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CAPITOLO 1

Biblioteca delle donne

Kore-Fidapa di Soverato



Progetto Donna - Regione Calabria




PERCORSI

DI GRUPPI ORGANIZZATI DI DONNE NELLA PROVINCIA DI CATANZARO






Maria Marino

Giovanna Vingelli


Introduzione di Amelia Paparazzo


Postfazione di Renate Siebert









«...io voglio comprendere. E quando altri comprendono nello stesso modo in cui io ho compreso – allora provo una soddisfazione comparabile a quella che si prova quando ci si sente a casa propria». Hannah Arendt, Munchen 1976.


Con le parole di Arendt vogliamo esprimere motivazione e senso del luogo che dieci anni fa abbiamo costruito e indicato col nome di Biblioteca delle Donne di Soverato.

Così anche la ricerca che presentiamo in questo testo trova la sua giustificazione primaria nella pre-sunzione di voler comprendere/comunicare in una sorta di progressivo avvitamento a spirale via via più ampia. La difficoltà è trovare il modo di comunicare con le giovani, l’urgenza è comprendere insieme, la speranza è costruire luoghi sempre più capienti in cui potersi sentire finalmente a casa.

La ricerca, condotta sui gruppi organizzati di donne nella provincia di Catanzaro a partire dagli anni ’60 e fino alle soglie del 2000, non ha la pretesa di esaurire i contributi prodotti dalle associazioni nel territorio nè di spiegare i motivi che hanno spinto tante a costruire luoghi di aggregazione tutti al femminile. Piuttosto vuole dare conto di una realtà che, più o meno consapevolmente e al di là della diversità dei percorsi, ha ritenuto che lo strumento per cambiare l’esistente fosse da ricercare nel luogo separato capace di accomunare esperienze, necessità, linguaggi.

La ricerca è stata finanziata dal Progetto Donna della Regione Calabria ed è dedicata alle giovani, alle quali vogliamo offrire la trasmissione di una passione che ha segnato e cambiato la vita alle loro nonne e madri, e alle loro docenti che erano giovani quaranta o trenta anni fa, mai rassegnate a dover vivere nei confini per loro tracciati.

E’ per posizionare frontalmente il loro sguardo e per rendere il testo più fruibile nella trasmissione, che abbiamo scelto di affidare la ricerca e la stesura della pubblicazione a due giovani, indicate dalle docenti dell’Università della Calabria cui ci siamo rivolte. Il materiale documentale è stato recuperato per la gran parte, a cura della Biblioteca, nelle case delle amiche intervistate; a volte reperito da Maria Marino a Roma nell’Archivio Nazionale dell’Unione Donne Italiane o nella Biblioteca Nazionale, oppure negli archivi dei quotidiani locali o in quelli dei partiti. In assenza di documenti in nostro possesso abbiamo ricostruito eventi sulle interviste fatte alle protagoniste degli avvenimenti, come nel caso di Federcasalinghe o del Centro Italiano Femminile-CIF di Catanzaro, chiuso nel ’92 e il cui archivio è andato distrutto a causa di un incendio. Le interviste sono state condotte da Giovanna Vingelli e solo in qualche caso da Marino, quando si è data la necessità di ricostruire una storia di cui si disponeva solo di traccia orale. I primi tre capitoli, curati da Marino, ricostruiscono gli avvenimenti; il quarto, curato da Vingelli, è una ricerca di senso in cui le vicende collettive si intrecciano alle emozioni delle singole segnando arresti e riprese, comunque in un percorso senza fine. Così almeno ci sembra o comunque è ciò che ci auguriamo possa sembrare.




Ringraziamo:

Simona Dalla Chiesa per avere avviato un percorso inedito di pari opportunità nella Regione Calabria, il Progetto Donna;

Rosa Tavella per averlo coordinato valorizzando il contributo delle associazioni e consentendo la realizzazione delle due Biblioteche delle Donne esistenti in Calabria;

Luciana Curcio per avere accompagnato dall’inizio ad oggi il Progetto Donna con la competenza che, ai compiti del ruolo burocratico, aggiunge accoglienza, attenzione e coinvolgimento;

Adriana Papaleo ed Annamaria Riccio per avere generosamente sostenuto la Biblioteca delle Donne di Soverato sin dalla sua nascita, mettendo a disposizione esperienza e relazioni;

Maddalena Basile, insieme al coordinamento del Progetto Donna da lei presieduto, per avere concesso il finanziamento necessario alla presente ricerca;

Annalisa Marino per i suggerimenti riguardo modalità e finalità del lavoro progettuale e per il coinvolgimento nella ricerca documentale presso l’ archivio nazionale dell’UDI;

Donatella Barazzetti, Amelia Paparazzo, Renate Siebert, le docenti dell’Università degli Studi della Calabria che hanno reso possibile il lavoro di ricerca offrendo competenze e sensibilità nel superare i mille ostacoli e difficoltà dell’impresa;

Giovanna Vingelli e Maria Marino per avere curato la ricerca con l’iniziale curiosità delle giovani e la progressiva comprensione delle vicende che dalla presa di coscienza condussero alla passione politica;

Le amiche coinvolte sin dall’inizio nella ricerca e tutte quelle, numerosissime, che sono state contattate nel momento in cui emergevano nomi e documenti ad arricchire una storia che non doveva essere dimenticata.


Le fondatrici della Biblioteca delle donne di Soverato





















Introduzione


Nella storia della Calabria – nell’Ottocento come nel Novecento – le donne hanno ricoperto un ruolo tutt’altro che marginale e secondario. In particolar modo quelle appartenenti ai ceti subalterni e alle classi lavoratrici in genere. E’ così, ad esempio, nel periodo della grande emigrazione verso i paesi d’oltre oceano o negli anni che dallo sbarco degli alleati in Sicilia e Calabria arrivano alle occupazioni delle terre o ancora nelle lotte portate avanti dalle raccoglitrici di olive negli anni Cinquanta e Sessanta (di cui si parla più avanti in questo testo) e così via.

Tuttavia, il ruolo sociale rilevante svolto dalle donne non le sottrae ad una condizione di subalternità, anzi di doppia subalternità. La donna è subalterna, una prima volta, in quanto appartiene a determinati ceti sociali e, una seconda volta, perché costretta a subire una cultura intrisa di valori esclusivamente maschili.

Per dare il senso di quali potessero essere il ruolo e la condizione delle donne in Calabria conviene soffermarsi su uno dei periodi storici cui si è fatto riferimento. Negli anni del grande esodo verso le Americhe, le donne impossibilitate, per povertà o per altri problemi familiari, a seguire mariti, padri o fratelli, sulla via dell’emigrazione, svolgono una funzione sociale estremamente rilevante proprio in quanto costrette a sostituirsi ai “loro uomini”. A vari livelli ciò avviene: all’interno della famiglia, le donne educano i figli, provvedono ai problemi delle persone anziane rimaste in casa, amministrano le rimesse inviate dal familiare lontano, ecc.; nel sociale, sostituiscono gli uomini nelle prestazioni lavorative così come nell’adempimento quasi inevitabile di quei reati (piccoli furti campestri, soprattutto) che consentono alla donna di rendere meno drammatica l’esistenza sua e delle parti più deboli della famiglia rimasta in patria (vecchi, bambini). Basti un solo esempio, a tal proposito. Negli archivi di stato della regione sono conservati gli atti di centinaia e centinaia di processi intentati dalle varie preture a donne accusate di non aver ottemperato alle leggi sulle privative. Il reato commesso consisteva nell’essersi esse recate sulle rive del mare con secchi e contenitori vari e nell’aver raccolto acqua marina, che veniva messa successivamente ad essiccare: questo era l’unico modo per ricavare il sale, alimento fondamentale nella dieta del gruppo familiare perchè utile per la prevenzione delle epidemie coleriche.

Quest’indispensabile funzione lavorativa e sociale non verrà, però, apprezzata e riconosciuta come tale. Il lavoro femminile, nei campi, nell’edilizia o nelle manifatture tessili, continuerà a non essere equiparato a quello degli uomini. Esso seguiterà ad essere considerato non qualificato e, perciò, riceverà una “mercede” inferiore: sarà cioè sottopagato.

L’impiego scarsamente remunerato della manodopera femminile (a cui si aggiungeva quella minorile) diverrà talmente ampio e generalizzato che nel 1918 gli estensori della Relazione annuale della Camera di commercio di Cosenza, rispondendo ad una pressante nota inviata dal Ministero dell’interno, saranno costretti a riconoscere che nel cosentino e nel catanzarese non esisteva forza lavoro disponibile per essere impiegata nei vari settori produttivi, in quanto donne, bambini ed anche vecchi, da anni già vi lavoravano, poiché avevano sostituito in quelle mansioni gli uomini adulti emigrati.

Ma le donne della provincia di Catanzaro, e più in generale quelle di tutta la Calabria, spinte dalle loro condizioni di precarietà e povertà, diverranno anche protagoniste e avranno una forte incidenza all’interno di fenomeni di protesta sociale e di organizzazione di momenti di dissenso. Non vi sono, negli anni qui analizzati, manifestazioni o situazioni di scontro politico pacifico o violento – incendi di case comunali, assalti di municipi o di catasti, occupazioni di terre, ecc. – che non registrino la partecipazione delle donne.

La propensione alla mobilitazione e alla partecipazione ad episodi di scontro sociale riprenderà alla fine del dominio fascista nella regione. Con maggiore slancio e durezza, saranno le donne ad inaugurare un ciclo di lotte che dalle campagne si estenderà ai centri urbani. Le dissennate linee politiche del fascismo per il Mezzogiorno, in primo luogo il blocco dell’emigrazione e la “battaglia del grano”, aumentando i livelli della forza lavoro sottoutilizzata e disoccupata, avevano provocato una diminuzione del già basso reddito procapite. Tutto ciò determinava un abbassamento del tenore di vita delle popolazioni, innescando volontà rivendicative e bisogni di riscatto.

In questo contesto ancora una volta le donne si porranno all’avanguardia. La prima manifestazione di protesta verificatasi nella città di Catanzaro avrà come protagoniste proprio le donne. Agli inizi del dicembre del 1943 (da pochissimi mesi nella regione si era verificato lo sbarco alleato) esse decisero di mobilitarsi, scendendo in piazza più volte per chiedere “sussidi, indennità, pane”. Già nelle campagne, però, soprattutto nel crotonese e in alcune zone del reggino e della provincia di Cosenza, erano iniziati fin dal ’42 fenomeni spontanei di occupazione delle terre che avevano visto la partecipazione di donne, ragazzi e bambini. Da allora e fino agli anni della riforma agraria (1950), tutta la famiglia contadina povera (braccianti, piccoli fittavoli, ecc.) darà vita al più vasto movimento di massa verificatosi in quegli anni nell’intero Paese.

Solo una riflessione su una fase storica su cui tanto si è scritto e su cui non è il caso di soffermarsi in questa circostanza. Sei sono le persone uccise durante gli anni delle agitazioni per la terra in Calabria, fra queste tre donne: Giuditta Levato nel ’46 a Calabricata, Isabella Carvelli nel ’47 a Petilia Policastro, Angelina Mauro nel ’49 a Melissa. Ciò a testimoniare il significato della mobilitazione femminile.

Questa capacità di organizzarsi, di proporsi come elemento fondamentale per l’affermazione sia di principi di eguaglianza più generali (si vedano a tal riguardo i documenti prodotti dall’Unione donne italiane), che specificamente rivendicativi (le lotte per incrementi salariali, per migliori condizioni di lavoro e parità di trattamento), si riproporrà anche in periodi successivi.

Si pensi al ’68 che, ad esempio, nel catanzarese vedrà una partecipazione paritaria di donne e di uomini in un contesto sociale e culturale in via di profonda trasformazione e in cui la scolarizzazione aveva ormai investito strati sociali diversificati, allargandosi come mai prima alla presenza dell’elemento femminile. Inoltre, comportamenti, costumi, stili di vita, simili, cominceranno, progressivamente, ad unificare donne e uomini di estrazione socio-economica diversa. Il Sessantotto nelle città calabresi sarà il frutto di questa crescita individuale e collettiva.

Ed è proprio durante i mesi della rivolta studentesca, prima, e dell’incontro politico fra gli studenti e gli operai, poi, che le donne, così come stava avvenendo in tutta Italia, inizieranno a proporsi tematiche più autonome dal movimento e maggiormente legate alla propria condizione femminile. Saranno proprio le studentesse universitarie e le giovani laureate ad inaugurare in Italia questa svolta. Il modello di orientamento sarà offerto dalle esperienze vissute e concettualmente elaborate da gruppi di donne negli Stati Uniti a metà degli anni Sessanta.

In un saggio del 1969, Carla Ravaioli scrive: <<Aperte tutte le carriere. Raggiungibile qualsiasi grado del sistema economico-politico. Ogni funzione, anche della massima responsabilità, aggiudicabile. Insindacabili garanti gli ordinamenti istituzionali e giuridici, questo è oggi possibile alla donna in tutti i paesi più avanzati. In Italia come altrove, o quasi. Gli strumenti fondamentali dell’emancipazione femminile sono dunque ormai una realtà: ma fino a che punto e in che modo utilizzati?>> ( La donna contro se stessa, Bari 1969, p.5 ).

Allora come oggi, questo punto interrogativo finale si riempie di contenuti sempre diversi ed esprime problematiche tutt’altro che risolte.

Bisogna in ogni caso rilevare – come fa lo storico Paul Ginsborg – che <<nella seconda metà del XX secolo, in molte parti del mondo, seppur non tutte, la ferrea morsa del predominio maschile si è allentata. Di fronte alla mobilitazione del movimento femminista, con il diffondersi dell’istruzione femminile, con il mutamento delle condizioni del mercato del lavoro internazionale, gli uomini sono arretrati di posizione. Hanno visto limitare i loro poteri legali. Sono passati, come suggerisce una storia della famiglia europea, dal patriarcato al partenariato>>. Questa osservazione contenuta nel volume Il tempo di cambiare. Politica e potere della vita quotidiana (Torino 2004, p.18), viene ridimensionata dallo storico inglese nel prosieguo delle sue argomentazioni: <<Il potere maschile assume ora tinte diverse, più accomodanti e più egalitarie, ma molto della sua essenza resta>>. Tale permanenza è rinvenibile non solo nei rapporti uomo-donna nel terzo mondo, ma anche nel democratico mondo occidentale.

Se analizziamo alcuni indici statistici sui “progressi” raggiunti dalle donne nei paesi industrializzati e li compariamo con altri sulle “privazioni” che esse ancora subiscono, meglio si chiariscono i termini del protrarsi di disparità di genere.

Le donne rappresentano più del 40% della forza lavoro e occupano circa un quarto delle posizioni amministrative e manageriali (i dati appena citati e quelli che seguiranno sono elaborati e pubblicati in Undp, Rapporto sullo sviluppo umano, Torino 1996, n,7, che fornisce, assieme al Rapporto dell’anno precedente, alcune delle più accurate rilevazioni statistiche disponibili). Esse percepiscono, però, solo due terzi del salario maschile e occupano il 12% dei seggi parlamentari (nei paesi sottosviluppati questo dato scende al 10%). C’è da segnalare, poi, che nei paesi ricchi annualmente vengono registrati 130.000 stupri a donne fra i quindici e i cinquantanove anni. Negli anni Ottanta del Novecento la metà, o più della metà, di tutti gli studenti – a vari livelli di scolarizzazione – erano donne negli Stati Uniti, in Canada e in sei paesi ex-socialisti, con in testa la Germania dell’est e la Bulgaria. In solo quattro paesi europei le donne scolarizzate nella stessa data erano meno del 40% : Grecia, Svizzera, Turchia e Regno Unito.

