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BIBLIOTECA
DELLE DONNE
Seminario
sul SOTTOSOPRA ROSSO
Premessa
Avrei
dovuto solo parlare a questo seminario, insieme a Patrizia (Greto) e
a Teresa (Ciaccio), ma ho dovuto prendere degli appunti, che sono
stati scritti per essere letti, ma l’emozione di dover parlare
(Marisa si è imposta) è stata troppo forte.
Mercoledì
scorso abbiamo premiato la migliore pagina di diario, è una cosa
voluta fortemente da Marisa (Rotiroti) come presidente FIDAPA, di cui
abbiamo condiviso il desiderio facendolo nostro. L’emozione che ho
provato nel sentire i pensieri di quelle piccole donne, mi ha fatto
ripensare a com’ero alla loro età…
Il
relazionarmi con queste donne più giovani era necessario anche per
poter parlare oggi. Quando leggiamo sul Sottosopra Rosso “Il
patriarcato è finito”, s’intende noi donne vogliamo che sia
finito un certo potere maschile perché non lo riconosciamo più. Un
qualcosa esiste se gli diamo credito, un riconoscimento…
Ma in
verità, a 16/17 anni pensavo che il patriarcato fosse davvero finito
in senso oggettivo. Credevo fosse un problema superato: donne
battagliere prima di me avevano combattuto negli anni Settanta per la
pratica dell’emancipazione e per la pratica della liberazione. Alla
mia generazione, io credevo, sarebbe stato sufficiente cogliere i
frutti del lavoro delle femministe e del movimento delle donne, per
essere libere.
A
differenza di alcune donne, non avevo neppure avuto esempi vicini di
patriarcato da combattere. I miei punti di riferimento erano donne
forti, a partire dalle mie bisnonne Caterina, Laudomia, Giulia,
Arcadia, nonne, Grazia, Alice, Le lie zie, Gloria, Adriana e Luciana
e infine mia madre Grazia. I proverbi della mia bisnonna Laudomia
sono i proverbi di casa mia. Mia nonna Alice, la madre di mia madre,
nonostante la sordità profonda ha lasciato il marito in Africa ed è
tornata in Italia con tre figli piccoli e ha mantenuto la famiglia
facendo la sarta.
Donne in
genere, lavoratrici in casa e fuori, che hanno mandato avanti la
famiglia a tutti i costi nonostante la vacuità dei propri uomini.
In
generale, posso dire che gli uomini di casa mia sono state figure più
di contorno che altro.
Mio padre
stesso, che si è dedicato tutta la vita alla famiglia, continua ad
essere un eterno ragazzino viziato.
Io sono
la maggiore di tre sorelle. Fin da piccole, avevamo uno stipendio da
gestire, verso i 15 anni abbiamo iniziato a guadagnare lavorando
nella ditta dei miei, quel tanto che ci serviva per toglierci alcune
soddisfazioni. (viaggi, oggetti anche costosi…)
Nella mia
famiglia, a partire dalle mie nonne e le mie zie, c’è sempre stata
una maggioranza femminile significativa, di un certo spessore,
indipendente economicamente.
A casa
non si sono mai fatti discorsi maschilisti, i miei genitori hanno
sempre cercato di infonderci sicurezza, qualche raccomandazione,
divieti pochi, forse nessuno.
Noi tre
sorelle ci sentivamo molto libere, senza padri padroni, fratelli
gelosi, madri silenziose. Anzi, mia madre è sempre stata una donna
vitale, solare, aperta, lavoratrice e sensuale, un aspetto che ho
accettato solo da alcuni anni. Questa libertà che ho avuto, questo
esercizio di libertà in termini di assunzione di responsabilità ha
fatto sì che la mia etica è stata molto rigorosa, ho preteso molto
da me stessa, non sono stata indulgente, non ho dato spazio ai miei
desideri. Durante la mia adolescenza non mi sono posta il problema
dell’esistenza del patriarcato perché non esisteva più per le
ragazze della mia generazione e per le donne che avevano percorso un
certo cammino. In accordo con la mia età ero piena di contraddizioni
e non sapevo in realtà cosa volevo, a quel tempo avevo letto “Porci
con le ali” di Lidia Ravera, da qui il concetto di libertà
sessuale e assenza di tabù, concetti ripeto, perché la mia morale
laica non mi lasciava poi tanto spazio…
Avevo il
manifesto del Che in camera perché faceva tendenza, come si dice
adesso, mi vestivo all’usato, ma avevo i foulards firmati, sentivo
gli Inti Illimani, conoscevo a memoria le canzoni di Guccini e De
Gregori, ma anche quelle di Battisti.
