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AMORE
E RICONOSCIMENTO: LA VIOLENZA MASCHILE
E
IL SENSO DELLE NOSTRE RELAZIONI
maggio-giugno
2006
(Pubblicato
su Via Dogana, n. 78, Settembre 2006, pp. 21-23)
Marco
Deriu
Sempre
più spesso, guardando la televisione e leggendo il giornale,
riceviamo notizie di violenze terribili sulle donne che ci turbano e
ci sconvolgono, ma ai quali non riusciamo ad attribuire un reale
significato e che generano dunque reazioni e commenti inadeguati.
Occorre sottrarre questi eventi – che entrano spesso nel mondo
della comunicazione mass-mediatica con un misto di voyerismo,
morbosità e volgarità – alla dimensione della
cronaca nera e dell’informazione spettacolo per trovare le
risorse sociali e culturali per rielaborare il dolore e per trarne
qualche insegnamento per tutta la collettività.
Questi
ultimi mesi sono stati davvero impressionanti. Mi riferisco in primo
luogo alla tristissima vicenda di Jennifer, la ragazza ventenne di
Olmo di Martellago picchiata e uccisa incinta dall’ex amante
trentaquattrenne Lucio Niero. Ma ricordo anche altre vicende recenti.
Sempre in maggio abbiamo saputo prima dell’uccisione a Les
Crosets dell’ex campionessa di sci Corinne Rey-Bellet (insieme
al fratello e al ferimento della madre), anche lei incinta di tre
mesi, da parte dell’ex marito banchiere Gerold Stadler da cui
si era separata da una decina di giorni (e che si è poi ucciso
a sua volta). Poi c’è stato il caso di Genova dove
sempre agli inizi di maggio una donna di 36 anni, Luciana Biggi, è
stata assassinata nei vicoli del centro storico di Genova, forse
dall’ex fidanzato di 30 anni. Sempre nei primi giorni di maggio
era stata ritrovato, vicino ad un distributore di benzina a sud di
Roma, il cadavere decapitato di Patrizia Silvestri di 49 anni. Anche
in questo caso l’assassino sembra essere l’ex compagno,
un camionista di 30 anni che aveva lasciato due mesi prima.
Negli
ultimi anni si è registrata una catena di omicidi riguardanti
donne. In alcuni casi sono semplicemente mariti che uccidono mogli e
compagne per liti di qualsiasi genere. Ad Ancona nell’aprile
2006 un poliziotto di 44 anni uccide con una pistola la moglie di 39;
a Santi Cosma e Damiano (Latina) nel febbraio 2006 un uomo di 54 anni
uccide la moglie e il figlio con un fucile dopo una lite; a Roma nel
dicembre 2005 un uomo di 67 anni uccide (decapita) la moglie di 50
anni ed il figlio disabile; a Settimo Torinese nel dicembre 2005 un
uomo di 39 anni uccide la moglie di 34 a martellate mentre dormiva; a
Spregiano (Treviso) in dicembre 2005 un uomo di 65 anni ha ucciso la
moglie di 62 a colpi di bottiglia; a Mestre nel novembre 2005 un
carabiniere uccide con due colpi alla testa la moglie di 34 anni; a
Milano nel luglio 2005 (un uomo di 54 anni uccide a colpi di martello
la moglie di 45.
Al
di là della cronaca: una nuova questione maschile
Al
di là della cronaca ci sono due dati che val la pena
ricordare. Innanzitutto c’è l’indagine del
Consiglio d’Europa resa pubblica nell’ottobre 2005 che ha
rivelato che la violenza subita da partner, marito, fidanzato o padre
è la prima causa di morte e invalidità permanente per
le donne fra i 16 e i 44 anni (prima di tumori o di guerra) non solo
nel mondo ma anche in Europa.
In
secondo luogo si può sottolineare che secondo quanto emerge
nel rapporto “Lo Stato della Sicurezza in Italia” del
2005, mentre i dati relativi agli omicidi in Italia tra il luglio
2001 e il giugno 2005 registrano in termini generali una diminuzione
rispetto al 2
quadriennio
precedente, al contrario gli omicidi commessi nell’ambito
famigliare – pari a circa il 32% dei delitti dell’ultimo
quadriennio – sono letteralmente raddoppiati (nel 2004 tuttavia
c’è stata una leggera flessione rispetto al 2003).