Sempre gli estensori del Rapporto sullo sviluppo umano del ’96 affermano che <<lo spazio politico è sempre stato monopolizzato dagli uomini. Sebbene le donne rappresentino, infatti, la metà dell’elettorato, esse detengono – come si è già accennato – solo il 12% dei seggi parlamentari e il 6% dei ministeri nazionali. Le donne sono relativamente meglio rappresentate a livello locale. In 46 paesi la rappresentanza femminile nei governi locali supera la presenza nei parlamenti nazionali. Nel 1944 l’India ha riservato un terzo dei seggi della Panchayat (consiglio locale) alle donne, con il risultato che 800mila di esse entrano nella conduzione politica locale da cui emergono i leaders politici nazionali>>.

Se dai paesi industrializzati si passa a quelli in via di sviluppo, l’aggravarsi delle condizioni generali dell’intera area si ripercuote in maniera drammatica sulle donne. Anche per alcune di queste realtà territoriali è bene segnalare qualche dato. Nei paesi del terzo mondo, la mortalità materna è 12 volte più alta che nei paesi industrializzati raccolti nell’OCSE; nell’Asia dell’Est più di un milione di donne sono analfabete; nell’Asia del Sud, circa l’80% delle donne soffre, in gravidanza, di anemia (il più alto tasso al mondo); nell’Africa Sub-sahariana ad ogni quattro uomini contagiati dall’HIV corrispondono sei donne affette dallo stesso male. Inoltre, nella stessa area territoriale solo l’8% dei seggi parlamentari è da esse ricoperto.

A conclusione di queste note, e utilizzando ancora una volta quanto sostiene Paul Ginsborg nel testo già citato, si può affermare che << a tutt’oggi la povertà globale ha volto femminile: su 1.3 miliardi di poveri, il 70% sono donne. Un confronto tra il rapporto femmine/maschi nel Nord e in gran parte del Sud del globo ha evidenziato un deficit di 100 milioni di donne del Sud: questo dato complesso è rivelatore di un processo tragico e occulto di cui le nascite selettive a favore dei maschi e la malnutrizione delle bambine forniscono i principali elementi esplicativi>>.

A causa della constatazione di queste e di altre condizioni di diversità di genere e della consapevolezza delle disuguaglianze e delle vessazioni di ogni tipo subite dalle donne a livello mondiale, il movimento femminista modifica alcuni degli obbiettivi fondamentali della sua azione. Non più l’uguaglianza con gli uomini e il trattamento paritario vengono perseguiti. Il centro della elaborazione del movimento diviene la differenza sessuale dagli uomini. È ormai chiaro che le condizioni di inferiorità delle donne, in particolar modo di quelle appartenenti ai paesi poveri, sono connesse al loro essere differenti, sessualmente, dagli uomini.

<<… nei secoli la donna ha visto l’uomo proclamare il regno dello spirito e della ragione, sapendo di essere lei la garante del suo ritorno alla natura e all’immanenza – e lo ha lasciato parlare; per secoli è stata testimone delle sue regressioni, lasciandogli l’illusione che lei non avesse bisogni, e che, anzi, fosse contenta di ciò che l’uomo non dava; per secoli ha garantito la vita che l’uomo intanto uccideva […]; testimone scomoda e sgradita la donna porta in sé una forza non ancora intaccata: è la forza di un giudizio legato alle cose, alle esperienze concrete di vita, che non si lascia smentire dalle parole o dalle astrazioni. A questa intelligenza – che conserva ancora fusi e inestricabilmente intrecciati il giudizio sulle cose concrete, l’emozione che provocano, la sensualità di un corpo che è in esse immerso e delle quali fa parte, la tenerezza nei confronti della vita e l’antica saggezza nei confronti della morte – a questa intelligenza è stato dato il nome deteriore di “intuizione femminile”, per riportarla nel regno della natura. Ma è questa intelligenza che al momento attuale potrebbe dire parole nuove e fare nuovi gesti, perché […] essa resta legata alle cose, alle esperienze, alla natura, al corpo, attraverso i quali continua ad esprimersi e con i quali l’uomo ha oramai perduto ogni rapporto>>. Penso che le osservazioni contenute in queste parole di Gabriella Gribaudi – nella voce Donna dell’Enciclopedia Einaudi – meglio di ogni altra cosa possano far comprendere la complessità e la grande diversificazione delle elaborazioni femministe sulle strategie e sugli obiettivi del movimento delle donne nel mondo contemporaneo.

Questa succinta mia presentazione di rilevazioni statistiche e annotazioni relative alla condizione femminile in Calabria e nel mondo, ha inteso delineare, in estrema sintesi, il quadro storico all’interno del quale si muovono le analisi di Maria Marino e Giovanna Vingelli, le quali raccontano, seguendo percorsi di indagine diversi, come nel ventennio ‘70-’90 del secolo passato il movimento femminista, in alcune realtà del catanzarese, cresce e si diffonde. Per la conduzione della ricerca le due autrici si sono avvalse sia del materiale documentario rinvenuto presso le protagoniste del movimento o presso sedi di gruppi e di organizzazioni femminili, sia delle testimonianze dirette, che hanno consentito una ricostruzione delle vicende e delle diverse posizioni emergenti all’interno dei vari gruppi. Ne viene fuori uno schizzo significativo e complesso delle difficoltà e dei problemi delle donne all’interno di una realtà particolare, ma tutt’altro che chiusa, quale è quella della provincia di Catanzaro.




Amelia Paparazzo











CAPITOLO 1

LE PRIME FORME ORGANIZZATIVE

di Maria Marino

Così, nel 1949-1950 le donne si mossero alla testa dei cortei dei braccianti che andavano a occupare le terre dei baroni. Esse partecipavano a queste lotte perché vedevano realizzabile la conquista di un progresso sociale che, col possesso della terra, avrebbe portato più case, più scuole, più indumenti, più cibo. Giuditta Levato e Angelina Mauro, le eroine che caddero allora sotto il piombo della polizia, sono diventate il simbolo della lavoratrice meridionale della nostra epoca“.


L. Viviani, Il lavoro femminile nella società meridionale, «Cronache meridionali», n.6, giugno 1950


Premessa

E’ Anna Rossi Doria a sottolineare come i nuovi spazi istituzionali a cui le donne cominciano a poter aver accesso assumono un grande valore simbolico : «Votare ed essere elette non significava solo entrare in una scena fino ad allora esclusivamente maschile, ma anche rompere divieti interiori e riuscire a sentirsi cittadine senza per questo dimenticare di essere donne: dimostrarsi pari agli uomini, dunque, ma anche diverse da loro. Per questo la nuova identità individuale legata alla conquista dei diritti politici si saldava fortemente ad un’identità femminile collettiva»1

A dare appoggio al fermento che in questi anni cresce nel mondo del lavoro femminile sono in effetti anche una serie di interventi in campo legislativo che, seppur nell’assenza di quella che oggi chiameremmo una “consapevolezza di genere”, hanno origine da questa prima forma di associazionismo femminile.

Le lotte delle donne lavoratrici negli anni Cinquanta infatti, anticipano l’acquisizione del concetto di diritto e permettono di fare uno straordinario passo in avanti all’intera società civile.

Per la prima volta, nel 1950, è riconosciuto il diritto di tutela della lavoratrice in quanto madre. Viene approvata dal Parlamento italiano la Legge n. 860 del 19 Luglio 1950 sulla "tutela fisica ed economica della lavoratrice madre": 3 mesi di riposo prima del parto ed 8 settimane dopo il parto retribuiti con l'80% del salario, divieto di licenziamento fino al compimento del 1° anno di età del bambino.

È questa la prima tappa di un lungo percorso: nel 1961 le donne ottengono che venga riconosciuto il loro diritto ad essere retribuite come gli uomini; si compie, così, un primo passo che poi aprirà il varco agli aumenti salariali e all’inquadramento unico tra impiegati e operai.

Nel 1962 viene stabilito il divieto di licenziamento a causa di matrimonio, una conquista che getta le basi per il diritto di tutti i lavoratori a non essere licenziati senza giusta causa. Nello stesso anno si stabilisce anche l’accesso a tutte le carriere.

L’UDI in Calabria è tra le prime organizzazioni che comprende l’importanza delle problematiche del lavoro femminile e per questo, già a metà degli anni ’50, decide di farle diventare centrali all’interno della sua attività; a questo scopo l’ Udi organizza “il primo incontro meridionale delle donne della campagna” avvenuto a Catanzaro nel febbraio 1957, partecipa alla Commissione di inchiesta promossa dal Comitato di Associazioni femminili per la parità di retribuzione, promuove azioni parlamentari e formula alcune proposte al Ministero del Lavoro.


    1. L’ UDI di Badolato

Il primo circolo UDI viene costituito a Catanzaro nel 1945. Vi partecipano iscritte provenienti da varie esperienze partitiche (partito repubblicano, partito d’azione, partito democratico del lavoro, partito socialista, partito comunista) ma anche donne totalmente estranee al mondo della politica. Della prima parte dell’attività di questo circolo, rappresentata principalmente dall’appoggio alla lotta delle raccoglitrici di olive, tratteremo diffusamente nel paragrafo successivo.

Nel 1952 nasce il circolo di Badolato costituito nel suo comitato direttivo da Carmela Amato, Vittoria Bressi, Silvia Gallelli, Rosa Larocca, Maria Procopio, Domenica Samà, Paparo Anna, Paparo Giuseppina ed Elisa Valenti. In una seconda fase dell’attività si unirà a loro Rina Trovato, una tra le figure che più ricorrono nelle battaglie civili badolatesi e che è così descritta da un’altra esponente del movimento: «Badolato era allora un paese con un alto numero di compagni e compagne iscritte al Partito Comunista, era insomma un paese rosso e Rina era la compagna di spicco. I suoi interventi, sempre a braccio e appassionati, erano spesso riportati anche sull’Unità quando interveniva nelle manifestazioni nazionali. Sempre fedele alle sue origini contadine, ci raccontava di Giuditta Levato e delle battaglie delle donne per l’occupazione della terra. Da Badolato partiva sempre almeno un autobus pieno di donne per partecipare alle manifestazioni a Soverato o altrove. In particolare ricordo la manifestazione a Reggio Calabria del 7 dicembre ’78; per la prima volta in quella città un corteo di sole donne, erano scese giù dall’Emilia e Romagna in tante per sostenere le donne calabresi che ancora faticavano ad ottenere consultori – ne erano stati istituiti già 384 al centro-nord e soltanto 13 al sud tra cui quello di Soverato- e applicazione delle legge sull’aborto. Ero andata al corteo con Rina e le amiche di Badolato. Ho sempre ammirato la sua capacità di mettere in parole semplici la sua esperienza con l’efficacia propria di chi non occulta ma sa esaltare le origini; oggi potrei attribuire questa qualità, da molte di noi emancipate persa, al fatto che lei sia rimasta in qualche modo radicata nel linguaggio materno malgrado le scuole di partito frequentate.»2

Questa storia la ripercorriamo attraverso la sua viva voce3.


Badolato, 1948

« Inizio col dire che io ho fatto solo la seconda elementare. Nel 1948 nel mio paese c'era un Partito Comunista fortissimo. Allora si preparavano manifestazioni, scioperi per il lavoro, l'emancipazione...Noi a quell'epoca avevamo i giovani che erano tornati dalla guerra, e poi i compagni che c'erano prima. Avevamo avuto a Badolato la sorella di Longo, che era confinata politica, e quindi si era creato un certo movimento. Infatti nella sezione sembrava...si può dire che era tutto il paese che si attorniava a questi principi nuovi che venivano fuori. Io ero una ragazza, perché sono del '37, avevo 15-16 anni. Mi piaceva il rinnovamento, e partecipavo a tutte queste cose.»4


Rina Trovato partecipa al blocco della strada Badolato Marina-Badolato Scalo


Terra e Lavoro

La stessa Rina Trovato ci restituisce il clima di quel momento di agitazione :«La battaglia più grossa noi l'abbiamo fatta nel 1951, quando c'è stata l'alluvione e hanno cominciato a fare una strada che collega Badolato con le Serre, e allora gli operai tagliavano gli alberi nei terreni dei più ricchi, e la polizia veniva a bloccare questo. Noi da ragazzi...le donne più grandi occupavano le strade, noi più piccole andavamo in cerca di qualcosa da mangiare per gli operai nel paese. Ti sentivi partecipe alla lotta. Poi il momento cruciale per me personalmente è stato...perchè allora c'era la Legge Gullo, che portava il miglioramento nella mezzadria. Le raccoglitrici di olive si sentivano più protette, anche i contadini – che prima non prendevano niente dai terreni – cominciavano ad avere il loro frutto, la loro partecipazione, la loro parte degli ulivi; la misura che prima veniva piena del frumento che loro raccoglievano e dovevano pagare al padrone...hanno fatto un legno che dava la misura giusta, e quindi ogni dieci misure gliene veniva una fuori. Vedevano queste cose qua. Poi si è fatta una battaglia per il caro pane; poi dovevano pagare una certa percentuale dei chilometraggi che portavano le donne sulle olive che portavano ai proprietari per il frantoio. Io ero una ragazza che volevo tentare in questa lotta. La Camera del Lavoro aveva fatto un incontro con l'allora Ufficio di Collocamento, un incontro fra i proprietari e per iscritto fecero una legge che questi dovevano dare questi soldi alle donne. Tutti hanno accettato, perché erano di fronte alla legge, c'era il maresciallo dei carabinieri, l'hanno fatto al Comune. Però, sotto sotto, si diceva che questi, dopo aver fatto l'accordo, non lo mantenevano. Io, con tutto che mio padre era un autista, non era un contadino, sono andata a raccogliere le olive con le donne, per tenere i fili di questa battaglia. La Camera del Lavoro diceva: non possiamo fare nulla, tutte si rifiutano di denunciare; cosa facciamo, le prendiamo col bastone?»