L’esistenza
dell’uguaglianza giuridica, mi faceva sentire una ragazza libera,
nel senso di emancipata, uguale ai miei compagni maschi.
L’omologazione al genere maschile mi sembrava, ma sembrava anche a
molte mie amiche un fatto doveroso, necessario per entrare a pieno
titolo nel mondo.
Non ho
usato a caso le parole emancipata e uguale, perchè erano termini
abusati nei discorsi femministi, e allora mi sembravano parole di
conquista, forse lo erano, ma evidentemente non ero andata oltre,
pensavo che l’intelligenza non avesse un genere, la cultura fosse
neutra.
Quando
Assunta (Di Cunsolo) ha parlato sul Sottosopra Verde ha detto che per
le donne entrare nel mondo degli uomini significa rinunciare al
proprio corpo, in effetti anch’io, dato che volevo l’uguaglianza
con gli uomini, una parola brutta, oggi che peso di più le parole,
cercavo di attenuare quelle evidenti differenze esteriori che mi
facevano diventare oggetto di desiderio, cercavo di nascondere la mia
femminilità perché la consideravo un’arte subdola, volevo essere
giudicata, accettata dagli uomini, il giudizio delle donne mi premeva
di meno..
Volevo
che mi si riconoscesse un’identità. Se leggiamo a metà della
prima colonna, troviamo che il dominio offre identità a chi lo
esercita, ma anche a chi lo subisce.
Se
davvero non riconosciamo più l’esistenza del patriarcato, allora
non può più essere datore di identità, evidentemente c’erano
delle contraddizioni in me, pensavo di essere libera, ma in realtà
non lo ero.
Non che
cercassi proprio un consenso dagli uomini, perché ho stimato in
genere più le donne, ma il fatto che detenevano il potere economico,
quello politico e quello legislativo, mi faceva desiderare una
ratifica imparziale, un riconoscimento di un cervello asessuato, di
una persona con il corpo in secondo piano.
Questa
rivoluzione di genere basata sull’adeguamento ai modelli maschili,
ai miei occhi sembrava una grande battaglia.
Adesso so
che si deve evitare l’imitazione, che porta alla logorazione,
adesso non m’interessa proprio per niente.
Il mio
periodo universitario ha coinciso con i “meravigliosi anni
Ottanta”. Ho scelto una facoltà frequentata principalmente da
ragazzi, Economia e Commercio, nonostante la mia passione sia sempre
stata Architettura, che allora era considerata troppo politicizzata e
quindi non frequentabile.
In quel
periodo mi è sembrato di vivere fuori dal mondo e dentro la finanza.
In quella
particolare facoltà (Villa Favard, ricca di specchi, stucchi dorati
e affreschi) a Firenze, in quel determinato momento storico, noi
studenti ci sentivamo chi più chi meno, i futuri uomini e donne in
carriera.
Erano
banditi i jeans, si frequentava la facoltà con i pantaloni di
vigogna, giacca blu con lo stemma della Regina Elisabetta sul
taschino e la valigetta 24 ore. Sui tavoli dell’elegante,
affrescata biblioteca leggevamo La Repubblica, Il Sole 24 ore,
Capital, L’espresso, Panorama, i “Novella 2000” dell’economia.
Sapevamo tutto su Agnelli, De Benedetti, Benetton, Calvi, Sindona, lo
IOR, il cardinale Marcinkus, i fondi neri… le banche nei paesi
esotici…
I nostri
punti di riferimento erano i geni della finanza, i manager con master
americani, i nostri docenti erano i dottori commercialisti e gli
avvocati più quotati di Firenze, facenti parte di logge massoniche,
dei Lions , Rotary…
Tutti
uomini, non c’erano donne da prendere con esempio per noi ragazze.