Stiamo parlando dunque di un fenomeno attuale e non di un semplice
residuo del passato.
A
questo fatto si può aggiungere una specifica ulteriore che
mette in luce un aspetto di chiara novità. In molti casi
dietro questi omicidi contro donne c’è di mezzo anche
l’esperienza della separazione, del rifiuto, della scelta della
ex compagna di costruirsi un’altra vita. Oltre ai casi degli
ultimi mesi che abbiamo già citato si possono ricordare ancora
alcuni episodi: a Modena nel dicembre 2005 una ragazza di 19 anni
viene uccisa a coltellate dal fidanzato con il quale aveva deciso di
troncare il rapporto; a Chiasso (Torino) sempre nel novembre 2005 un
uomo di 39 anni uccide l’ex moglie di 38 anni con una pistola
davanti alla figlioletta; a Caiò di Cancello (Verona) un uomo
di 34 uccide strangola l’ex convivente di 32 anni e le dà
fuoco nella macchina; a Valeggio sul Mincio nell’ottobre 2005
un uomo di 37 anni uccide di botte una donna di 25 anni sua ex
convivente; a Torino un uomo di 31 uccide a coltellate la sua ex
fidanzata di 20 anni, entrambi marocchini; in settembre una donna
ecuadoriana di 33 anni a Cinisello Balsamo e una di 40 anni a Treviso
vengono uccise dei loro compagni. In entrambi i casi le donne erano
sul punto di porre termine alla relazione. E l’elenco potrebbe
continuare. Si tratta di alcuni casi fra quelli riportati nei
quotidiani. Ma possiamo anche prendere in considerazione le poche
indagini sistematiche compiute a questo riguardo per avere qualche
elemento in più.
Nella
ricerca svolta qualche anno fa dal Centro documentazione
dell’Eurispes in collaborazione con l’Associazione Ex
sono stati proposti una seri di dati relativi ad omicidi
familiari/parentali e “di coppia” (compagni o ex
compagni), accaduti tra gennaio e dicembre 2003. I dati del 2003
registrano 157 omicidi di cui 101 omicidi di coppia (111 secondo i
dati EURES). Fra questi ultimi gli autori erano in 87 casi uomini e
in 14 casi donne. Un particolare che si può cogliere è
che mentre gli omicidi da parte di donne riguardavano solo relazioni
in corso (7 tra coniugi, 4 tra conviventi, 3 tra amanti o fidanzati)
e nessun ex compagno o rivale, viceversa gli omicidi da parte di
uomini oltre a relazioni in corso (59 casi) riguardavano in ben 24
casi ex compagne (mogli, conviventi o amanti) e in 4 casi rivali. In
37 episodi si tratta di situazioni in cui gli uomini non accettano la
separazione attuata o imminente.
Nella
ricerca “L’omicidio volontario in Italia. Rapporto 2005”
curata dall’EURES in collaborazione con l’ANSA i dati
diversamente aggregati (dunque non completamente paragonabili)
registravano nel 2004 187 delitti maturati in “ambito
domestico” ovvero di coppia o tra familiari. In sostanza in
Italia c’è un omicidio “in famiglia” ogni
due giorni. Gli omicidi “di coppia” sono invece 100. Fra
questi gli uomini sono in 85 casi autori e in 17 casi vittime mentre
le donne sono in 15 casi autrici e in 83 casi vittime. Si può
notare inoltre che gli uomini hanno ucciso 17 ex partner (contro i 3
casi di donne) e in 1 caso la donna desiderata. Uomini sono anche gli
autori dei 12 episodi (in questa ricerca sono conteggiati fuori dai
100 omicidi di coppia) in cui le vittime sono stati i rivali
(maschi). Secondo questa ricerca gli episodi in cui il partner uccide
chi lo sta abbandonando sono addirittura 59 (il dato è
aggregato e non distingue tra uomini e donne).
Soltanto
qualche mese fa il quotidiano Liberazione aveva aperto un importante
dibattito sulla violenza maschile contro le donne. La discussione su
Liberazione, nella quale sono intervenuti per la prima volta anche
molti uomini, ha avuto un grande merito, quello di spostare il fuoco
dell’attenzione dalle vittime agli aggressori, nella stragrande
maggioranza dei casi uomini. In effetti nelle cronache quotidiane
curiosamente non si approfondisce mai cosa questi casi ci dicono
dello stato delle relazioni tra uomini e donne, si preferisce parlare
di queste vicende come se si trattasse ogni volta di casi isolati
dovuti al comportamento di individui malati o
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alterati.