Carmelina Amato e Rina Trovato

Le politiche sociali

E sempre Rina Trovato, accompagnandoci verso gli anni ’70, parte da sé e ci racconta: «Mi sono sposata in Comune, perché vedevo questa differenziazione che facevano. Io non l'ho mai sopportata, vedere tutti i palazzi...Fare tredici chiese in un comune come il nostro, che erano 4000 abitanti. Tredici chiese e nessuna scuola, nessun altra cosa. Io mi ricordo che facevamo le battaglie per l'asilo, per la scuola materna. Siamo andate alla Regione e mi dicevano: “Guardate, sono venuti i vostri compagni di Modena, di Reggio Emilia e di Bologna per espandere e migliorare i loro asili. Noi non abbiamo soldi, a noi non ci mandano soldi per fare gli asili qua”; “E voi che voce avete quando andate a Roma, se non vi imponete per quello che dobbiamo fare? Se voi vi date da fare...”. Allora sono cambiate delle cose, perché la scuola a tempo pieno a Badolato è stata fatta la seconda dopo...prima si è fatta a San Giovanni in Fiore. Io, personalmente, quando mio marito era sindaco, mi sono bisticciata con lui, perché sono andata a prendere i documenti a Cosenza e a San Giovanni; li ho portati qua e li ho costretti con la forza a far approvare, nel Consiglio comunale, l'apertura della scuola a tempo pieno. Dicevano: “Con i tempi forse non ci riusciamo”, ma se mai cominciamo! E allora era la seconda in Calabria, dopo Badolato l'hanno fatto dappertutto. Perché? Perché erano le donne che si interessavano a fare queste cose, e grazie ad Annamaria – perché lei, essendo professoressa, recepiva di più, preparava documenti e noi andavamo...Loro davano l'intellettualità e noi eravamo la forza. E' stato molto importante questo, perché le intellettuali dei paesi si sentivano più grandi e non contribuivano alle nostre lotte. Non hanno mai contribuito, pochissime sono state quelle che hanno appoggiato le lotte che abbiamo fatto, perché ci trovavamo di fronte...Poi, dopo fatte, tutti accettavano. Prima non erano tanto propensi a fare queste cose.»5

«Quante persone, anche di Badolato, non sanno quello che abbiamo fatto noi. E anche ragazze, dell'Università della Calabria, sono venute a prendersi foto, materiali...Io conservo intere documentazioni. Loro vengono e dicono: “Ma come, non sapevamo che c'era tanto materiale!” E pure noi come contadine...Guarda, quando io ero ragazzina mi ero meravigliata che c'erano certi contadini che andavano a raccogliere le firme quando hanno ucciso i coniugi Rosenberg; da Badolato sono partite centinaia di cartoline per non farli uccidere. E chi le mandava? Questi contadini che frequentavano la sezione, che erano attaccati...Donne contadine...vedi la ricerca dove ti porta?»


1.2 La lotta affianco alle raccoglitrici di olive


Questo percorso per l’affermazione dei diritti delle donne trova la sua prima rappresentazione nella concreta lotta delle raccoglitrici d’olive

Nel 1961 l’UDI prepara e convoca per il 12 novembre a Reggio Calabria un incontro con le raccoglitrici di olive della Calabria e del Mezzogiorno d’Italia.

La deputate dell’UDI decidono durante il convegno di presentare un progetto di legge per la parità di trattamento nelle indennità di malattia e di infortunio e nelle pensioni di invalidità e vecchiaia. Chiedono inoltre un piano di asili, o di momentanei edifici prefabbricati, per dare educazione e ospitalità a circa un milione di bambini che tengono a definire “italiani”. Le 300 mila raccoglitrici di olive del meridione rappresentate al convegno organizzano negli stessi giorni uno sciopero che coinvolge Calabria, Puglia e Basilicata. Lo sciopero delle raccoglitrici d’olive della provincia di Catanzaro si protrae per cinque giorni, dal 21 al 26 novembre, ed ha percentuali di partecipazione che vanno dal 70 al 100 per cento6.

Comizi si svolgono a Nocera Tirinese e a Sambiase mentre altri scioperi avvengono nel Crotonese a Strangoli, Mesoraca, Cirò, Crucoli Torretta, Torretta Melissa, dove la lotta ha una dimensione totalitaria. Scioperano oltre settanta mila raccoglitrici calabresi.7

E’ la prima volta che un’azione di questo tipo registra un simile successo in una situazione particolare come quella delle raccoglitrici di olive del Sud.

Le ragioni delle agitazioni per la terra hanno origini lontane. Nonostante la cultura dell’ulivo fosse particolarmente redditizia, il costo del lavoro incideva solo nella misura del 15 per cento sul valore del prodotto.

Nonostante la diversità delle varie forme di retribuzione adottate nei 450 comuni calabresi, ogni anno, da novembre a marzo, le campagne della regione si popolavano di uomini ma specialmente di donne giovani e anziane per la raccolta delle olive.

Queste le loro condizioni di lavoro: dall’alba al tramonto in posizione curva, a piedi scalzi per non scivolare e con la continua sorveglianza dei “caporali” e dei “fattori”. Prive di alcuna garanzia salariale, il padrone sceglieva e adottava a suo piacimento i metodi di raccolta e di retribuzione. Veniva usata, quando erano poche le olive da raccogliere, la raccolta a “compartecipazione per squadre” e si sceglieva invece la paga “a giornata” quando era prevista la possibilità di raccogliere molti “tomoli”.

Una donna non riusciva a guadagnare in media più di un litro d’olio al giorno, corrispettivo salariale di una giornata di lavoro, svolta con l’aiuto di due o tre unità familiari generalmente di età inferiore ai 12 anni. La raccoglitrice doveva poi trasportare un carico tra i 40 e i 70 chili- circa il peso di un “tomolo”- dal campo al frantoio. Se possono apparire dure le condizioni di lavoro e irrisorie quelle di retribuzione, quelle sociali erano ancor più allarmanti. Talvolta decine di chilometri a piedi per arrivare sul posto di lavoro e se la scelta era il pernottamento, una balla di paglia bisognava dividerla con non meno di cinque persone. Oltre la metà delle raccoglitrici erano sposate ed avevano figli piccoli. Un problema con carattere di ambiguità perché se da un lato emergeva la necessità di un piano di asili nido, non meno urgente era un piano di tutela del minore che lavorava.

Dal 1957 al 1960 le battaglie sindacali avevano portato ad ottenere l’emanazione di decreti del Ministero del Lavoro sul collocamento regionale speciale e sull’assistenza protettiva, con la concessione di un pacco contenete capi di vestiario per tutte le raccoglitrici calabresi e con la creazione di una nuova forma mutualistica per le addette alla raccolta delle olive. Affrontato in qualche modo il problema della previdenza e il problema del collocamento della manodopera (con un sistema analogo a quello della monda), rimaneva irrisolto il problema contrattuale.

Contro le cento lire orarie, previste nel 1961, vengono richieste dalla CIGL retribuzioni giornaliere di 1000 lire per le donne e di 1150 lire per gli uomini, oltre la definizione delle qualifiche per sesso e per età e delle mansioni, la riduzione dell’orario di lavoro da 7 a 6 ore in dicembre e gennaio, la regolazione della compartecipazione e del sistema della gabella, nonché una migliore definizione della parte normativa del contratto.

Le aspirazioni di queste lavoratrici però vanno anche oltre le rivendicazioni salariali e assistenziali. Comincia ad emergere l’esigenza di nuovi rapporti sociali nelle campagne: una rete di servizi che permetta di assolvere al duplice compito professionale e domestico, una rete di istituzioni rispondenti alle esigenze delle nuove generazioni, il superamento dei vecchi pregiudizi di soggezione familiare.

Nel documento approvato all’incontro del 12 novembre a Reggio Calabria, al quale hanno partecipato più di mille raccoglitrici calabresi, l’Unione Donne Italiane ha precisato le rivendicazioni sulle quali chiamava le donne a lottare negli anni che sarebbero venuti:


UDI Archivio Centrale DoCam 61.1\10


- parità salariale, assistenziale e previdenziale; perché, nonostante l’accordo sulla parità salariale delle braccianti (sottoscritto a Roma dalle organizzazioni padronali e da tutti i sindacati di categoria) fosse stato un passo avanti nella lotta per l’emancipazione, gran parte dei contratti provinciali sancivano ancora uno scarto del 30 per cento in meno per le donne.

- piano di asili per un milione di bambini; in linea con la proposta di legge, portata avanti dall’UDI a livello nazionale, che fissava le linee di una riforma generale dell’assistenza all’infanzia e mirava soprattutto al trasferimento dei servizi assistenziali dall’OMNI (…….) agli enti locali.

Oltre la promessa di portare in Parlamento la richiesta di asili per un milione di bambini, le deputate UDI sollecitano che «il Ministero della Pubblica Istruzione invii immediatamente aule prefabbricate da adibirsi ad asili, che i Comuni rivendichino un piano di cantieri di lavoro per disoccupati destinato alla costruzione degli asili, che la Cassa per il Mezzogiorno stanzi immediatamente i fondi disponibili per la costruzione di una vasta rete di asili (in un recente dibattito televisivo è stato ammesso che i 500.000 milioni a disposizione per la Cassa per il Mezzogiorno per la costruzione di asili non sono stati utilizzati)»8

- la scuola e l’istruzione professionale; si invitava a sostenere la battaglia nazionale per la riforma della scuola italiana e per garantire alla popolazione infantile la scuola gratuita fino a 14 anni. Vengono inoltre chieste scuole popolari, espressamente per le braccianti stagionali, che avrebbero dovuto tener conto delle particolari esigenze del loro lavoro.

- assistenza immediata a tutte le raccoglitrici di olive, ci si impegnava a presentare subito una mozione in Parlamento per rivendicare al Ministero del Lavoro uno stanziamento di almeno 300 milioni per assicurare assistenza immediata a tutte le raccoglitrici di olive per proteggerle dai rigori del clima invernale e dai pericoli delle malattie professionali.

- Per rapporti di lavoro di stabili e moderni; «Dare coscienza alle braccianti del Mezzogiorno della inaccettabilità delle loro condizioni di lavoro e organizzare e dirigere una loro azione per conquistare rapporti di lavoro più civili e moderni significa di per se stesso creare le condizioni per una trasformazione economica e sociale del Mezzogiorno. Rivendicando il pieno riconoscimento del proprio lavoro le braccianti meridionali si collocano come forza egemone e non più subalterna fra le forze che più attivamente rivendicano un Mezzogiorno moderno economicamente e socialmente»9.


- Mio marito lavora quando c’è lavoro e quando può perché è malato ed è bracciante. Vado a lavorare sola. Non so leggere e scrivere. Ho dieci figli, cinque andavano a scuola e ora la più grande non la posso mandare. Abito in una casa per alluvionati siamo venti persone in sei stanze

- Guadagno un quarto d’olio al giorno (L. 130).

Vado sempre a piedi.


-

- occasionale. Ho l’assistenza per due mesi di ogni bambino, lavoro fino all’ultimo giorno di gravidanza. I bambini lascio a quelle più grandi che fanno a turno per la sorveglianza

- sono disposta a imparare le macchine agricole perché ho bisogno

Palamara Maria Rosa

Africo Nuovo


Nonostante i passi in avanti fatti anche grazie all’Udi – soprattutto nell’ambito della sensibilizzazione esterna all’organizzazione – dalle testimonianze che raccogliamo dalla stampa dell’epoca le condizioni delle lavoratrici non sembrano migliorare di molto. L’assistenza INAM per le donne di campagna continuava a rimanere molto bassa, Antonia Romano Nocera, ostetrica e moglie di bracciante, in un’intervista a “Noi Donne” nel 1961 racconta così: «12-15 mila lire per ogni parto e un pacco ostetrico di infimo valore, composto da tre pacchetti di cotone, 4 di garza, 4 di spilli, da un pezzo di sapone neutro, da un pacco di talco e da un quarto di alcol puro, insufficiente per sterilizzare le stesse bacinelle.»10 Sempre allo stesso servizio appartiene la testimonianza di Rosaria Derna, raccoglitrice di olive di diciassette anni di Polistena: «Ho lasciato la scuola in



terza elementare per badare alle faccende domestiche. Poi la necessità di lavorare per vivere mi ha portato nei campi sin dall’età di dodici anni. E per svolgere un lavoro tra i più duri che si possano immaginare. Non ho più letto da quando ho lasciato le scuole. Il mio viaggio più lungo è stato ad Acquaro di Cosoleto dove sono andata a raccogliere le olive. Il treno lo vedo sfilare sotto gli uliveti, ma non ci sono mai salita, neppure per andare a Gioia Tauro a vedere il mare.»11


1.3 La Fidapa di Catanzaro

La Fidapa (Federazione Italiana Donne Arti Professioni e Affari) nasce in Italia nel 1929 con delle precise convinzioni fondative: «Vivere la Vita associativa all’insegna di una coscienza democratica, per rendere la Federazione una vera palestra di democrazia, in cui i rapporti amicali e gli obiettivi comuni ne costituiscono l’essenza»12. Non a caso queste parole che risalgono ai nostri giorni, racchiudono bene a distanza di anni il senso originario di questa organizzazione.

La Fidapa nella sua costruzione più che darsi uno statuto regolamentare sembra comporre un vero e proprio decalogo comportamentale.

Risulta “vitale”, infatti, per l’associazione attivare delle modalità a sostegno di un autentico rapporto associativo, in cui la proposta è quella di sostenere le iniziative delle donne, elevare il loro livello culturale e risvegliare il senso della responsabilità verso il proprio paese e verso la società; inoltre bisogna adoperarsi per rimuovere le discriminazioni che ancora sussistono a sfavore delle donne, sia nell'ambito della famiglia che del lavoro attraverso gli strumenti della solidarietà, della collaborazione, dell’aiuto reciproco.

Naturalmente, sulle stesse basi, nel 1961, a Catanzaro si costituisce la FIDAPA per opera della marchesa Cafiero, donna proveniente dalla FIDAPA di Napoli.

L’associazione può essere istituita solo da una appartenente già all’organizzazione - per dirlo in gergo associazionistico - da una fidapina che deve trovare sul posto almeno altre 11 donne disposte ad associarsi e costituire la sezione.

Come prima Segretaria del Comitato di Presidenza viene eletta una donna di spicco della Democrazia Cristiana, ma il Vescovo dell'epoca, considerando inopportuna tale esposizione da parte di una donna della DC, intervenne costringendola a dare le dimissioni.

In quella elezione era stato fatto uno strappo alla regola; infatti lo Statuto (pubblicato per la prima volta nel 1975) vietava alle associate di avere una collocazione politica; così non era consentito che la Presidente ricoprisse cariche politiche, né che una casalinga, pur potendosi iscrivere, rivestisse cariche elettive. Tutto ciò fino al 1990.

La FIDAPA di Catanzaro, anche nel momento in cui l’associazione nazionale decise di rivedere questo punto dello Statuto rimase ferma sulla posizione originaria.

Nella lettura di queste questioni statutarie, risulta illuminante la testimonianza di Maddalena Barbieri che così racconta :« Fino al convegno di Capri le presidenti non potevano avere cariche politiche. Una delle caratteristiche della Fidapa è questa, essere – allora si diceva apolitica, non è esatto – apartitica. Non apolitica perché tutte le fidapine hanno la loro ideologia, la loro attività, però nell'ambito della Fidapa non ci sono discriminazioni, differenze. E infatti la Fidapa, nelle varie elezioni, non ha mai preso posizione per l'uno o per l'altro. Le fidapine votano senza avere ...Quando sono stata eletta presidente, nel 1993 (fino al '95), una sera una socia aveva ritenuto (c'era una festa) di invitare un candidato, il quale si presentò (io lo conoscevo). Io ho detto a viva voce che il signore era venuto non per ragioni di ordine politico ma per amicizia. Dicevo che a Capri c'è stato l'annullamento di questa limitazione (riguardo le socie con cariche politiche), e quindi, successivamente a questo convegno (non ricordo in che anno, ma da pochi anni) c'è stata la possibilità di inserimento per una donna politica; ovvero anche una donna inserita nell'attività politica poteva assumere la carica di presidente o altre cariche significative. Tutto perché lo Statuto dice che le donne, di qualsiasi razza, religione, colore, sono tutte sullo stesso piano. Questa è una caratteristica fondamentale dello Statuto della Fidapa. C'era anche, fino a un certo periodo, la limitazione per le casalinghe che non potevano diventare presidenti; ma per questo bisogna andare ai tempi passati, quando le casalinghe non avevano titolo di studio, cultura, ecc. , mentre oggi le casalinghe sono generalmente anche lavoratrici e hanno un titolo di studio. Fino a quel momento a una casalinga non era data la possibilità di essere eletta presidente (le cariche sono elettive), poi invece è stata eliminata anche questa limitazione.

