vento di Libeccio, l’aria salmastra ricca di iodio e la luce vengono percepiti anche dal lettore o dalla lettrice che sta comodamente seduto/a in poltrona nel proprio soggiorno.

L’atmosfera livornese è sempre in evoluzione grazie alle raffiche del suo vento più famoso e alla sua luminosità che ha il potere di cambiare sia l’umore che i pensieri. Nonostante abbia una storia abbastanza recente in confronto a altre città toscane, Livorno è una città portuale che ha un certo prestigio con i suoi 11 kilometri di banchine e è la patria del compositore Pietro Mascagni, dei pittori Amedeo Modigliani e Giovanni Fattori, del poeta Giorgio Caproni oltre che dell’ex presidente della repubblica Carlo Azelio Ciampi e del regista Paolo Virzì. Il movimento dato dai traghetti che partono dal porto per la Corsica, per la Sardegna, per l’isola d’Elba, la presenza dell’Accademia Navale e della nave scuola Amerigo Vespucci contribuiscono a vivacizzare la città. Per chi non li conosce, i livornesi sono ancora più spontanei degli altri toscani, e poi, amano mettere tutto in burla, che è il lascito più profondo e importante della mentalità ebraica, del tabù linguistico ebraico, un modo allusivo e antifrastico di parlare grazie anche all’insediamento di ebrei sefarditi (provenienti dalla Penisola Iberica a causa della diaspora) che avvenne nella città che si andava formando. I livornesi parlano, infatti, correntemente con ironia e al contrario, con antifrasi. I livornesi si considerano “atoscani”, hanno cioè una specie di inferiorità nei confronti delle altre città toscane perché sono un miscuglio fra “gente di coltello” (Livorno è nata intorno al 1500 come porto franco per volere di Cosimo de’ Medici perché Firenze avesse uno sbocco sul mare. Con l’occasione furono liberati dalle prigioni assassini, ladri e prostitute che, grazie alle leggi Livornine, ebbero un salvacondotto per formare la nuova città portuale) e “gente di cervello” per la vicinanza con Pisa dove c’era già una buona università.

 I livornesi si esprimono con grandiosità dissacrante per contrasto. Sono una “razzaccia” con origini multiculturali, poiché la città è stata sempre libera e ospitale con gli stranieri a qualsiasi etnia e religione appartenessero e è una delle poche città europee che non mai ha avuto il ghetto ebraico.

È la città in cui ha sede il settimanale satirico “Il Vernacoliere”. Fra i detti più famosi ”Più che morì ‘un si pole” – “La morte ci’ha a trovà vivi” – “Merda sei e merda tornerai” parafrasando “Cenere sei e cenere tornerai… “ fa capire il carattere dissacrante del livornese tipico.

Mi sono dilungata a parlare di Livorno perché si percepisce quanto sia amata dalla scrittrice tanto che la fa diventare uno dei personaggi principali di questo romanzo, insieme al suo vento di Libeccio, perché nonostante Alice Cappagli abbia lasciato la sua città natale intorno ai vent’anni per trasferirsi a Milano, si sa che i primi anni della vita sono quelli che più contano nella nostra formazione, non fosse altro per la nostalgia di quello che era e di come eravamo…

Il romanzo si snoda fra diverse situazioni antitetiche: nella casa del professore Luciano (nomen omen) Farnesi c’è tanta luce e lui da cieco, vede chiaramente molteplici aspetti della vita e capisce bene le persone, mentre, nella casa di Maria Vittoria (un nome composto: Maria che rimanda all’ubbidienza e Vittoria che rimanda al successo, alla riuscita), donna sensibile e intuitiva, c’è la penombra e la muffa che simbolicamente le inibiscono di vedere… finché ci sarà per lei un crescendo di luce che le permetterà attraverso il suo percorso personale il disvelamento.  Maria Vittoria è anche una cristiana osservante che ascolta con devozione le parole del suo confessore che le consiglia la pazienza in vita in attesa del risarcimento divino. Mentre il suo matrimonio andrà in pezzi la donna frequenterà la chiesa con più assiduità per trovare conforto e è proprio grazie alle indicazioni di Don Baracchini, che non ne può più delle sue esternazioni, che troverà il nuovo lavoro all’ufficio di collocamento dell’Acli.

Nella casa del professore trova il caos. Sapendo che questo romanzo l’ha scritto una musicista-filosofa, figlia di filosofo e che descrive la casa di un filosofo, il termine caos non l’ho preso alla lettera come confusione e disordine, ma come il disordine universale della materia, della tenebra, dell’abisso, necessario e precedente al mondo ordinato, il cosmo.