Finché si può proiettare il male su qualcun altro
evitiamo di interrogare anche noi stessi e le nostre relazioni.
Nelle
cronache quotidiane infatti nessuno si è azzardato finora a
sottolineare che siamo di fronte ad una nuova e irrimandabile
“questione maschile” che rimane in verità ancora
da comprendere. Una questione che non può essere affidata
semplicemente ad aule giudiziarie o a divisioni psichiatriche, ma che
interroga la società nel suo complesso e gli uomini in
particolare. Dunque si può avanzare qualche ipotesi in
proposito.
Violenze
post-patriarcali?
Nell’analisi
di questa violenza dobbiamo anche evitare di rifugiarci in
semplificazioni automatiche, come se si trattasse di forme già
conosciute, di residui di mentalità passate, di antichi
retaggi. È vero che nella cultura patriarcale le violenze
verso le donne ci sono sempre state. Ma questa violenza non sembra
essere il risultato di uomini che ritengono le donne inferiori,
qualcosa da sottomettere, come poteva essere in passato. Stiamo
parlando di violenze commesse da persone di ogni strato sociale,
acculturate e con titoli di studio. Del resto altrimenti non si
capirebbe perché questo problema riguarda molti paesi europei
dalla Spagna all’Italia, dalla Svizzera alla Svezia e non solo
paesi poveri o periferie degradate delle nostre metropoli. Né
d’altra parte si capirebbe perché la maggior parte degli
omicidi domestici avviene nel Nord Italia e in particolare in
Lombardia, ovvero in regioni ricche e avanzate. Dunque non è
una violenza dovuta all’emarginazione o all’ignoranza di
esseri diversi ed alieni che ancora nel XXI secolo a Milano, a Roma,
a Torino, come a Madrid, Barcellona, Helsinki e a Stoccolma, guardano
alla donna come essere inferiore.
Io
credo invece che stiamo assistendo ad una trasformazione delle forme
e dei significati di questa violenza che ci parla anche del
cambiamento nella vita delle donne, degli uomini e delle relazioni
tra uomini e donne.
Oggi
siamo in una situazione caratterizzata da quelle che il sociologo
inglese Anthony Giddens chiama “relazioni pure”. Per
relazioni pure si intendono relazioni non dettate da obblighi sociali
o economici (o almeno non come in passato). Grazie ai cambiamenti
culturali e ad una maggiore autonomia economica e sociale, le
relazioni oggi si fondano sempre più sulla comunicazione e
sull’intesa emozionale. Tale intesa in passato non era la base
su cui si sostanziavano i legami di coppia o familiari che
rispondevano invece ad altre priorità, oggi al contrario ne è
pressoché l’unico presupposto e fondamento. Questo
spiega almeno in parte la trasformazione, l’incertezza e la
volubilità delle relazioni tra uomini e donne, nonché
la pluralità delle forme di legame affettivo e famigliare.
In
passato le relazioni tra uomini e donne erano costruite su ruoli,
obblighi sociali, progetti famigliari, calcoli economici, relazioni
di potere e talvolta di coercizione. Non che tutto questo si possa
dire completamente scomparso, ma certamente oggi i legami tra donne e
uomini, compresi quelli famigliari, si fondano in misura molto più
rilevante su dimensioni emotive, sulla capacità di
comunicazione e comprensione reciproca, su rapporti di intimità,
sulla fiducia e sul rispetto, sulla disponibilità al dialogo e
sull’adattamento reciproco. In altre parole il rapporto di
coppia non è dato una volta per tutte ma è frutto di un
dialogo, di una contrattazione, di un’intesa e di una fiducia
che va costantemente riaffermata. Alla costruzione di questa
condizione ha dato un contributo fondamentale il movimento delle
donne e l’avvento del senso di libertà, di autonomia e
di differenza che le donne hanno saputo imporre a tutta la società.