Per capire tutto questo bisogna riandare alla fondatrice, Lena Madesin Phillips, un'americana che si inserisce nel movimento del femminismo. Lei era avvocato in America che, invece di fare la suffragetta e partecipare a quelle che furono le manifestazioni – a mio parere – scomposte...anche qui in Calabria alcune ragazze giravano sventolando – forse lei non se lo ricorda – il reggiseno, facevano gesti poco eleganti per una donna, per una signora (non in senso di ceto, ma di animo). Questo avvocato in America si assunse il compito di approntare, di costituire questa associazione per affrontare e sostenere l'inserimento delle donne. Dall'America passò in Europa; venne in Italia nel '29; a Roma la sua iniziativa ebbe consensi e sostegno, così potè istituire organizzazioni simili anche in Italia. Però poi il fascismo chiuse tutte le organizzazioni non direttamente controllate dal regime, quindi anche la Fidapa. Poi ci fu la guerra. A Catanzaro si costituì nel 1961.

(…) Catanzaro ha avuto sempre la presidente giusta al momento giusto. Sono state tutte presidenti che, prima di tutto, non hanno mai determinato un rapporto di dipendenza nei confronti di nessuna socia, e non hanno mai esasperato un rapporto di contrasto, e quindi non c'è stata mai la necessità di chiamare in soccorso la direzione generale nazionale. I vari cambiamenti delle Presidenti sono serviti per dare una varietà e un'articolazione di impostazione culturale, perché la Presidente si porta dietro le suoi conoscenti, le sue possibilità di rapporto culturale con persone di altre città, e quindi la vita è stata sempre molto fiorente. Infatti, Catanzaro risulta la sezione più numerosa d'Italia.(…) Lo Statuto è stato pubblicato nel 1975, poi però ne è stato approvato un altro nel 1990 (lo abbiamo approvato andando a Firenze). A Firenze io andai come rappresentante di Catanzaro; noi catanzaresi nel momento in cui dovemmo discutere se si poteva fare presidente una politica votammo per il no. Poi successivamente vi furono dei cambiamenti, anche perché i tempi cambiano e bisogna adeguarsi. Noi catanzaresi abbiamo votato per il no per una ragione semplice: se una socia ha una coloritura politica così vistosa ne viene di conseguenza un'impronta del tutto particolare, e quindi l'associazione sarebbe per due-tre anni democristiana, poi comunista, poi socialista. Tutto ciò creerebbe solo attriti. Prima, non essendoci la possibilità di nominare una politica, nessuno veniva fatto oggetto di pressioni politiche, per quanto si affrontassero tutti i problemi, ma nella libertà della persona umana. Dalla discussione del problema ognuna aveva la possibilità di fare le sue scelte»13.












Capitolo 2

La svolta degli anni Settanta:

Le politiche sociali e i collettivi

di Maria Marino

Premessa

A proposito dell’UDI è Anna Rossi Doria che, pur precisando si trattasse di un associazionismo sulla base di schieramenti politici e non dell’appartenenza di genere, sostiene che «al loro interno le militanti svilupparono tutta una serie di sforzi volti a costruire una politica delle donne, non certamente separata, ma in qualche minima misura autonoma da quella dei rispettivi gruppi di appartenenza»14.Dentro forme organizzative tradizionali, ereditate dalla tradizione di altri luoghi, si sperimenta una forma di libertà che risulta difficile da definire perché è nella singolarità di ognuna che una parte di questa esperienza ha le conseguenze più evidenti. Fondamentale, diventa il fatto di avere per la prima volta a disposizione un luogo fisico dove la propria individualità può sperimentarsi, dove si è riconosciute da tutte con il proprio nome, dove non si è più “la figlia di” o “la moglie di”, dove è possibile sentire l’orgoglio di essere considerata “una donna intelligente”, dove anche la più timida può e deve parlare. Nelle sedi Udi, infatti, si fanno riunioni, ma anche si chiacchiera, si ride e si prende il the, pur se la riflessione sul quotidiano non prescinde mai dalla dimensione politica, una dimensione nella quale ci si muove orientandosi con la “bussola” del costante confronto con le altre, con cui, oltre alle parole, si condividono spazi e gesti. L’Udi diventa una scuola e resta un punto di riferimento a cui si guarda. Anche per le donne che hanno trasferito in altri luoghi il loro impegno politico resta sempre la nostalgia delle pratiche di socialità raramente trovate altrove. Delia Fabrizi, componente dell’UDI catanzarese, trasferitasi poi a Bologna, così spiega la particolarità dell’organizzazione sul territorio di Catanzaro e la sua conseguente difficoltà ad aderire all’UDI della città in cui ora vive: «Eravamo quasi tutte signore borghesi. Caso mai iscritte al PCI, però borghesi. Bisogna intendersi nei termini però; che vuol dire borghesi? Di una certa estrazione sociale. E' la difficoltà che ho io oggi nel rapportarmi con le donne dell'UDI dell'alta Italia, perché loro hanno fatto un altro tipo di guerra, di battaglie. Con cui non mi trovo proprio per questa diversità di storia politica. Cioè, io sono andata, digiuna di politica, a fare politica in un'organizzazione e ho iniziato lì – annaspando all'inizio – i primi passi. Loro (…..) sembrano ancora più legate ai diritti….hanno fatto un altro percorso. Hanno un'altra storia. Noi, io…era più un malessere dovuto all'ambiente in cui si viveva. Sì, le guerre per i diritti le abbiamo fatte, ma qual era il diritto? Adriana Papaleo, che fu figura di riferimento per molte udine di Catanzaro e provincia e che assunse anche incarichi a livello nazionale dopo l’XI Congresso, al riguardo dice: «Questo gruppo di donne si è sempre più allargato, fino a raggiungere quote inimmaginabili dal punto di vista del tesseramento delle associate che nemmeno i partiti di allora avevano raggiunto, perchè a Catanzaro avevamo un grosso seguito. E poi la cosa particolare che aveva l’UDI di Catanzaro, a differenza delle altre UDI d’Italia –perchè poi noi andavamo sempre nelle riunioni nazionali- è che mentre l’UDI in tutte le regioni d’Italia aveva una connotazione precisa di carattere politico –erano tutte donne che venivano dai partiti della sinistra, soprattutto dal partito comunista, e poi era una classe medio/proletaria- a Catanzaro questo non avvenne, cioè il nocciolo fondatore dell’UDI di Catanzaro apparteneva alla borghesia, e c’erano donne di sinistra ma anche donne di centro, oppure donne che non erano iscritte da nessuna parte. Quindi c’era questa connotazione diversa tra noi e il resto, che comunque ha contribuito ad avere un grande appoggio proprio dal punto di vista dell’interesse esterno e una grande adesione da parte di donne che non si sentivano subito etichettate con la targhetta “donne di sinistra” ... E quindi noi abbiamo sviluppato tutta una serie di iniziative, di lavori, soprattutto dal punto di vista culturale; io credo che noi abbiamo lavorato, oltre a tutto quello che riguardava i diritti civili e anche le conquiste che riguardavano le donne dal punto di vista istituzionale, noi abbiamo fatto un’operazione proprio di carattere culturale in quegli anni, promuovendo una serie di convegni soprattutto su quelle che sono state le femministe ante litteram, ...,tipo Rosa Luxemburg, ecc.; abbiamo fatto seminari e ogni volta che facevamo queste iniziative, oltre alle nostre associate, che comunque erano assidue frequentatrici della nostra sede, avevamo proprio tutta la città che veniva a prendere parte»16. E, comunque, si allacciavano rapporti e si promuovevano obiettivi comuni con le lavoratrici agricole, come testimonia ancora Papaleo: «...nelle campagne, per esempio, eravamo donne con donne; si parlava in dialetto, quelle ti raccontavano in dialetto la loro vita, ti facevano vedere cose che tu magari non riuscivi a vedere, entrando proprio nel merito delle loro vicende personali, i rapporti con i mariti, il loro lavoro (quello delle raccoglitrici di olive era un lavoro da cani); poi c’era la Levato, di Santa Caterina, che storicamente era una specie di caporale delle raccoglitrici di olive, una donna intelligentissima, anche se non aveva fatto nessuna scuola, ma con una vivacità intellettuale pazzesca; c’erano cose che erano loro che insegnavano a te, altro che tu andavi a portare il Verbo! Se non avessimo avuto la capacità di rapportarci in questo modo...» E all’UDI si torna col pensiero o attraverso legami forti di amicizia. Una lezione che non si impara dalle parole, ma che è frutto della propria capacità di decodificare i segni intorno a sé. Nel caso di Catanzaro la militanza in altre organizzazioni politiche non sembra costituire un problema. Tuttavia - a differenza di quanto succede a livello nazionale - il disagio delle udine catanzaresi non viene avvertito all’interno dell’organizzazione, ma fuori. Così risponde Anna Maria Longo, fino agli anni ottanta leader carismatica dell’UDI catanzarese, alla domanda di Giovanna Vingelli su come fosse il rapporto col partito comunista: «Conflittuale. E' stato un rapporto molto conflittuale perché questo movimento cresceva molto, e crescendo così tanto portava dentro elementi di autonomia forte. Quindi lo sforzo...faccio un esempio: noi avevamo il sindacato a Catanzaro, il sindacato scuola, ma anche lì – quando aprimmo la battaglia per queste maestre – ci rendemmo conto che c'erano canali privilegiati, canali non trasparenti. E quindi ecco lo scontro forte. Soprattutto la mia persona era diventata un personaggio d'attacco. »17 In ogni caso, anche se è forte il legame con l’area comunista, la militanza nell’UDI determina sempre un mutamento nel proprio modo di vedere la politica. Sempre Anna Maria Longo: «Io ho vissuto la doppia militanza con grande sofferenza e scontro, soprattutto. Perché lo scontro, il conflitto, c'era. Ne avevo consapevolezza. Man mano che questo percorso andava avanti, io sentivo le donne molto pronte, e ancora di più vedevo questa organizzazione del partito maschilista, questo trincerarsi, questa paura del nuovo.»18 Il rapporto con i collettivi femministi e', in un primo momento, conflittuale; jn un secondo momento, al contrario si recuperano approcci e pratiche tipiche del movimento: «L'UDI secondo me fa un percorso un pò diverso; le militanti del partito tentano di fare questo, l'UDI come struttura solo di donne si scioglie e, secondo me, si riorganizza da un punto di vista di movimento, quindi produce una rottura nei confronti dei partiti, considerati espressione del maschile. […]L’UDI, rompendo in questo modo, trasla, anima e corpo, nelle fila del più sfegatato femminismo, perché in fondo loro scoprono, a loro volta, in quegli anni, che cosa significa essere delle donne; paradossalmente, scoprono la diversità femminile. Quindi, in parte può essere stato strumentale, ma in parte, secondo me, loro hanno fatto un percorso, per così dire, posticipato, di quello che noi abbiamo fatto negli anni '70 »20. Altrettanto interessante per chiarire i rapporti tra i diversi gruppi è la testimonianza di Fulvia Geracioti: «Abitavo a Catanzaro, frequentavo per stima, simpatia, ammirazione le donne di sinistra e del collettivo femminista come Lorenza Rozzi, Isa Mantelli, Aldina Alcaro, Rosanna Maida, Amelia Morica, Elsa Scarfone ed il gruppo misto dell’ass. “ Giuditta Levato” tra cui Pasquale Alcaro, ma mi metteva un po’ a disagio il tipo di rivendicazione “operaista” : ero di estrazione borghese e a volte mi sentivo come se fossi un’infiltrata…; soprattutto non capivo perché osteggiassero le posizioni radicali a favore dei diritti civili, perché – dicevano – che la lotta prioritaria era contro i padroni…Ricordo che mi addolorò molto che non si vollero interessare della raccolta di firme per il referendum contro i Patti Lateranensi perché “ distraevano dalle battaglie per la riconversione industriale” . Lo stesso disagio lo provai verso l’UDI : mi dis-turbava la modalità delle rivendicazioni e, confusamente , sentivo che la parità mi trascinava come donna su un terreno non mio, la libertà per come l’intendevo io non si esauriva con la conquista dei diritti legali, aveva piuttosto a che fare con il senso ultimo dell’esistenza, era uno spazio vitale in cui progettarmi, dis-piegarmi. Non volevo sostituire i dogmi della chiesa con quelli del partito, volevo libertà di pensare il mio pensiero.»21 La conclusione di queste esperienze, quella dell’UDI di Catanzaro ma anche dell’UDI di Soverato e del Collettivo, non è indolore. Le forme di leadership che si erano sviluppate al loro interno cominciavano ad essere messe in discussione. L’autorevolezza - che emerge attraverso i racconti in cui ognuna fa riferimento alla “più grande”, a cui si guarda con rispetto e ammirazione, non è mai un dato tranquillamente acquisito: è una caratteristica strutturale del movimento quella di fare sempre i conti con il passato e con il futuro.

Un po’ di cronologia

Tra il 1960 e il 1971, anno dell’approvazione della nuova legge sulla tutela della lavoratrici madri e di quella sugli asili nido, le politiche familiari sono al centro delle rivendicazioni delle donne.

Nel 1963 viene varata la Legge n. 7 che sancisce la nullità del licenziamento a causa di matrimonio;

nel 1966 la Legge n. 604 del 15 luglio, che stabilisce la nullità del licenziamento discriminatorio (cioè determinato da ragioni di credo politico, fede religiosa, appartenenza ad un sindacato, partecipazione ad attività sindacali)

Alla fine anni ‘60 appare il neo femminismo: le donne italiane iniziano ad ispirarsi alle idee neo-femministe provenienti dagli USA e dall'Inghilterra e a fare propria la pratica dell'autocoscienza, danno vita ad una molteplicità di gruppi diversi, ciascuno dei quali rappresenta e sviluppa un particolare aspetto dell'analisi femminista. In Italia il movimento femminista si distingue in modo abbastanza conflittuale da quelle posizioni che puntano esclusivamente sull’ emancipazione femminile.

Nel 1970 la legislazione accoglie l'avanzamento dei diritti dei lavoratori determinato dalla stagione di lotte del 1968/69, e il Parlamento approva la Legge n. 300 del 20 maggio 1970 - Statuto dei lavoratori - “Norme sulla tutela della libertà e dignità del lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nel luoghi di lavoro e norme sul collocamento". Questa è la legge cardine del diritto del lavoro italiano. Essa stabilisce tra l'altro la nullità di patti o atti diretti a fini di discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso.

Sempre il 1970 è l’anno in cui l’UDI lancia una vertenza nazionale per gli asili nido e per le scuole dell'infanzia. E’ inoltre l’anno dell’approvazione della "Legge Fortuna" che istituisce il divorzio.

Nel 1971 vengono approvate la legge n. 1204 "tutela della lavoratrice madre" che stabilisce, tra l'altro, la nullità del licenziamento della donna dall'inizio della gravidanza fino al primo anno di età del bambino e la legge n. 1044 "Piano quinquennale degli asili nido"

Nel 1974 si tiene il referendum sul divorzio: il tentativo delle gerarchie cattoliche di ottenere l'abrogazione della legge istitutiva del divorzio non passa: al referendum quasi il 60 % della popolazione vota contro l'abrogazione della legge. Si tratta di una grande vittoria laica e progressista.