Le poche donne della facoltà, me compresa, desideravano essere donne
manager, disposte a sacrificare tempo, famiglia, vita, nella
competizione degli uomini.
Ma se
uguaglianza significa instaurare un rapporto simmetrico, significa
competizione, fino a quando le donne
saranno costrette a vivere nella strettoia fra lo stare alla
competizione per essere autonome da una parte e dall’altra
continuare ad attendere all’antica opera femminile della civiltà
quotidiana? (Si legge a pag. 4) Fino a quando faremo sacrificio?
Finchè
non avremo il senso della differenza femminile.
Ero
consapevole della ricchezza della differenza femminile, sentivo che
possedevamo un qualcosa in più…non in meno. Pensavo a mia madre,
che a quei tempi odiavo e amavo per tutta quella sua dedizione alla
casa, alla famiglia, al marito, al lavoro, da diventare quasi
un’isterica. Con la sua mania dell’ordine cancellava ogni traccia
di vita…
Mi dicevo
che mai le avrei assomigliato, adesso trovo tante di quelle
somiglianze…
In
concetto freudiano dell’invidia del pene, non l’ho fatto mai mio,
anzi l’ho sempre rigettato. Oggi mi piace pensare che noi donne
siamo a tutto tondo, la nostra circolarità ci apre molti orizzonti.
Ma allo stesso tempo, visto che esistevano le opportunità, per
entrare soprattutto nel mondo del lavoro e quindi nel mondo, dovevo
adeguarmi ad un certo modello maschile. Mi sentivo sicura di fare la
scelta giusta perché mi sembrava che non ci fossero alternative: O
dentro o fuori.
Forse
perché è più facile integrarsi che modificare il sistema, lo
status quo.
Dopo la
laurea ho iniziato a lavorare nell’azienda di mio marito come
direttrice commerciale nel settore industria…non avevo terminato,
si può dire di scartare i regali di nozze, che già avevo un ruolo
che richiedeva molta responsabilità e autorità.
Mi
sentivo inadeguata, fuori luogo. Col tempo mi sono creata un gruppo
di donne che ha collaborato con me in modo molto professionale:
Daniela che aveva sei o sette anni meno di me, era sveglia, veloce e
preparata. Era la mia collaboratrice e viveva sola. Poi Maria, la
ragioniera, Anna, la signora Rosa delle pulizie e Annabella una
ragazza sicura di sè laureata in chimica a Firenze.
Senza
averlo mai ammesso, perseguivamo il sogno di crearci un regno, un
luogo nostro. Abbiamo cercato di femminilizzare anche esteriormente
con quadri ,piante e fiori un ambiente maschile che sentivamo ostile
e che ci ha ostacolato a tal punto nel nostro lavoro che non c’era
più un rapporto fra noi e gli altri… come per esempio i
magazzinieri che ci fornivano dati a casaccio degli inventari,
facendo conti alla “femminina” che tradotto in dialetto significa
alla buona, non esatto.
Questa
parola, “alla femminina” quando la sento mi fa venire voglia di
picchiare chi la pronuncia.
Ho
dedicato dieci ore al giorno e anche di più per cinque anni della
mia vita a questo lavoro. Durante questi anni, era presente, anche se
non l’avevo allora avvertita, l’invidia delle altre donne che
stavano faticosamente cercando un lavoro, una loro autonomia e anche
di quelle che non l’avevano cercata, ma l’avrebbero voluta e che
io avevo trovato così facilmente, probabilmente senza meritarla.
Il
sostegno di qualche altra donna sarebbe stato importante, qualcuna
che mi avesse detto: vai avanti! O che mi avesse insegnato a
porgermi di fronte alla realtà in maniera diversa.