La
novità che abbiamo di fronte agli occhi e che dobbiamo
riconoscere è che, a fianco della violenza che colpisce donne
in situazione di marginalità sociale, oggi registriamo una
violenza che sembra nascere dall’incapacità soprattutto
da parte degli
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uomini
di accettare e accogliere un’autonomia e una libertà già
entrate nella vita di molte donne. La violenza oggi comincia a
colpire la donna che non accetta più di costituire il supporto
permanente dei bisogni dell’uomo dentro e fuori la coppia. La
violenza maschile si riversa sulla donna che – a torto o a
ragione - apre conflitti e pone in questione l’uomo, la donna
che decide di lasciare il proprio compagno, la donna che cerca di
rifarsi una vita da sola o con qualcun altro, la donna che decide di
portare avanti autonomamente la sua gravidanza. In qualche caso –
ma su questo bisognerebbe aprire un ragionamento a parte perché
la questione è più complessa e contraddittoria - anche
l’affidamento e la relazione coi figli diventano un ulteriore
elemento di conflitto e di risentimento (i dati registrano 4
situazioni di questo genere nel 2004 e 5 nel 2003). Stando al
rapporto dell’EURES i casi in cui il fattore scatenante sarebbe
dovuto alla decisione di separazione da parte della vittima
coprirebbero nel 2004 circa il 31,6% degli episodi di omicidi in
ambiente domestico. Questo problema riguarda soprattutto gli uomini e
suggerisce così abbastanza chiaramente la realtà di una
maggiore dipendenza psicologica e una minore autonomia da parte
maschile.
Dunque
credo che il tipo di violenza che abbiamo di fronte agli occhi non
sia una semplice riproposizione della cultura e del potere
patriarcali. Questa violenza non implica alcun rifiuto
dell’uguaglianza tra i sessi e tanto meno un pregiudizio di
inferiorità verso la donna. Al contrario, si potrebbe dire,
rileva un riconoscimento della compiuta autonomia femminile, e semmai
un senso di inadeguatezza e una certa difficoltà degli uomini
ad accettare nel proprio quotidiano la differenza e la libertà
nei rapporti con le donne. Non sto parlando di differenze
stereotipate, di “ruoli sessuali” ma della libertà
della donna di essere se stessa, di pensare con la propria testa, di
avere i propri sentimenti e desideri, e anche di differire dai
modelli maschili, dai valori della società degli uomini e
anche dall’immagine di sé che l’uomo vorrebbe
affibbiarle.
È
facile naturalmente riconoscere una certa continuità di questa
violenza con la violenza tradizionale maschile di tipo patriarcale,
ma quello che voglio sottolineare è che al contempo si sta
manifestando una discontinuità importante: questa violenza
parla sempre più di una mancata rielaborazione e di un affanno
maschile di fronte ad una libertà femminile piuttosto che non
di un potere maschile e di una sottomissione femminile. I termini di
questa violenza sono cambiati. E forse proprio per questo assume
forme sempre più efferate e incontrollate.
Cancellare
l’alterità piuttosto che riconoscerla
Riportando
questo ragionamento alla sfera delle relazioni credo che oggi come
oggi gli uomini commettano violenza soprattutto perché non
accettano la differenza, ovvero non accettano l’alterità
della propria compagna. Non accettano che la donna che hanno di
fronte non sia semplicemente una continuazione, un riflesso del
proprio desiderio o dei propri bisogni. Non accettano che essa possa
scegliere in base al suo desiderio e che questo desiderio non
coincida con il proprio. In questo scacco – e nel conseguente
senso di “impotenza” verso l’autonomia e la libertà
femminile - emerge tutta la dipendenza, la fragilità e
l’insicurezza rimossa degli uomini. Poiché tutti questi
aspetti sono ancora intollerabili per molti uomini, li si nega ancora
una volta tramite la violenza. Si potrebbe dire che molti uomini
preferiscono
cancellare l’alterità piuttosto che riconoscerla e
accettare così la propria parzialità,
la propria vulnerabilità, la propria impotenza. In questo
senso la
violenza maschile sulle donne è un tentativo di cancellare la
differenza e non l’uguaglianza.