Nel 1975 viene approvata la Legge n. 151 del 19 maggio “Riforma del diritto di famiglia”. Si conclude così una lunghissima discussione parlamentare (iniziata nel 1969) accompagnata da vivaci iniziative e manifestazioni politiche delle donne. Con questa legge le donne ed i figli conquistano una posizione paritaria all'interno di una famiglia che, fino a quel momento, era dominata dalla figura del padre-marito. Il 1975 è anche l’anno in cui viene aperta a Milano la Libreria delle Donne, tuttora attiva. Essa costituirà un punto di riferimento a livello nazionale per chiunque si interessi della produzione culturale scritta dalle donne. In molte occasioni è stata una voce significativa del movimento femminista italiano. Negli stessi anni a Roma nasce il Centro Virginia Woolf.

Nel 1977 viene approvata la Legge n. 903 del 9 dicembre "Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro", che vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso sia per l'accesso al lavoro, che nella retribuzione e nell'assegnazione delle qualifiche.

Dopo una lunghissima discussione parlamentare (durata anni) sostenuta da innumerevoli manifestazioni ed iniziative politiche delle donne (UDI, movimenti femministi, donne dei partiti della sinistra) viene approvata la legge 194/78 che garantisce l'interruzione volontaria della gravidanza entro 90 giorni dal concepimento.

Nel 1981, tre anni dopo l'approvazione della legge sull'aborto, la Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale promuovono il referendum abrogativo, ma gli italiani votano per il mantenimento della legge con una maggioranza del 68 %.


2.1 UDI: Circolo di Catanzaro

L’UDI si riforma a Catanzaro il 6 dicembre 1970. Il circolo nasce per iniziativa di Anna Maria Longo, che sarà coordinatrice provinciale e regionale dell’organizzazione dal 1970 al 1984. E’ lei che raccoglie intorno a sé un primo comitato di dodici donne. Il comitato catanzarese nel corso degli anni si allargherà sempre di più, per scelta politica della dirigente. Dopo l’incontro del 6 novembre(quale anno??) sono già circa ottanta le tesserate.

La prima battaglia che l’UDI di Catanzaro intraprende è quella per il diritto allo studio che, come sostengono queste donne, “comincia a tre anni”. A Catanzaro infatti nei primi anni Settanta l’unico asilo esistente era privato. La battaglia per il diritto allo studio, proprio perché riferita ad una fascia di età in cui il bambino è ancora totalmente dipendente da qualcuno, serve a far emergere i diritti e le esigenze elementari, ma allo stesso tempo fondamentali, delle donne: «Quella di Catanzaro era considerata fra le UDI più all'avanguardia in Italia, perché l'elemento che noi abbiamo avuto il coraggio di affrontare non era tanto il servizio sociale, la scuola per l'infanzia, ma il fatto di dare alle donne un aiuto, una tranquillità, per essere più libere, per pensare di più a stesse. Questo è stato un elemento di novità; io dicevo: “Così potete andare dal parrucchiere, perché sapete che il bambino è sistemato, è seguito”. Era un rivolgersi alle donne come fatto di liberazione dalla soggezione familiare, dalla dipendenza familiare. Noi sviluppammo tutto questo filone.»13



Il 29 e il 30 gennaio del 1972 al Convegno Nazionale “La donna e la maternità nel quadro delle riforme” la posizione dell’UDI è per la prevenzione dell’aborto attraverso l’istituzione diffusa dei consultori. L’UDI ritiene che il rapporto donna-maternità costituisca il punto nodale della questione femminile, poiché vede un condizionamento negativo da parte della società per il suo essere madre “potenziale o di fatto”. Proprio su questo rapporto con la specie si è fondata per l’UDI l’inferiorità sociale della donna, inferiorità che ha trovato la sua espressione nella cosiddetta “divisione dei ruoli”.

Il 5 marzo del 1972 alla manifestazione che si tiene all’interno di un cinema cittadino “Per la sicurezza delle famiglie per l’emancipazione della donna un posto di lavoro sicuro e giustamente retribuito in una Calabria moderna e rinnovata” sono presenti oltre 600 donne.

Nel 1973 le donne dell’UDI denunciano la forte carenza di servizi sociali, soprattutto dopo le alluvioni che quell’anno avevano colpito molti centri rurali del catanzarese. Oltre ad annunciare l’arrivo di una delegazione nazionale UDI nelle zone del nubifragio, il direttivo provinciale incontra il 13 gennaio i responsabili dell’amministrazione regionale e preannuncia l’apertura di una vertenza con i comuni, l’amministrazione provinciale e la regione, per la piena occupazione femminile e la creazione di scuole materne e asili nido14. Alla manifestazione unitaria del 3 marzo, preparata da decine di assemblee - a Borgia, Caraffa, Cropani, Taverna, a Catanzaro con le lavoratrici della Sip, a Crotone e Nicastro nei quartieri più popolari - aderiranno la CGIL, le ACLI e i partiti democratici di sinistra. Nel corso di questo lavoro di mobilitazione l’UDI porta avanti un’iniziativa di solidarietà in direzione delle famiglie alluvionate dei paesi più colpiti. Due delegazioni dell’UDI nazionale incontrano le donne e le popolazioni di Roccelletta, Guardavalle, Amaroni e Nardodipace. Una parte degli aiuti, provenienti soprattutto da Ravenna, verrà distribuito nel corso delle assemblee tenute davanti alle case degli alluvionati. Le alluvioni avevano causato 22 morti e 32 mila senza tetto. Sotto accusa il governo Andreotti: ci si chiede infatti quale fine abbiano fatto i 350 miliardi della legge pro-Calabria, spariti senza alcuna opera di difesa e di protezione del suolo, e ci si indigna quando di fronte a 700 miliardi di danni il Governo risponde con un decreto definito «vergognoso e offensivo perché elargizione di elemosina ai poveri calabresi.»15 Tra l’altro nel decreto nessuna menzione veniva fatta della chiusura di molte scuole, ancora utilizzate per ospitare la gente colpita dalle alluvioni. Al centro dell’attività dell’UDI resta dunque la battaglia per gli asili nido scarsamente considerati dal governo Andreotti-Malagodi.

Nell’incontro con l’assessore regionale alla Sanità l’UDI sottolinea quali fossero gli elementi da tenere presente nel piano di attuazione degli asili nido: il numero delle donne occupate; la mortalità infantile; il numero delle case malsane. Si tratta perciò di criteri che vanno oltre il principio demografico suggerito dall’Assessorato. Da qui l’input per una riflessione più ampia che, ribadendo comunque la primaria importanza dei servizi sociali, si concentra sul problema dell’occupazione femminile. Il dato emblematico di cui ci si serve è quello riguardante la provincia di Catanzaro dove, nel 1971, il rapporto tra la forza lavoro femminile rispetto a quella totale delle donne era dell’11,39%: solo undici donne su cento erano entrate nel mercato del lavoro. Per l’UDI il motivo di questa situazione stava in primo luogo nel fatto che alle donne della provincia di Catanzaro spettava il peso della cura di 900 mila bambini dai 0 ai 5 anni senza asili nido e con un numero insufficiente di scuole materne.

In quali condizioni dunque la donna calabrese affronta il lavoro, quali i lavori che le si offrono e a quali condizioni. L’analisi delle condizioni di lavoro delle braccianti e il salario da esse percepito consistente in due bottiglie d’olio, per le lavoratrici di Cropani ad esempio, chiariscono il quadro.

Nell’ ambito dell’agricoltura le donne dell’UDI chiedono il miglioramento del terreno agricolo e una programmazione. Di conseguenza corsi di qualificazione per le braccianti, trasformazione dei prodotti, sviluppo zootecnico e degli ortofrutticoli. Nell’ambito dei servizi sociali: case, asili nido, scuola materna pubblica e generalizzata, scuola elementare e media a tempo pieno, per dare assistenza ai bambini e lavoro alle donne.

Il 1971 era stato per l’UDI l’anno in cui il principio della maternità come valore sociale aveva fatto un notevole passo avanti con l’approvazione della legge per un piano quinquennale di asili nido, finanziati dallo Stato e dai datori di lavoro, programmati dalle Regioni, costruiti e gestiti dai Comuni.

L’8 marzo 1975 delegazioni femminili di Catanzaro, Crotone, Nicastro. Guardavalle, Badolato, Girifalco, Borgia, Roccelletta, Cropani, Petronà, Chiaravalle, Taverna e Satriano si recano alla Regione per chiedere, nel quadro della concretizzazione del “valore sociale della maternità”, l’immediato sblocco dei fondi: 800 milioni per il 1972, un miliardo e trecento milioni per il 1973 assegnati e destinati alla costruzione di asili nido; l’istituzione di corsi professionali per puericultrici ed i contributi per consentire alle partecipanti di poterli frequentare.

Le linee di azione dell’UDI erano state tracciate nel corso dell’ultima riunione del comitato provinciale. Nel documento ufficiale il comitato «prende atto che l’aggravarsi della crisi economica nazionale ha reso insostenibili i livelli di vita nella regione, colpendo in maniera particolare le condizioni di vita e di lavoro per le donne, alla quali si vuole far pagare il maggior costo della crisi economica. All’aggravarsi oggettivo della crisi è corrisposta una tendenza d’immobilismo, di paralisi e di impostazioni conservatrici a livello degli enti pubblici ed in modo particolare a livello del governo regionale, che ha disatteso le aspettative della massa femminile vanificando anche la realizzazione della rete di asili nido e di corsi di qualificazione professionale per le puericultrici, i cui fondi assegnati giacciono inutilizzati da tempo»16

Il documento sottolinea inoltre la necessità di legare il piano di asili nido a quello dei consultori e ad una nuova legge per il diritto allo studio «che dia realmente a tutti la possibilità di istruirsi ed educarsi in una scuola moderna e rinnovata e cancelli tutti i carrozzoni clientelari e gli sperperi che tanto hanno aggravato il dispendio di fondi pubblici»17

Nel 1977, in tal senso, viene presentato un piano alla regione.


Divorzio

Nel 1971 l’UDI di Catanzaro apre una riflessione dedicata alla riforma del diritto di famiglia. L’attività viene portata avanti con l’organizzazione di un primo ciclo di conferenze da tenersi all’interno del teatro comunale l’8, il 16 e il 19 febbraio. L’intento è quello di dare inizio ad un confronto democratico di opinioni sui problemi che investono il diritto di famiglia. Durante gli incontri vengono affrontati i temi della “condizione della donna oggi“ (a cura dell’avv. Giovanni Lamanna), della “podestà nell’attuale diritto di famiglia” (a cura dell’avv. Aldo Stigliano) e dei “progetti di riforma del diritto di famiglia” (a cura dell’avv. Luigi Tropeano). Nel corso del primo dibattito l’avv. Lamanna ha messo in luce il grave stato di arretratezza che la regione vive e sottolineato di conseguenza quello della condizione femminile: il 63% della popolazione in età lavorativa è costituita da donne e di queste solo il 7% ha un posto di lavoro. Della condizione della donna nel diritto civile si è occupato l’avv. Stigliano che ha rilevato le contraddizioni tra codice civile e Costituzione, soprattutto negli articoli 3 e 39 di quest’ultima che sanciscono parità dei cittadini e dei coniugi. L’avv. Tropeano ha affrontato i vari problemi con un’ottica politica. La prima domanda che ci si pone è il perché i problemi del diritto di famiglia siano stati tanto disattesi: la risposta dell’UDI è che «le forze più reazionarie e più retrive hanno difeso a spada tratta l’attuale struttura famigliare gerarchica e autoritaria, il mutamento della quale, non c’è dubbio, rappresenta, in senso democratico, la base fondamentale di una società meno autoritaria e meno gerarchica»27. Durante le introduzioni ai dibattiti, infatti, Anna Maria Longo ribadisce e rilancia l’unità antifascista tra le varie forze democratiche, chiama a questa unità tutte le organizzazioni e associazioni femminili ed i movimenti femminili dei partiti democratici, perché la democrazia che si vuole far avanzare tenga conto di contenuti e valori senza i quali non si arriverebbe alla sua concreta realizzazione. Inoltre, a proposito della riforma del diritto di famiglia, la Longo esplicita la sua concezione gramsciana della famiglia intesa come centro di vita morale e di solidarietà. Nel febbraio del 1974, un’altra tavola rotonda promossa dall’UDI di Catanzaro ha per tema “Le donne di fronte alla crisi e al referendum: nuovi impegni di lotta per la propria emancipazione, per la democrazia e per il rinnovamento della società e della famiglia”. In tutti gli interventi, fra cui quelli di Vittorio Todaro, consigliere nazionale ACLI, di Anita Pasquali, della commissione femminile nazionale del PCI ed di Enrica Lucarelli, responsabile nazionale della commissione femminile del PSI, si è data particolare rilevanza al quadro politico generale italiano e alla crisi che investe il paese. Queste le parole di Anita Pasquali: «Il referendum è una grave manovra che vorrebbe abrogare una di quelle poche leggi che abbia veramente funzionato nel nostro Paese. Il PCI non lo voleva perché sapeva benissimo quali pericoli nascondeva e non già per paura; perciò ora esso è già vivamente impegnato nella lotta anche se per noi resta il referendum della discordia e della divisione»28. Il 24 aprile a conclusione del ciclo di conferenze verrà organizzata una “tavola rotonda” dal tema “Motivi e proposte per una riforma del diritto di famiglia”. Il 18, 29 e 30 marzo del 1974 sono dedicati dall’UDI tre seminari di aggiornamento per approfondire i problemi giuridici e politici inerenti alla campagna sul referendum. È qui che viene lanciata per la prima volta l’idea di una Consulta Regionale costituita in modo rappresentativo da tutte le organizzazioni femminili. «Ci battiamo per l’approvazione della Riforma del Diritto di Famiglia, perché è una grande conquista di libertà! Siamo convinte che questa conquista rappresenti non solo un grande fatto di rinnovamento giuridico, morale, democratico della famiglia e della società italiana, ma essa è la base per il riscatto delle condizioni di vita e di lavoro della donna, di questa protagonista nuova della società italiana degli anni ’70, che è presente, si organizza e combatte, oltre che nelle lotte dure delle fabbriche, dei campi, delle scuole e nei posti di lavoro, in tutte le altre lotte popolari e democratiche con una propria tematica e articolazione rivendicativa»29. È l’azione politica di massa - secondo Anna Maria Longo - a dover spingere le forze governative a difendere gli interessi primari delle masse femminili dall’attacco di un disegno conservatore e reazionario che vorrebbe scaricare sulle spalle delle donne i pesi maggiori della crisi economica. Il 12 e 13 maggio 1974 si tiene il referendum abrogativo della legge sul divorzio: «Fino ad arrivare alla grande battaglia del '74 sul divorzio. Quella l'abbiamo vissuta in solitudine, perchè lo stesso PCI non ci credeva in questa battaglia. Ci fu una grande mobilitazione, non solo nelle città, ma anche nelle campagne, nelle sezioni. Donne che avevano delle perplessità, e ti ponevano il problema: noi siamo consapevoli che nostro marito la sera viene ubriaco, ci costringe a stare a letto con loro e ci mette pure incinte; ma se gli diamo la possibilità pure di divorziare, come viviamo? Era il problema economico che loro portavano avanti. E allora noi ad assicurarle che avrebbero avuto dei diritti, che non era possibile sopportare questo inferno. Comunque in Calabria, esclusa Reggio Calabria (dove la battaglia è stata persa) noi abbiamo avuto un successo che non era sperabile. C'è stato un tasso di democrazia alto, messo in evidenza da queste battaglie.».30 Nel novembre del 1974, in vista della manifestazione nazionale del 13 a Roma promossa dall’UDI sul diritto di famiglia, l’UDI di Catanzaro indice un’assemblea nella quale emergono le richieste prioritarie dell’organizzazione: «Asili nido e scuole materne per i propri bambini, una scuola a tempo pieno che garantisca il “Diritto allo Studio” per tutti e dia lavoro e occupazione alle migliaia di diplomate e laureate disoccupate; case decorose a basso costo in cui abitare, assistenza sanitaria, consultori di maternità, assistenza per gli anziani; trasporti e servizi pubblici; l’utilizzazione stabile e qualificata per milioni di energie produttive costituite dalle masse femminili, a cui finora è stata offerta, quando e come è piaciuto ai gruppi monopolistici, un’occupazione saltuaria, di riserva, dequalificata, a sottosalario e nei margini e ruoli più umilianti e mortificanti»31. Relatore ufficiale è l’avv. Mario Casalinuovo, consigliere regionale del PSI, il quale ha sostenuto che «la mobilitazione di Roma deve interessare non soltanto le donne ma tutti i democratici italiani, laici e cattolici, perché il problema di una famiglia civile e democratica è problema fondamentale di tutta la società e presupposto reale per una svolta progressista del paese»32. Nel suo intervento traccia per grandi linee la storia della riforma del diritto di famiglia, attraverso gli atti della Costituente, le previsioni costituzionali, i progetti di legge fino ad arrivare al primo progetto governativo del 1963 (con il quale alla donna veniva riconosciuta nel lavoro pari capacità di quella maschile a tutti i livelli) «quando già, due danni prima l’onorevole Fortuna aveva presentato il suo primo progetto per il divorzio»33