A pag. 2
del Sottosopra Rosso troviamo che le donne italiane sono le meno
prolifiche e le più laboriose del mondo intero… Per otto anni sono
stata senza avere figli, ho dedicato tutta me stessa al lavoro
cercando la perfezione. Stavo tutto il giorno fuori casa, ma tenevo
più di cento vasi sul terrazzo, ricevevo con molta frequenza
cucinando anche di notte per il giorno dopo, mi occupavo
dell’organizzazione di casa, della ristrutturazione della nuova
casa, lavanderia, spesa… insomma facevo quello che fanno le
donne lavoratrici che hanno una famiglia e che ha sempre fatto mia
madre.
Mi
sentivo tanto perfettina, ordinata, precisa, ho sempre preteso molto
da me stessa. Renate Gochel sostiene che gli attacchi bulimici sono
ricorrenti in donne di questo tipo, donne che con la loro mania
dell’ordine e del pulito cancellano ogni traccia di vita dalle loro
case.
Ero una
donna cosidetta emancipata, logorata dallo sforzo di adattamento, non
certamente libera.
Questa
continua imitazione, adeguamento ai modelli maschili, la sensazione
di essere al posto sbagliato, di non aver dato voce ai miei desideri,
che non erano quelli di stare solo a contatto con bilanci e
percentuali, la sensazione di essere trattata con sufficienza da una
certa categoria di uomini e con troppa galanteria dagli altri, quando
si doveva trattare solo di lavoro, l’assenza di confronto con le
altre donne mi ha fatto comprendere lo scacco.
Ho
lasciato il posto e relativo stipendio senza prospettiva sicura per
il futuro.
La
sensazione di libertà quando decisi di essere libera fu bellissima i
primi giorni. Per prima cosa dovevo trovare il tempo per me, il
partire da me, desideravo il lusso di essere amica di me stessa.
Pensare
io sono donna e so dove voglio andare, è anche un atto di rottura
con i ruoli stabiliti, si afferma la propria soggettività e libertà,
è un’assunzione di esperienza con la propria parola, è una
pratica politica. Lia Cigarini sostiene infatti che proprio il
partire da sè e la politica delle relazioni è politica, la
politica prima. Mentre la politica secondaria è quella
ufficiale, quella intesa tradizionalmente.
Il
valore, il peso, esiste nella politica prima, (cioè nel partire da
sé, in quella delle relazioni) il problema semmai c’è
nell’individuare il peso della politica seconda e nel rapporto che
intercorre fra le due.
Tra
queste due politiche non ci può essere complementarietà, ma
conflitto perché il potere su cui ruota la politica dei partiti non
si rende secondo a nessuno, non è subalterno e nemmeno
complementare.
Non si
può inoltre disconoscere l’importanza della politica seconda, non
possiamo ridurla all’insignificanza.
Questa
divaricazione fra politica del partire da sé e delle relazioni e la
politica ufficiale è un problema che il movimento delle donne riesce
a superare tra politica del partire da sé e politica” generale”.
Inoltre
la politica secondaria, quella ordinata dal potere, coinciderebbe con
l’ambito istituzionale. Questo Sottosopra Rosso ci suggerisce di
guardare a questo problema analizzando il potere di uomini e donne in
questo momento di fine del patriarcato.
La crisi
della capacità di produzione simbolica del potere ha portato a una
certa reazione “selvaggia” poco regolata da parte degli uomini.
Luisa Muraro, in un seminario alla Libreria delle donne di Milano per
discutere questo Sottosopra Rosso ha sostenuto come riporta Ida
Dominijanni in un articolo sul Manifesto del giugno ’96 ( un
articolo che mi ha fatto leggere Marisa R.) che è da questa reazione
l’ossessione delle regole che abita la politica, come se le regole
potessero sostituire, surrogare una ormai insufficiente capacità di
produzione simbolica. Le regole hanno finito di imbrigliare chi una
certa competenza sociale ce l’ha… (vedi una legiferazione
continua sull’infanzia, sulla famiglia…)
Tornando
a me, devo ammettere di avere attraversato momenti difficili di
frustrazione. Analizzando il bilancio della mia vita non trovavo
molto di positivo: senza la ricchezza di aver generato dei figli,
senza sogni realizzati, senza lavoro, senza indipendenza, e quindi
ancora senza libertà e lontana dagli affetti più cari.