Gli antichi greci nella tragedia raccontavano situazioni paradossali, nelle quali un dono implicava sempre un castigo, e viceversa e la cecità rappresentava, nei miti, una sorta di compensazione attraverso il dono profetico: alcuni potevano vedere con gli occhi della mente, cioè avere una saggezza sconfinata e arrivare allo svelamento dell’invisibile… ricordiamo, per esempio, Tiresia l’indovino consultato nell’Odissea di Omero.

Cappagli ha utilizzato metaforicamente il concetto di cecità attraverso l’handicap fisico del professore di filosofia cieco e la “cecità psicologica” di Maria Vittoria.

L’essenziale è spesso invisibile agli occhi.

Maria Vittoria è cieca quanto il professore è vedente attraverso l’intelletto, il nous, “l’unica visione in grado di attingere la verità”, secondo Platone.

Sarà, quello di Maria Vittoria, un percorso di fioritura personale, un’illuminazione su chi realmente sente di essere e cosa vuole davvero fare. “Una casa senza luce non fa germogliare le speranze” dirà poi Maria Vittoria che alla fine troverà la sua strada e un nuovo compagno di vita, Angelo (in omen nomen).

Parallelamente, il professore da tempo malato, coccolato dal suo gruppo amici (Costantino, il Prigioniero e Aurora), e da vecchi studenti affezionati che gli fanno ancora visita e con cui continua a dibattere di filosofia, condurrà un percorso interiore di accettazione della morte e di avvicinamento al divino, mentre perde progressivamente i ricordi e la voglia di vivere. (vedi Hume Trattato sulla natura umana: “l'immaginazione non è tenuta allo stesso ordine e alla stessa forma delle impressioni relative; invece, la memoria è, in qualche modo, in condizione di inferiorità perché non può fare i mutamenti “)

Nonostante il professore sia ateo, quando accenderà una candela in chiesa in memoria di un suo nipote, il figlio della sorella emigrata negli Stati Uniti dirà a Maria Vittoria per giustificare il suo gesto:

Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce affatto.”

Questo romanzo, che può sembrare in una prima lettura quasi banale e scontato, contiene dentro di sé la forza delle idee di grandi filosofi.

La potenza di certi concetti è, secondo me, la bellezza di questo libro perché quando si parla del niente, in realtà si parla del tutto, riuscendo a trasfigurare la quotidianità in universale.

Questa storia di riscatto avviene attraverso un deus ex machina che può sembrare il professore, ma in realtà è la filosofia, la madre di tutte le scienze.

Il romanzo si alterna anche fra la descrizione di umili lavori domestici necessari alla vita pratica, pulire, fare la spesa e cucinare… una crostata diverrà un dolce privo di trabocchetti e di facile cattura… e la lettura di pillole di saggezza necessaria alla vita interiore.

A un certo punto della storia, ricompare Elisa, divenuta vegana, che annuncia di volersi rinchiudere in un monastero delle Oblate per un mese per ritrovare se stessa. Il padre utilizza la filosofia per farle capire le sue scelte di vita sbagliate e quando Elisa lo contraddice sostenendo che erano pensieri vecchi, scaduti, Il professore le dice:” Vita, morte, felicità o pace, non è roba che scade.” Sono convinta che sia un pensiero condivisibile da tutti e tutte.

Attraverso i pensieri del filosofo stoico di epoca romana Epitteto, del filosofo pessimista Schopenhauer con “il matrimonio è una trappola che la natura ci tende” oppure “Questo è il peggiore dei mondi possibili”, del filosofo idealista Hegel che nonostante la sua monumentale opera è liquidato con la frase “Non v’è grand’uomo per il suo maggiordomo”, di Epicuro, del razionalista Spinoza, della filosofia ottimista di Leibniz “Questo è il migliore dei mondi possibili” … dei Pensieri del matematico Blaise Pascal “L’uomo è naturalmente credulo, incredulo, timido e temerario” del pisano Galileo Galilei, dello stoico Lucio Anneo Seneca di Aristotele, dalla parola di Gesù :”Non di solo pane vive l’uomo”, del fondatore dello Stoicismo Zenone di Cizio, dell’ebreo francese Henri Louis Bergson… dell’empirista scozzese David Hume… di  Sant’Agostino “il tempo è l’estensione dell’anima”… dal desiderio di leggere I dialoghi con la Divina Provvidenza di Santa Caterina da Siena, arriviamo anche noi lettori e lettrici a desiderare di filosofare sulla vita in un percorso affascinante che porta alla domanda che si è fatto l’essere umano dalla sua comparsa sulla Terra: Chi sono? Cosa c’è dopo la morte? Cos’è il tempo?… ma la parte forse più avvincente è che attraverso pochi enunciati dei grandi pensatori riusciamo anche a trovare le risposte ai fatti più prosaici della vita.