Aborto

In piena mobilitazione per la legge sull’aborto, le donne UDI partecipano alle manifestazioni nazionali con propri volantini. In uno di questi si legge: «Abbiamo lasciato le nostre case, abbiamo viaggiato per tante ore, veniamo da Catanzaro per esprimere insieme a te la nostra solidarietà di donna su un dramma che finora abbiamo vissuto in silenzio»34 e raccolgono le firme per una petizione al Senato «per dire che su quello che il movimento delle donne ha conquistato non si torna indietro; per dire che devono far presto ad approvare la legge; purché nella legge ci siano tutte le garanzie pratiche per rimuovere ogni ostacolo alla sua piena applicazione»35. Nel volantino UDI dell’8 novembre, in cui si invita alla partecipazione alla manifestazione regionale da tenersi a Cosenza in difesa della 194, l’aborto viene definito un dramma doloroso, sempre esistito e praticato nella solitudine dalle mammane con gravi rischi per la salute.

La 194 ha in parte risolto il problema della clandestinità ma, quando ancora molti sono i passi da compiere, si tenta di affossarla a colpi di referendum. Dopo anni di battaglie per l’applicazione della legge, approvata il 22 maggio del 1978, bisogna ritornare a difenderla. Così si legge sul volantino sopra citato: «La legge non ha certo inventato l’aborto, ma ha preso atto di una realtà dolorosa e ha cercato di dare risposte che rispettino la dignità e la sicurezza della donna. Grandi masse di uomini e di donne, indipendentemente dalle convinzioni politiche, hanno sostenuto il ruolo di uno stato laico che affronti i delicati problemi della maternità e i suoi rilevati risvolti sociali. Per questo hanno lottato e continuano a lottare. La legge 194 è frutto di uno sforzo lungo e serio per far fronte ad una piaga secolare, per liberare la donna dall’aborto. Dobbiamo salvaguardarla con fermezza e farla funzionare correttamente ovunque. Questa legge non si tocca»


VOLANTINO UDI CATANZARO IN DIFESA DELLA 194













MANIFESTO UDI CZ BATTAGLIA CONSULTORI


Gli anni ‘80 sono gli anni della crisi innescata dalle profonde ristrutturazioni industriali che impongono un duro arresto alla stagione di avanzamento del movimento dei lavoratori e delle conquiste sindacali. La crisi industriale, il declino della unità sindacale, il clima di tensione creato dai ‘diversi’ terrorismi, la difficoltà di gestire le differenze che si manifestavano tra le donne e all’interno dei movimenti femministi, tutto ciò pone termine alla stagione di lotte: continua da un lato l'elaborazione teorica di intellettuali e filosofe condotta in ambiti separati, e dall'altro l'attività delle donne nelle organizzazioni sindacali, in particolare nella CGIL, e nei partiti. Cessa l'esperienza delle "150 ore delle donne".


VOLANTINO UDI CATANZARO CAMPAGNA DI MOBILITAZIONE CONTRO LA VIOLENZA E IL TERRORISMO






Le ultime attività

Nel discorso introduttivo al convegno Anna Maria Longo parte dalla constatazione che tutte le donne che hanno reso testimonianza non hanno mancato di sottolineare l’immenso dolore che il parto provoca, “un dolore, uno sfinimento, il senso della morte e della fine” e si domanda: «si può forse amare di più? Vi è capacità e facoltà di amare più grande di questa spasmodica contrazione fisica d’immenso dolore per poter generare un’altra vita? »36. Per l’UDI è ormai necessario dare una valenza politica a questo rapporto, creare spazi in cui questa “diversità” possa esprimersi senza essere sopraffatta. «Un nuovo ordine del mondo, degli Stati, delle società, delle Istituzioni; dal modo di produrre, di lavorare, di consumare, di legiferare, di spendere, di focalizzare la vita ed i suoi interessi, questa è la dimensione progettuale del nostro partorire, del nostro scegliere di dare la vita ad altri essere umani»37 «Riappropriamoci del parto, contestando poteri che ora assumono le vesti del padre, ora quelle del medico, ora quelle della struttura ospedaliera, ora quelle del legislatore, ora quelle della scuola, ora quelle del mercato e della divisione del lavoro, ora quelle di ogni distorsione economica, sociale, geografica, vuol dire far camminare la nostra rivoluzione, vuol dire salvare l’umanità attraverso il nostro bisogno di amore. Riappropriarsi del parto è la nostra risposta di solidarietà, è continuare la lotta delle donne argentine, delle madri di Plaza de Majo»38 I risultati del convegno sono 27 racconti in risposta ai questionari e la carta dei diritti della partoriente. La maggioranza di queste donne racconta di non aver avuto informazioni sul parto. Cambia il modo di vivere perché cambia il modo di lavorare è il titolo di uno degli ultimi convegni organizzati, in riferimento al quale Longo dice: «Noi nell'84 facemmo un convegno su come cambiava il modo di lavorare e di vivere con l'informatica; è stato un convegno bellissimo, in cui noi analizzammo i tempi delle donne, in rapporto alla macchina, il passaggio dal lavoro manuale al lavoro con la macchina (anche negli uffici), facendo un'inchiesta accurata. Ci preoccupammo di questa meccanizzazione, come pericolo che sovrastava la libertà delle donne, anche durante il lavoro. Capimmo allora che c'era, in un certo senso, quasi una deresponsabilizzazione nel lavoro, un delegare tutto alla macchina, quindi un chinarsi delle capacità di organizzarsi il lavoro, di riflettere sul lavoro. C'erano i pro e i contro di questa rivoluzione informatica.»Così Delia Fabrizi descrive gli ultimi anni dell’esperienza Udi catanzarese: « Dopo l’XI Congresso abbiamo realizzato una serie di iniziative (l’XI Congresso è quello che ha destrutturato il verticismo dell’UDI) e abbiamo fatto corsi e percorsi molto interessanti, di cui ourtroppo, con la superficialità con cui troppe volte noi donne consideriamo i lavori che facciamo, non abbiamo pubblicato gli atti. E questo lavoro era su Virginia Woolf, su Adrienne Rich, su Edith Warton e poi, in seguito, il gruppo rimasto ha lavorato per realizzare l’ultima parte del progetto, che abbiamo intitolato “Perchè la madre? Ipotesi sul rapporto madre-figlia.”(...)Il seminario sul rapporto madre-figlia aveva aperto una falla in ognuna di noi; eravamo nell’85, in epoche molto primitive. Ricordo di quel periodo che andammo a Roma Ketty Dominianni ed io per realizzarlo e venne Maria Luisa Boccia...(...)...Mi ricordo che venne Maria Grazia Minghetti...(...)»39. Ma si era ormai alla conclusione dell’esperienza dell’UDI catanzarese: «...un problema di diaspora, perchè le nostre vite, a un certo punto, hanno portato ognuna di noi per una strada diversa, alla ricerca di un percorso proprio. Mantenendo, però, con la maggior parte, un rapporto affettivo...(...)...Seguivo...da Adriana (Papaleo) sapevo (lei era una delle Garanti nazionali dell’UDI) quello che succedeva a livello nazionale, ma non ho avuto più il desiderio, il tempo...non di stare tra donne...ma di fare politica».

2.2 UDI: Circolo di Soverato

COLLETTIVO DI ZONA: RINA TROVATO, ADRIANA PAPALEO, ANNAMARIA LONGO, ADRIANA LERRO, MARIA GIOVANNA GRILLONE, ASSUNTA DI CUNZOLO


Nei primi anni Settanta era nato un circolo UDI ad Argusto, la cui attivita' si incentro' principalmente sulle campagne referendarie riguardanti il divorzio e la 194. Il circolo conclue la sua attivita' nel 1978 quando la sua responsabile, Lisa Maltese, si trasferi' a Catanzaro. Nel 1976 era attivo il circolo UDI di Soverato. Così ricostruisce la sua nascita Assunta Di Cunzolo: “una compagna di partito, Maria Scarfone, unica donna nel Consiglio Comunale di Soverato con il PCI all’opposizione, mi fece conoscere Annamaria Longo in occasione di un comizio in piazza. Annamaria era la responsabile provinciale dell’UDI di Catanzaro e fu la mia prima maestra di politica...... . Maria Scarfone stava costituendo il circolo Udi a Soverato ma non aveva intenzione di assumerne la responsabilità perchè impegnata nel suo lavoro nel Consiglio Comunale e nel partito; fui contenta quando mi propose di costruire questa cosa.” Il primo gruppo di donne si aggregò intorno al problema della carenza dei servizi sociali nella zona, partendo dalle proprie immediate necessità di giovani madri; il gruppo iniziò a riflettere sul “valore sociale della maternità”, che era la tematica su cui l’UDI nazionale e provinciale stava lavorando in quegli anni. Ad Assunta e a Maria si unirono sin dall’inizio Adriana Lerro, Saveria Ciaccio, Rosa Mangione, Maria Grazia Riveruzzi, Zina Lupo, Marina Prezzo, Laura Dominjanni, Betty Moraca, Anna Screnci, Caterina Cilurso, Karen Serraino e Francesca Fondacaro, tutte quasi trentenni o poco più; ma in breve il circolo riuscì ad attirare anche donne più giovani: Giovanna Grillone e Rosetta Carchidi, Marianna De Paola e ragazze come Teresa Corapi, Luigia Barbieri, Eugenia Gallo, Katia Tassone, Virginia Aloisio, Teresa Ciaccio. Oltre al lavoro di riflessione interna, il gruppo si rapportò costantemente con l’esterno e con l’Amministrazione Comunale avanzando richieste e accendendo conflitti per la realizzazione dei servizi: asili –nido, mensa e tempo pieno nella scuola elementare e materna, consultorio. Nel 1976 il circolo riesce a far attuare il tempo pieno con un regolare servizio di mensa nelle scuole materne, redige il regolamento per il funzionamento dell’unico asilo nido comunale e ne ottiene la gestione sociale con la rappresentanza delle utenti; fornisce inoltre all’Amministrazione Comunale il bando per ottenere i finanziamenti necessari per la costruzione di un nuovo asilo nido e una scuola materna che verranno realizzati e ospiteranno in locali idonei i piccoli utenti finora costretti in appartamenti o buchi di garage. «Di quel periodo ricordo i volantinaggi davanti alla scuola materna ...., i comunicati e le interviste a radio Soverato, fatte a rotazione da tutte perchè nessuna di noi aveva piacere di esporsi, e seguite dall’immancabile recarsi dal Sindaco o dall’assessore preposto per rivendicare un diritto...», riferisce ancora Assunta in una intervista. Se rivendicare un diritto richiedeva impegno, in quegli anni “trasgredire” rispetto ai costumi e alle tradizioni richiedeva di mettere in discussione soprattutto l’educazione ricevuta e i confini delineati a limitare la propria libertà: «Nel 1976 iniziammo a festeggiare l’8 marzo anche qui a Soverato. In quella occasione i camerieri si mostrarono palesemente contrariati nel dover servire tavoli di sole donne, assumendo atteggiamenti volutamente sgarbati. Avevamo finalmente raggiunto un traguardo, ma il passaggio dalla liberazione alla libertà era ancora ben lontano dall’essere conquistato». Intanto, in linea con la tendenza nazionale e per contaminazione delle pratiche femministe, anche all’interno dell’associazione locale si manifestò l’esigenza di riunirsi in piccoli gruppi di “autocoscienza”. Erano soprattutto le più giovani ad avere l’esigenza di comunicare e confrontare esperienze di vita e difficoltà nell’intento di rompere l’isolamento in cui ciascuna viveva desideri ed emozioni considerati allora indicibili. Anche se, al di là del gruppo, come testimonia Rosetta Carchidi molti anni dopo in un articolo di Antonella Mongiardo sul giornale locale “Ioniostar”, «le donne conducevano la vita di sempre, quella di mogli e mamme, tutt’al più impegnate anche nel lavoro fuori casa».



BROCHURE DEL CONSULTORIO DI SOVERATO


Il 1975 è l’anno della legge nazionale sui consultori; l’11 giugno del 1977 le donne dell’UDI di Soverato indicono la prima assemblea pubblica che ha per tema “I Consultori”.Il 25 giugno del 1977 all’ordine del giorno del Consiglio Comunale di Soverato c’è l’approvazione del Consultorio Pubblico; relatrice è la consigliera di minoranza Maria Scarfone. Le donne dell’UDI piantonano l’aula consiliare riuscendo infine ad ottenere la delibera istitutiva del consultorio che nasce come servizio comunale: «Tutto ci avevano insegnato e tutto avevamo imparato, e, tra le cose che ci avevano insegnato, c’era quella che il nostro corpo era vergogna e offesa per la collettività; era quindi da nascondere e i suoi istinti (emozioni diremmo oggi) da reprimere. Ricordo la ricerca affannosa dei giri di parole utili a soppiantare ‘sesso’ e ‘sessualità’ soprattutto quando io e Maria Scarfone abbiamo redatto l’intervento che lei avrebbe dovuto fare in Consiglio Comunale per proporre l’istituzione del Consultorio, ancor prima dell’istituzione dell’USL e dell’approvazione della Legge Regionale. Fu una mobilitazione incredibile, fatta nei quartieri e casa per casa, da tutte, madri e figlie, ragazze e adulte, che si scontrava qui con una cultura profondamente e diffusamente cattolica anche perchè gli studi venivano in gran parte compiuti presso le scuole private gestite da salesiani e salesiane. La presenza costante delle donne nella sala consiliare indusse la maggioranza ad uscire di scena e, in seconda seduta, con la sola coraggiosa presenza dell’assessore anziano Antonino Maida e della minoranza PCI, passò all’unanimità la proposta avanzata da Maria. Fu una vittoria che ci inorgoglì molto; ci credevamo ormai forti, potenti e potevamo alzare il tiro». Per oltre un biennio questo consenso rimase solo su carta.