Ciò
che è difficile per gli uomini oggi non è riconoscere
che le donne hanno pari dignità o valore degli uomini. Ciò
che è difficile è stare di fronte ad una donna ed
accettare che essa è altro da noi. Ebbene io credo che la
relazione vera e propria può nascere solo nel momento in cui
ogni uomo riconosce che la donna che ha di fronte
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non
è una sua proiezione o un suo oggetto e che essa può
differire da lui in tante cose. Solo a quel punto può
cominciare una relazione ed uno scambio reale e nonviolento. Dunque
accettare la libertà di differire della donna, accettare la
propria parzialità e limitatezza e accettare una relazione
reale sono tre aspetti intimamente connessi. Da questo punto di
vista, questa violenza, in un modo o nell’altro, ci interroga
tutti. Non si tratta quindi di prendere le distanze da una violenza
che sta fuori di noi, che appartiene “agli altri”, agli
“uomini violenti”, ma piuttosto di fare realmente i conti
con una possibilità che è inscritta nella cultura
comune. L’episodio di violenza da questo punto di vista è
soltanto una delle possibili conclusioni. Il dato comune a tutti, non
è l’episodio conclusivo della violenza, ma ciò
che la precede: la concezione della coppia, dell’amore, della
relazione. Ciò che ci sembra normale perché non si
manifesta nella forma della violenza esplicita e del crimine, ma che
probabilmente è invece all’origine del problema.
Quello
che noi uomini possiamo fare dunque è cominciare a parlare
delle nostre modalità relazionali, di come siamo nelle
relazioni, di come costruiamo le relazioni, di come le neghiamo, di
come ne fuggiamo. Dobbiamo chiederci in che misura siamo riusciti ad
accogliere la libertà e il libero desiderio delle donne nelle
nostre relazioni e nel nostro modo di amare.
Relazioni
affettive: dalla simbiosi al valore del negativo
Noi
uomini dobbiamo dunque divenire più maturi nell’interrogare
le nostre relazioni affettive. Credo il problema nasca infatti dal
fatto che molti uomini, e talvolta anche le donne, pensano alle
relazioni d’amore come a relazioni simbiotiche. Con “relazione
simbiotica” intendo una relazione in cui c’è
implicitamente una coincidenza dell’altro con sé e di sé
con sé. Non è ammesso il “differire” né
fuori di sé né in sé. La situazione di simbiosi
si ha quando due esseri vivono in una relazione talmente stretta e
totalizzante da abolire il sentimento e l’esperienza della
differenza. L’effetto che se ne trae è una situazione
protettiva e difensiva, spesso anche un senso di sicurezza maggiore
verso la vita e il mondo. Il costo tuttavia è la rinuncia alla
conoscenza dell’altra persona e di sé, la menomazione di
parti importanti di entrambi. Credo sia a questo genere di situazione
che si riferisce Lea Melandri quando parla di un “sogno di
comunione”. In effetti credo anch’io che questo tipo di
relazioni simbiotiche o fusionali possano essere viste come la
riproposizione o la continuazione della relazione prenatale e
infantile del figlio con la madre. L’altro soggetto è
vissuto come necessario per la propria nutrizione e sopravvivenza.
Senza soluzione di continuità con il proprio mondo o al limite
come appendice esterna, pur sempre necessaria. Per l’uomo, la
donna rappresenta tra l’altro il rifugio accogliente e
comprensivo rispetto alla spietatezza e alla competitività del
mondo “esterno” del lavoro, della burocrazia.
L’altra/o
non è percepita/o nella sua autonomia, nella sua alterità
ma come appendice di sé. Il desiderio altrui non esiste se non
come obbligato prolungamento del proprio. In questi termini il
rapporto può essere complementare o simmetrico. Nel primo caso
uno dei due soggetti – in genere la donna - rinuncia a sé
per soddisfare l’altro. Può naturalmente trovare a sua
volta una parziale realizzazione in questo soddisfacimento proiettivo
e una gratificazione nell’essere garanzia del benessere altrui.
Nel secondo caso – quello di una relazione simbiotica
simmetrica - è all’opera una dinamica di conformismo e
adattamento reciproco. È un sistema chiuso e complementare in
cui ciascuno gode dell’essere nutrimento e soddisfacimento
dell’altro/a. In entrambi i casi, quello complementare e quello
simmetrico, si registra comunque almeno fino ad un certo punto una
situazione di complicità tra i partner.
La
percezione interiore e emotiva è quella del tutto pieno. Non
c’è né ci può essere una percezione forte
del negativo, della frattura, della ferita, dell’assenza, della
mancanza, del vuoto. In questa illusione di trasparenza e di
pienezza, si attua la
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rimozione
del mistero dell’altro/a. Non si è consapevoli
dell’esistenza del mondo interiore della persona che amiamo, di
possibili desideri, aspirazioni, bisogni autonomi e non sospettati.