La filosofia se può insegnare a vivere bene, può insegnare anche a morire bene.

Più la libreria del professore che all’inizio era zeppa di libri si svuota, perché i libri hanno un’anima solo se qualcuno li legge, e Luciano Farnesi distribuisce a piene mani la chiave per “vedere” più chiaramente, più la vita di Maria Vittoria si arricchisce e si riempie di letture e di progetti grazie alla sua nuova forza morale e all’autonomia acquisita tramite il lavoro e “una stanza tutta per lei”, parafrasando Virginia Woolf.

Un lato interessante del romanzo è l’assenza delle madri e la presenza, invece, di figure maschili di riferimento. La moglie di Luciano Farnesi, Laura, è morta prematuramente di incidente d’auto quando Elisa era adolescente, la madre di Maria Vittoria è emotivamente assente e crede di poter dare affetto solo cucinando per la famiglia, la suocera insensibile di Maria Vittoria si chiama Ernestina Malanima (ridalli con nomen omen…) e Elisa, la figlia del professore, è più madre del suo strumento musicale, la viola, che delle figlie adolescenti. La Vally, la zia materna di Elisa è solo una donna pragmatica e concentrata soprattutto su stessa. Poi ci sono, quella del KGB, la vicina pettegola, La moglie dispotica del prigioniero e Aurora, l’anziana docente amica del professore. 

Maria Vittoria esprimerà il suo lato materno, sempre che esista un materno innato, con il cane (Barolo/Aceto) della suocera prima, e attraverso la cura nei riguardi del professore che si avvia verso un lento declino, poi.

Questo libro è anche un romanzo di non amore e di amore con una morale sull’argomento: solo chi è ricco/a dentro può dare agli altri/e, e in più, il vuoto non esiste, o meglio, esiste solo per chi ce l’ha dentro.

Il romanzo affronta diverse tematiche importanti, fra cui il concetto del tempo, che è ripreso dal professore tramite anche la filosofia di Bergson.

Il padre della scrittrice è stato davvero un professore di filosofia non vedente che ha avuto una badante per qualche tempo sul genere della nostra protagonista e una parte autobiografica nel romanzo è evidente, anche per quanto riguarda la figlia di Luciano, Elisa, anch’essa musicista.

Nel suo secondo romanzo “Ricordati di Bach” del 2020, la scrittrice riprende la figura della madre come responsabile di avere procurato un danno permanente alla mano della figlia mediante un incidente automobilistico. In questi due romanzi le madri sono assenti o sono colpevoli. Povere madri: di frequente noi donne abbiamo o abbiamo avuto un rapporto difficile, anche doloroso con le proprie madri che a volte non basta una vita per metabolizzare e non è sufficiente neppure aver letto l’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro e altri saggi dello stesso genere.

A proposito della più ampia questione femminile, a questo punto mi piace riportare una frase del misogino Schopenhauer (che verso la fine della vita si era leggermente ricreduto) da L’arte di trattare le donne: “Non è affatto sbagliato in circostanze difficili chiedere consiglio alle donne, secondo l’uso degli antichi germani. Il loro modo di concepire le cose, infatti, è del tutto diverso da quello dell’uomo, in particolare per la tendenza femminile a prendere volentieri in considerazione la via più breve per raggiungere la meta…”

Avrei voluto terminare questa recensione con uno stralcio dalla Lettera a Mineceo di Epicuro ”Il più orribile dei mali, la morte, non è dunque nulla per noi, poiché quando noi siamo, la morte non c'è e quando c'è la morte, allora noi non siamo più. E così essa nulla importa né ai vivi, né ai nei morti, perché in quelli non c'è, questi non sono più.”, ma ha vinto il bellissimo concetto di Pascal di circa duemila anni dopo che nei Pensieri scrive: “Fra noi e l’inferno o il cielo non vi è frammezzo che la vita, che è la cosa più fragile del mondo”

Soverato, 5 marzo 2021

 
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