Nel 1978 verrà approvato il regolamento, che ne garantiva la gestione a donne utenti elette dall’assemblea delle utenti in numero pari alle rappresentanze istituzionali previste da norma. Al di là delle figure professionali femminili previste -una ginecologa, una psicologa, un’assistente sociale e un’infermiera professionale-, la responsabilità politica e la gestione del consultorio era affidata al comitato di gestione come previsto dalla normativa nazionale (art. 3 Legge n.26\77): un rappresentante del distretto scolastico, un coordinatore del gruppo di lavoro delle figure professionali; tre rappresentanti sindacali; un rappresentante del consiglio di fabbrica; un rappresentante per ciascuna organizzazione femminile a carattere nazionale fino a un massimo di cinque persone; un numero di utenti da stabilire. Nel caso di Soverato fu stabilito che questo numero fosse pari al numero degli altri componenti del comitato, così da avere una gestione dettata dall’utenza e tutta al femminile. Il consultorio a Soverato nacque come servizio comunale, prima ancora dell’istituzione delle USSLL con cui il circolo UDI ebbe un costante rapporto conflittuale sia riguardo le finalità del servizio sia riguardo la gestione dettata dell’utenza e tutta al femminile. «Nelle sue funzioni il consultorio di Soverato intende aderire e applicare, in ogni sua parte, i criteri sanciti dalla legge 405\75, dalla legge 194 e dalla legge regionale n.26 del 1977, criteri che vogliono assicurare ai cittadini\e un servizio specialistico, di assistenza psicologica, sociale e sanitaria per la preparazione alla maternità e alla paternità responsabile, ai problemi del singolo\a, della coppia e della famiglia e alla problematica minorile».40 Ma il consultorio di Soverato resisterà nella sua funzione e organizzazione iniziale, di servizio per la donna e della donna, ancora fino alla prima metà degli anni ’90. Nel 1979, in una lettera aperta sul “Giornale di Calabria” l’UDI denunciava la carenza dei consultori familiari in Calabria (ancora solo tre, nonostante fossero passati quattro anni dalla legge nazionale e 57 fossero state le delibere in

VIGNETTE INFORMATIVE DIFFUSE DAL CONSULTORIO DI SOVERATO


tutta la regione) e spiega la tortuosa vicenda del consultorio di Soverato: «alle nostre pressioni per la realizzazione pratica del servizio l’Amministrazione Comunale rispondeva con un carosello di resistenza, incuria, ignoranza e interrogazioni. Arriva la tanto attesa giunta di centro-sinistra ed ecco che sembra aprirsi uno spiraglio di luce. Ma di fronte al problema delle assunzioni del personale si erge un ennesimo ostacolo. ...Dopo quattro anni dalla legge nazionale, la Regione Calabria e le molteplici amministrazioni comunali stentano ancora oggi ad aprire gli occhi e a prendere visione di una realtà che, nonostante le loro goffe resistenze, sta profondamente evolvendosi.... »18.





Nel 1979 saranno disponibili i locali dell’Hotel delle Terme, ma solo nel marzo del 1980 il consultorio verrà aperto. In seguito, con il trasferimento della gestione alle USSL, i comitati di gestione dei consultori verranno soppressi o sostituiti da un unico comitato di gestione dell’USSL, privilegiando l’aspetto sanitario, medicalizzando tutto il servizio e trascurando la funzione psico-sociale. Nonostante il trasferimento della gestione alle USSL, il consultorio di S overato riuscì a mantenere le sue caratteristiche, anche grazie al lavoro al suo interno di due operatrici, Luigia Barbieri e Teresa Ciaccio, e alla conduzione politica delle presidenti del comitato di gestione che si sono succedute (Zina Lupo, Maria Grazia Riveruzzi, Marisa Gigliotti). Questa la testimonianza di un’operatrice, Teresa Ciaccio: «Ho iniziato a lavorare nel consultorio nel luglio del 1980. All’inizio conoscevo poco del mio lavoro; ho imparato e continuamente imparo grazie agli incontri quotidiani, alla ricchezza delle storie di vita che ricevo in dono ogni volta che entro in relazione con le persone. In questo processo di apprendistato ho imparato soprattutto dalle donne, dalla loro storia, segnata spesso da una mancanza quasi totale di consapevolezza di sé, del proprio valore, relegato nella coppia e nella famiglia ad assumersi responsabilità e pesi senza comprendere la potenza creativa del proprio lavoro»42. Teresa si iscrisse all’Udi dopo avere incontrato nel consultorio le donne dell’associazione. Assunta ricostruisce così quegli anni in riferimento ad un suo intervento ad una manifestazione dell’Udi nazionale alla basilica di Massenzio a Roma nel ’77: «...”argomenti mai affrontati prima dalle donne di Soverato in assemblee e pubblici dibattiti, come la contraccezione, l’aborto e la sessualità, vengono ora discussi in ogni sede”, cercando di veicolare il messaggio di una sessualità femminile finalmente libera dalla vergogna e su cui ogni donna, educata a disconoscere il proprio corpo, doveva e poteva interrogarsi per liberarsi da un’educazione e cultura che, dalla nascita e a prescindere dalla posizione sociale, imponeva alla coscienza singola e collettiva di considerare la donna esclusivamente in relazione ai bisogni del maschio a prescindere e nel soffocamento del proprio desiderio»43 . Ci volle ancora un decennio perchè il consultorio potesse rivolgersi alle giovani attraverso le scuole; la resistenza era opposta da presidi e docenti oltre che dai genitori. A tale proposito per l’anno 1991\1992 il comitato di gestione presentò un programma di massima rivolto soprattutto all’educazione alla salute delle giovani. Sarà la Dott.ssa Carmen Leccardi del dipartimento di Sociologia dell’Università della Calabria ad inaugurare l’anno dedicato ai giovani in un incontro-dibattito del 12 ottobre 1991. Le tematiche relative alla conoscenza del corpo e della sessualità e all’affermazione della propria autodeterminazione avevano preso forma e sostanza con il X Congresso Nazionale UDI che fu il Congresso della valorizzazione della “diversità” nell’essere donna, dell’individuazione della propria oggettivazione sessuale e della traduzione politica dell’essere soggetti nelle proprie scelte. E’ anche però il Congresso dell’autonomia dal PCI e dagli altri partiti della sinistra e del separatismo rispetto la politica dei luoghi misti. Alcune si recano a Roma per partecipare attivamente, altre organizzano a Soverato riunioni di piccoli gruppi nei quartieri. Il 1979 è l’anno della proposta di legge ad iniziativa popolare contro la violenza sessuale: “Norme penali relative ai crimini perpetrati attraverso la violenza sessuale e fisica contro la persona”. Questi gli intenti dell’azione: «Un tentativo per modificare il costume e la mentalità prevalente nella nostra società; Non ci illudiamo, infatti, che serva cambiare il codice penale, senza prima aver compiuto una campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica su argomenti e problemi mai affrontati prima di ora o affrontati male. La nostra azione riguardo la suddetta iniziativa sarà pertanto duplice: da una parte le proposte concrete, tecniche, qual è la proposta di legge (che abbiamo fatta nostra) sulla violenza sessuale; dall’altra un’ azione continua e il più capillare possibile sull’opinione pubblica»44. Viene organizzata una raccolta di firme e si tenta di far passare il messaggio che il reato di violenza sessuale colpisce “una e tutte”, a causa della storia collettiva di oppressione sessuale. In quest’ottica vengono affrontati i temi della casalinghità che accomuna tutte, della famiglia, dell’organizzazione sociale e del rapporto di coppia. Nello spirito dei decreti delegati l’UDI sollecita la partecipazione dei genitori alla vita della scuola materna, non più intesa come area di parcheggio ma importante momento educativo per lo sviluppo del bambino. Dal 1980 in poi il gruppo, che si è ridimensionato dopo il X Congresso, limita le manifestazioni all’esterno. L’attività principale è quella culturale: bisogna, dicono, riappropriarsi della storia, della cultura, della politica. Partecipano infatti ai seminari del centro-studi UDI Catanzaro (da Sibilla Aleramo al neo-femminismo, 1981), leggono i libri dello “scandalo” e tentano di recuperare le radici attraverso la storia e la letteratura a partire dai movimenti e dalle scrittrici di fine Ottocento. Il gruppo partecipa attivamente alla campagna referendaria per il no ai referendum abrogativi della legge 194, sempre più convinte di dover difendere innanzitutto il diritto di autodeterminazione di ciascuna. Nel 1982 nasce il Centro di consulenza legale donna. Così, Assunta Di Cunzolo ricostruisce quella esperienza: «Poi vennero gli anni delle battaglie per cambiare le norme che non riconoscevano il reato di stupro come crimine contro la donna; per il codice esistente lo stupro era un reato contro la morale pubblica, e questo era incredibile e inconcepibile. Inoltre in casa si potevano consumare i crimini più terribili contro le donne da parte di mariti, padri, fratelli e -non si comprende perché- tutto restava impunito. E questi erano i crimini più diffusi qui, quelli che si consumavano nelle famiglie, come poi avremmo saputo attraverso il Centro di Consulenza Legale per le donne che il circolo istituì quando Virginia Aloisio, giovanissima avvocata, rientrò, dopo gli studi, a Soverato. Il Centro fu aperto nel 1982 e continuò a funzionare con Virginia, Luigia e Teresa Ciaccio anche dopo la chiusura del circolo; funzionò fino al 1990, quando Virginia decise di continuare la sua professione a Roma nello studio legale di Tina Lagostena Bassi, la famosa avvocata dei delitti del Circeo, con la quale aveva iniziato a collaborare durante il percorso del Centro Legale e per consulenze. Non si rivolse al Centro una folla di donne come invece ci aspettavamo, ma quelle che ebbero il coraggio di accedervi raccontavano di soprusi terribili in famiglia cui erano costrette insieme a figli e figlie; così relazionavano le amiche che se ne occupavano mantenendo il più stretto riserbo sui nomi, ancora oggi nell’anonimato più assoluto.»45 Nello stesso anno si partecipa al XI Congresso Nazionale con il quale l’UDI decide il suo autoscioglimento: « Ai congressi avevamo anche noi votato per demolire l’UDI come struttura verticistica -lo slogan era ‘meno organizzazione, più movimento’- ma, dopo il XII° congresso , che io sappia, non ci riunimmo più nel circolo di Soverato. Forse la lettura del Sottosopra Verde, forse la convinzione che tutto appartenesse ormai al passato senza prospettive e senza speranza, forse la stanchezza, forse non reggevamo più il conflitto all’esterno ma soprattutto all’interno. Non ricordo con precisione…ma, se avevamo bene imparato ad attivare antagonismi e mediazioni all’esterno, non eravamo ancora pronte o, meglio, non avevamo gli strumenti per imparare a gestire i conflitti tra noi; sapevamo solo soffrirne oppure godere dell’attacco all’altra oppure sottrarci andando via. E, alla fine, non tutte insieme ma ognuna andò via. »46 L’ultimo documento in nostro possesso risale al 1983: una pubblicazione sulle pagine autogestite della rivista Noi donne, nella quale viene illustrata l’attività del circolo Udi di Soverato a cura di Virginia Aloisio, Stella Palermo, Luigia Barbieri, Teresa Ciaccio, Marianna De Paola, Adriana Lerro, Zina Lupo, Assunta Di Cunzolo. Nei primi anni ’80 era nato anche un circolo UDI a Tiriolo, che operò nella prima metà di quegli anni guidato da Rita Cimino. E’ l’ultimo gruppo Udi di cui abbiamo avuto notizia.



    1. UDI: Circolo di Lamezia Terme


PRIMO CONGRESSO PROVINCIALE: ANNA MARIA LONGO E VANNA DE PIETRO



La nascita del circolo UDI di Lamezia Terme risale agli inizi del 1971. Con il sostegno dell’UDI di Catanzaro viene aperta una prima sede in Corso Numistrano al civivo 43, dedicata a Giuditta Levato. Insieme a Vanna De Pietro ci sono le allora giovani studentesse Elsa Gallina, Vera La Monica, Lucia Mercuri, Loredana Rubino e Maria Spada. I primi strumenti di comunicazione sono la rivista “Noi Donne” (diffusa dalle studentesse nelle scuole e dalle donne nei loro quartieri), i volantini, i manifesti ma soprattutto gli incontri, “dove ci si conosce, si socializza e si affrontano i problemi del quotidiano”. Ed è qui che emerge come priorità il problema dell’assenza quasi totale di servizi sociali. «Il mio ragazzo mi disse che c'era questa donna, questa architetta, che organizzava una riunione con delle donne. Andai alla prima riunione addirittura. Mi piacque subito il discorso. Comunque c'era materiale, c'erano cose da guardare, da leggere. Poi l'UDI a Lamezia ha avuto un'organizzazione e un impulso straordinari, perché sostanzialmente si sono organizzati dei circoli, c'era proprio una rete organizzativa. Questo è stato importante, ma è stato molto importante lo stare insieme tra donne di generazioni diverse, di estrazioni sociali differenti. Tu immagina: la studentessa con la bracciante del quartiere popolare, e insieme a leggere “Noi Donne”, che è stata una rivista importantissima, di rottura all'epoca. Io diffondevo le copie di “Noi Donne” a scuola, abbiamo fatto un sacco di incontri, molti con questo taglio sociale, dei quartieri popolari nuovi che venivano costruiti a Lamezia, e lì la battaglia per la luce, per i servizi pubblici, quindi c'era molto questo taglio sociale.»47 Sotto questa spinta sorgono presto altri punti di aggregazione nei quartieri periferici: Razionale, San Teodoro, Bella e Campusano e vengono aperte altre sedi dedicate a Irma Bandiera, Rosa Luxembourg e Julieta Campusano. La crescita dell’organizzazione pone il problema del finanziamento delle attività e allora le insegnanti e le impiegate, tra le quali Clorinda Speranza, Maria Porchia, Natalina Vescio, che fanno parte del gruppo dirigente, sostengono l’UDI autotassandosi. Le più giovani organizzano nella sede piccole mostre e vendite e si occupano della contabilità tenendo aperto anche nelle ore serali.