Allo stesso tempo questa mancanza di riconoscimento dell’altra
persona coincide con la perdita anche di una percezione di se stessi.
Ma
in questa condizione, l’esperienza dell’abbandono, della
fine della relazione, può diventare qualcosa di sconvolgente e
intollerabile. Perché con la fine della relazione simbiotica
può andare in frantumi anche il senso di sé e il senso
della realtà. Per questo motivo, piuttosto che riconoscere la
propria dipendenza da una donna, di rimettere in discussione il
proprio senso di sé, piuttosto che rivedere criticamente la
propria idea di relazione d’amore, gli uomini preferiscono
rifugiarsi nella violenza. Credo che la paura di riconoscere la
propria dipendenza e l’angoscia prodotta dall’idea di
abbandono siano due aspetti dello stesso analfabetismo relazionale
degli uomini che in questa costante oscillazione tra due estremi
produce ansia di controllo ed episodi di violenza. Il carattere non
solo di impotenza ma anche di intollerabilità di queste
situazioni emerge anche dai numerosi casi di omicidio-suicidio (che
si aggira attorno al 28%) diffusi soprattutto tra gli uomini. Essi
mostrano che non c’è solo rabbia verso le proprie ex
partner ma anche il crollo di un rapporto con se stessi e
contemporaneamente l’ammissione dell’incapacità di
uscire da una certa cornice di senso per individuare una forma di
esistenza per sé e per gli altri sulla base delle nuove
condizioni. La “motivazione passionale” che generalmente
viene attribuita ai gesti degli uomini dunque non spiega veramente il
vissuto psicologico e relazionale che sottostà a questi
episodi. Da questo punto di vista c’è ancora molta
strada da fare per comprendere psicologicamente che scegliere di
aprirsi veramente all’esperienza dell’incontro con un
autentico desiderio di un'altra persona significa nei fatti essere
disponibili ad incontrare anche la negazione, il disconoscimento e
dunque la frustrazione, il dolore, la solitudine.
L’anno
scorso le donne della comunità di Diotima hanno proposto il
tema del lavoro del negativo, della forza del negativo. Varrebbe la
pena declinare questo tema anche nelle esperienze delle relazioni
affettive tra uomini e donne. Se c’è un apprendimento in
amore, esso passa anche attraverso l’accettazione e
l’integrazione del negativo. Bisogna imparare a conoscere e a
conoscersi, attraversando esperienze d’ogni genere. Alcune
volte sono incontri, slanci, gioie, doni e condivisioni. Ma altre
volte sono invece delusioni, abbandoni, tradimenti, ferite, misteri
insondabili. Nella mia esperienza anche questi ultimi vissuti
dolorosi e negativi sono stati comunque passaggi fondamentali e
costitutivi perché mi hanno messo di fronte all’esperienza
del limite, della mia parzialità, del riconoscimento di altre
persone. Tali esperienze del limite ci incrinano l’illusione di
controllo sulla nostra vita, sulle relazioni, sulle persone. Ci
smontano la pretesa di poter disporre di ogni cosa a piacimento. Ci
permettono di dissolvere l’immagine di una relazione senza
vuoti e senza distanze che ci eravamo costruiti. Ci obbligano infine
ad ammettere una soglia di non comprensione, oltre la quale si deve
accettare l’altra persona per come si presenta o per come si
nega a noi, senza cercare ulteriori spiegazioni. Ma tutti questi
vissuti non sono esperienze perse, ma tappe di una maturazione,
necessarie per imparare ad amare, per divenire capaci di intrecciare
il proprio desiderio a quello di un’altra persona, senza
soffocare nessuno dei due.
Da
questo punto di vista dobbiamo smettere di guardare all’amore
semplicemente come a un affare di sentimenti, o come ad un’esperienza
immediata, spontanea. La spontaneità è semmai il
traguardo, non il punto di partenza. Prima c’è la
maturazione, che consiste nell’imparare a deporre le proprie
difese, le proprie sicurezze e le proprie pretese di controllo che
impediscono il riconoscimento e il rispetto di sé e dell’altra
persona. Costruire una civiltà delle relazioni tra uomini e
donne significa allora apprendere reciprocamente ad incontrarsi e a
lasciarsi, ad acconsentire alla vicinanza 7
e
alla distanza perché entrambe le cose – sempre e in
ciascun momento – sono insieme
condizioni
dell’amore.
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