Col senno
di poi, non so se oggi riuscirei a rinunciare ad un lavoro anche se
poco gratificante, senza la prospettiva di un altro. Nessuno mi ha
fatto pesare niente, ma è pesato a me e tanto basta.
I miei
genitori c’erano rimasti davvero male. Non penserai di fare la
casalinga! Erano le parole di mia madre e di mio padre. Non erano mai
stati contenti che lavorassi con mio marito, ma non si erano
intromessi. Le mie sicurezze erano diventate insicurezze. Ero
frustrata di non aver dato spazio al desiderio. I miei genitori erano
felici se io ero felice, ed io non ero felice, anzi, ma gli scacchi
rappresentano una scala per salire.
È di
questo periodo il mio ingresso in FIDAPA. Un ingresso casuale, non
cercato nella Soverato salottiera. Se avessi avuto ancora il mio
lavoro che assorbiva tutte le mie energie, non so se sarei entrata
nell’associazione. All’interno del gruppo conoscevo solo un paio
di persone e nei primi tempi, la mia frequentazione è consistita nel
presenziare a qualche manifestazione.
Gradualmente
sono entrata in relazione con tutte le donne. Non ci sono stati
pregiudizi da parte mia, anzi ero ben disposta nel cogliere tutti gli
aspetti positivi. Le donne della Fidapa erano piacevoli, aperte,
disponibili, femminili, gioiose, determinate, sicure di sé. Mi sono
accorta di stare bene e mi divertivo.
Questa
relazione non amicale in un luogo separato mi ha dato molto. I temi
trattati dalla FIDAPA mi interessavano, la donna e il lavoro, la
donna e la città… Devo riconoscere un debito alle donne che mi
hanno preceduto in questo cammino, soprattutto verso Marisa Rotiroti,
con la quale ho avuto contatti frequenti e significativi. Questa
relazione verticale con lei, ha funzionato. Le riconosco oggi
l’autorevolezza di aver messo in moto delle cose. Con la sua
vitalità ha portato me, ma credo anche tutte le altre donne verso
l’idea della Biblioteca delle Donne.
La
prospettiva di una biblioteca “speciale” a Soverato era
entusiasmante. Mi sembrava però così irraggiungibile,
irrealizzabile. I tempi erano lunghi, ma il desiderio…quanta forza
possiede il desiderio di una quando viene condiviso da altre!
Oggi si
può dire che donne autorevoli abbiano realizzato i desideri di altre
donne. E di donne autorevoli, ce ne sono in questo luogo. Si è
trattato di una mediazione femminile che intendeva creare una società
femminile.
C’è
stato un momento che mi si è offerta l’opportunità di ritornare a
Firenze per lavoro, ma questa Biblioteca e il rapporto che ho con
queste donne che stimo, hanno contribuito a tenermi qui. Per il
momento desidero vedere questo sogno realizzato e desidero
realizzarmi anch’io in questa impresa. Adesso che La Biblioteca
esiste e vedo i libri negli scaffali, che vedo le donne, le ragazze
frequentare questo luogo, percepisco il senso di questa Biblioteca,
come luogo dell’autorità femminile, dove si è accumulato un
sapere di donne e una genealogia femminile. È un luogo di tutte e di
tutti, ma noi donne ci viviamo con agio.
Per
merito di questa iniziativa e di questo luogo sono venuta a contatto
con altre donne, le donne di Kore che hanno alle spalle un percorso
di politica delle donne anche più forte. La relazione anche con loro
mi ha fatto essere più “intelligente”, più autonoma, più
sicura, più felice, più appagata perché vi ci
riconosco un qualcosa di diverso, anche di più. È nella relazione
donna con donna che si forma il senso libero della differenza
femminile. Senza quella non potremmo parlare neppure di libertà
femminile. Questa pratica della separazione, non di separatismo, mi è
servita per vivere momenti separati fra donne, per capire meglio, per
decidere in autonomia, per stimolarmi e anche per divertirmi
semplicemente.
Soverato,
Aprile 1997
Paola
Nucciarelli
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