UN INCONTRO CON LE DONNE DI BELLA (CZ)


Nel 1972, dopo una analisi sulla popolazione scolastica da 0 a 3 anni (3980 erano i bambini nel comune di Lamezia Terme), l’UDI elabora una indagine sul territorio comunale dalla quale risulta la necessità di 73 asili nido. Il Comune, dopo vari incontri con delegazioni di donne, eroga 60 milioni di lire per la costruzione del primo asilo nido comunale. Parallelamente all’attività esterna l’UDI apre una discussione culturale all’interno dell’organizzazione, un ferrato confronto che inizia da un lavoro di analisi delle riviste femminili di maggiore diffusione e che termina con lo smascherare quell’ immaginario che non è altro che il preludio dell’odierna invasione mediatica sul corpo femminile. Vengono realizzate circa 300 diapositive, fatte circolare poi anche in circoli UDI di altre regioni, in cui da una parte viene proiettata la donna proposta dalle riviste, dall’altra quella delle donne lametine nelle loro diverse realtà: da quella dell’analfabetismo a quella delle contrade senza acqua e senza luce. Nel gennaio del 1973, dopo l’alluvione, denunciano gli sperperi di denaro pubblico e la conseguente negligenza delle istituzioni preposte alla tutela del territorio e dei cittadini. Il 21 settembre, in occasione dello sciopero regionale indetto dalle confederazioni sindacali è folta la presenza femminile. Il mese di ottobre è dedicato invece ai congressi: il 21 ottobre quello di Lamezia, la settimana successiva quello provinciale di Catanzaro. Nel 1973 sono 241 le donne iscritte all’UDI e organizzate nei quattro circoli territoriali, tra studentesse, insegnanti, impiegate, disoccupate, casalinghe e contadine. Nel mese di novembre si tiene a Roma il IX congresso nazionale e anche l’UDI di Lamezia vi partecipa. Nel suo intervento Vanna De Pietro denuncia la mancata concretizzazione del “pacchetto Colombo”, presentato nel 1970 e che, fra le altre cose, prevedeva la realizzazione di 35000 posti di lavoro in Calabria e in Sicilia, l’apertura del V centro siderurgico, la SIR (Sud Italia Resina) e un’industria chimica del gruppo Rovelli. Oltre a denunciare l’esistenza solo su carta del progetto, viene messo in evidenzia come nella forza lavoro prevista per l’impiego non compaia neanche l’eventualità di assumere donne. Il 25 marzo del 1974 le donne del circolo UDI di Lamezia organizzano un viaggio a Praia a Mare per far visitare a 50 donne l’industria tessile “Marlane”, uno dei pochi casi nella regione di impianto industriale a occupazione femminile. Così racconta Vanna De Pietro la prima fondatrice del circolo, architetto, che da Roma si traferisce a Lamezia nel 1970: «L’esperienza è stata straordinaria: per queste donne si apriva un mondo nuovo e diverso in quanto la maggior parte di loro era casalinga e quindi estranea ad altre problematiche. L’unico lavoro che conoscevano era quello di bracciante o di raccoglitrici di olive remunerato il più delle volte con qualche bottiglia di olio»48 . Nei mesi che precedono il 12 maggio del 1974, anche l’UDI di Lamezia partecipa alla campagna referendaria, sempre Vanna De Pietro ricorda: «Eravamo consapevoli di quanto fosse chiaro il tentativo di contrapporre il Nord al Sud, di mettere la disperazione delle masse popolari del Sud contro la classe operaia del Nord, tentando di svuotare di significato e di gravità una situazione economica e politica che era la più grave del dopoguerra[..] Di fronte a una situazione in cui venivano travisati i fatti, in cui si speculava sui sentimenti, si seminava spavento e timore sostenendo che quella legge era un’arma nelle mani dei mariti emigrati che avrebbero potuto servirsene per abbandonare le mogli, l’UDI non poteva non sentirsi direttamente colpita e la sua mobilitazione è stata tutta rivolta a far capire che ben altri erano i motivi della discriminazione delle donne e del loro ruolo subalterno nella società: la disoccupazione, il sottosviluppo del Mezzogiorno, la mancanza di attrezzature e di servizi sociali». Si va in giro per i quartieri, per le frazioni e le contrade con l’automobile attrezzata di altoparlanti per parlare alla gente e non sempre le reazioni sono pacifiche: «Ad un certo punto nei pressi di una scuola gestita da suore, si viene letteralmente bombardate da uova, pomodori marci e verdure d’ogni genere oltre che di improperi abbastanza pesanti»49 Il 13 novembre del 1974 l’UDI di Lamezia partecipa alla manifestazione nazionale per la riforma del diritto di famiglia. Si parte di notte in treno :«Un intero vagone è pieno di donne lametine di tutte le età e i ceti sociali. Molte di loro, le meno giovani, si allontanavano per la prima volta lasciando mariti e figli, per la prima volta vanno a Roma, per la prima volta partecipano ad una manifestazione nazionale. Ricordo che i mariti le affidavano a me. Non si era mai vista una manifestazione di donne così imponente. Le vie della città erano piene di donne. L’esperienza è stata indimenticabile»50



IL CIRCOLO GIUDITTA LEVATO PER LE STRADE DI ROMA


In preparazione al convegno del 22 aprile a Roma sui consultori di maternità l’UDI diffonde un questionario tra le donne dei quartieri popolari, che viene compilato dopo incontri e discussioni sul significato di maternità come scelta libera e consapevole e sull’aborto. Questi i risultati dell’indagine su un campione di 227 donne. Alla domanda “hai voluto tutti i figli che hai?” il 30% rispondeva di no; alla successiva “desideri avere altri figli?” il 20% rispondeva positivamente. Il 75% conosceva gli anticoncezionali, ma il 33% li riteneva nocivi alla salute. Per ciò che riguardava l’aborto, il 30% ammetteva di aver abortito, il 4% si rifiutava di rispondere. Solo il 30% delle donne che avevano praticato l’aborto si erano rivolte a un medico. Tra quelle che avevano abortito il 2,5% lo aveva fatto più di una volta con casi estremi di dieci e più aborti ancora. Favorevole all’educazione sessuale nelle scuole e all’aborto negli ospedali è l’80% delle donne interpellate.




DA SINISTRA: ELSA GALLINA,VANNA DE PIETRO, VERA LA MONICA, MARIA SPADA, LUCIA MERCURI


2.4 IL Collettivo femminista di Catanzaro

(Questo paragrafo e' stato rivisto da Donatella Brazzetti)

Nel momento in cui si passa dalla ricostruzione dei percorsi di un gruppo formalizzato e istituzionale come quello dell'UDI, a quella del movimento femminista emergono tutte le difficolta' messe in luce da quante e quanti in questi anni hanno variamente tentato di ripercorrere le vicende. A Catanzaro, come altrove, e' difficile trovare fonti documentarie, e' difficile riattraversare gli eventi anche utilizzando lo strumeno della “storia orale”. Una difficolta' che in generale molte pensatrici (Anna Rossi- Doria, 2005) hanno ricondotto in parte alla specificita' di un movimento che si sedimenta intorno al problema della soggettivita' femminile, della sessualita', e percorre strade come quella dell'autocoscienza, e del non dicibile. A differenza della militanza “tradizionale” (anche quella movimentista ed extra-parlamentare di quegli anni) – che si sostanzia in atti pubblici,(manifestazioni, occupazioni, volantini, documenti, assemblee, verbali, e quant'altro) – definirsi sul piano della soggettivita' (collettivamente e individualmente) lascia poche tracce documentarie, scava contraddizioni difficili a dirsi e ad essere rielaborate, produce trasformazioni radicali non traducibili nell'immediatzza di un evento comunicabile e documentabile. In questo senso non e' facile restituire la portata di una esperienza che ha comunque segnato un'epoca e costretto direttamente o indirettamente forze politiche, gruppi extraparlamentari, e senso comune a misurarsi con l'emergere di un nuovo soggetto politico, non riconducibile ai canoni dell'agire politico “tradizionale”.

Il collettivo femminista nasce a Catanzaro i primi mesi del 1974 sull'onda dilagante dell'esperienza delle donne di altre zone d'Italia e del mondo occidentale. Il tramite attraverso cui le esperienze in corso arrivano a Catanzaro e' costituito, come in moltissimi altri casi, dalle aderenti ai gruppi extraparlamentari e in particolare dalle (giovani) donne di Lotta Continua. Come e' noto, la componente delle donne politicizzate e legate all'esperienza dei gruppi extraparlamentari e' particolarmente significativa nel processo di costruzione del movimento femminista in Italia. Il Collettivo raccoglie pero' provenienze molteplici non riducibili alla sola appartenenza politica. Giovanissime studentesse e donne che lavorano, donne fortemente politicizzate e appartenenti a formazioni politiche differenziate (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Partito Comunista), giovani che non hanno mai fatto politica in precedenza, donne della buona borghesia, donne di estrazione proletaria e sottoproletaria: il collettivo arriva ad avere oltre quaranta aerenti. Le attivita' del Collettivo si muovono su piani differenti e compositi, nel tentativo di trovare una propria identita'. In particolare coesistono al suo interno, si intrecciano e spesso configgono tra loro le spinte ad approfondire l'esperienza dei piccoli gruppi di autocoscienza e l'intervento nel sociale, il bisogno di andare a fondo sul senso della propria soggettivita' e la mobilitazione su temi che riguardano la collocazione sociale delle donne, il tempo per se' e il tempo per le altre. Il primo passo che il Collettivo compie e' comunque quello di definirsi com “gruppo di donne” , assumendo il separatismo come condizione fondante della propria esistenza , una selta che crea forti frizioni e incomprenzioni con i “compagni maschi”, ma anche con i gruppi istituzionli di donne, come l'UDI, che in quegli anni e' ancora fortemente influenzata dalla propria vicinanza ai partiti della sinistra istituzionale. Le relazioni tra movimento e UDI sono in questa fase ancora difficili. Il Collettivo inizialmente non ha una vera e propria sede. Spesso si riunisce nei locali di Lotta Continua in via Casa arse, spesso in case private. Solo piu' tardi dara' avvio all'esperienza del Consultorio autogestito, un tentativo di proporre anche a Catanzaro le eperienze dei gruppi di Self Help, finalizzati alla possibilita' che le donne imparino a conoscere a fondo il proprio corpo, le proprie capacita' riproduttive, sottraendosi cosi' al potere esercitato sui loro corpi dai medici e piu' in generale dagli uomini. Il Consultorio e' pero' il portato di un percorso che inizialmente si struttura soprattutto sull'esperienza dell'autocoscienza, che nasce dall'urgenza di trovare risposte allo scoprirsi oggetti del potere maschile ed appartenenti ad una comune condizione di tacitamente e di oppressione. E' una scoperta al contempo esaltante e drammatica: esaltante nel verificare, attravero il confronto con le altre, che i problemi, le difficolta' nei rapporti sessuali, le incertezze del vivere e del definirsi sono comuni a tutte: sono il portato di una appartenenza sessuale; drammatiche perche' scoprirsi come “secondo sesso” richiede di scavare dentro se stesse per trovare nuove risposte e nuove dimensioni di identita', significa misurarsi con i propri rapporti di coppia, significa trasferire dentro il proprio vissuto lo scontro che molte avevano praticato nel sociale contro un nemico esterno e spesso in nome di gruppi “oppressi” estranei al proprio vivere. I piccoli gruppi di autocoscienza rivelano questa drammaticita'. “Il gruppo di autocoscienza – racconta Lorenza Rozzi – mi fece soffrire come un cane rognoso. Misi in discussione il rapporto con mia madte, con mia sorella (….) la sessualita' era un problema che non mi toccava, la avevo sempre vissuta con serenita'. Ricordo un 8 marzo davanti alla Prefettura, quando il giorno dopo in ospedale mi chiesero se era vero che non portavo le mutande. Poi c'e' stato il doloroso rientro nel nostro privato. I piccoli gruppi di autocoscienza, dopo un percorso temporale abbastanza breve, si scontrano, a Catanzaro come in moltplii altri posti, con la mancanza di strumenti per approfondire i significati dei singoli percorsi biografici, non hanno strumenti per governare un processo di attraversamento del mondo interiore e della sessualita', producono sofferenze e conflitti. In altre parti d'Italia, come a Roma e a Milano, queste difficolta', a volte drammatiche, troeranno una risposta nelle pratiche dell'incoscio, nell'intrapresa di un confronto sul terreno della psicoanalisi. A Catanzaro l'esperienza verra' invece sospesa, di fronte al carico di sofferenze, di difficolta', di conflitto che mette in moto. Nel sociale, il Collettivo avvia l'esperienza del Consultorio autogestito, ed e' fortemente mobilitato sui temi dell'aborto, e della tutela della salute riproduttiva delle donne. Questo interesse e' favorito dalla forte presenza di aderenti al Collettivo dentro l'Ospedale e dal momento di particolare consapevolezza e mobilitazione che si vive dentro questa struttura. Alcuni medici davvero straordinari, coadiuvati da paramedici altrettanto responsabili e disponibili portano avanti in quegli anni un lavoro di rinnovamento profondo della struttura. Il Consultorio si materializza in una microscopica sede di due stanzette in via Case Arse, di fronte alla sede di Lotta Continua. Ottiene in dotazione un lettino ginecologico e il supporto di un ginecologo dell'ospedale. Ciascuna delle componenti del collettivo posiede un suo speculum per l'autovisita. Il Consultorio in verita' non funziona come struttura esterna, ma costituisce un momento importante di scoperta del proprio corpo, di confronto, di apprendimento dei delicati meccanismi che ben poche conoscono al di la' delle mestruazioni. E' un percorso di scoperta di una diversa intimita' che ciascuna puo' costruire con il proprio corpo, con i suoi “luoghi” piu' nascosti e da sempre tacitati. Annamaria Casalinuovo conserva ancora gli speculum per l'autovisita. “Quando ho visto per la prima volta il collo dell'utero ho pensato ad una piccola albicocca. Ho pensato: ecco perche' il rosa e' il colore delle donne”. Ad agosto del 1974 un evento gravissimo mette in moto la mobilitazione sui temi del parto e della salute delle donne e contribuisce a tessere la rete di donne intorno a cui si sedimentera' negli anni il Collettivo.

Una ragazza di diciannove anni, Antonina Pollizzi muore di parto nell’ospedale di Catanzaro, a fine agosto. Le donne del Collettivo con un volantino denunciano la situazione intollerabile in cui versa il reparto di maternita'. La morte di Antonina e' il segnale piu' drammatico di una condizione comunque inaccettabile. Inizialmente si crea uno stato di tensione con le infermiere del reparto, che sentono pesare su di loro l’accusa della morte di Antonina. Nascono così, da questo scontro iniziale, una serie di riunioni, convocate all’interno dell’ospedale, tra il collettivo femminista, le infermiere e le donne ricoverate. L’incontro fa emergere anche la difficoltà per le dipendenti di vedere in ogni paziente non solo un carico di lavoro superiore alle loro possibilità: «Non c’è dubbio che c’è una opposizione tra la donna ricoverata che ha bisogno di tutto e le ostetriche e le infermiere affogate nel lavoro che vedono in ogni ricoverata un carico di lavoro in più. Ma c’è anche un’altra ragione, E’ una contraddizione non facile da superare perché nasce non solo dalle condizioni materiali di sfruttamento nell’ospedale, ma anche da un patrimonio ideologico pesantissimo che richiede per essere superato una lunga battaglia ideologica e una trasformazione sociale profonda.»52 Esistono infatti forti condizionamenti culturali, valori segnati da una realta' dove ancora c’è il dominio della famiglia contadina patriarcale, dove la sessualità si identifica profondamente con la colpa e dove anche il parto e le malattie legate all’apparato genitale vengono vissute come viziate da questo “peccato originale”: «Se nei medici queste convinzioni corrispondono al più profondo razzismo e all’ignoranza verso i problemi e le malattie delle donne, nelle infermiere diventa a volte rifiuto dell’altra donna, insofferenza, chiusura ai loro bisogni, rifiuto di identificarsi in una situazione comune» 53. Un articolo su “Lotta Continua” afferma «Già non è facile accettare come naturale la morte per parto, ma è ancor meno facile accettarla quando si partorisce all’ospedale di Catanzaro, dove alla generale mancanza di organico, infermieri, ostetriche, ausiliarie ecc. (e dei medici i quali dedicano all’ospedale pochissimo tempo), si unisce un totale disprezzo per le donne ricoverate e per il loro corpo. Così un ginecologo in una lezione alle allieve infermiere è arrivato a giustificare l’asportazione ad una donna, oltre che dell’utero malato, delle ovaie perfettamente sane, con queste parole: “Che cosa se ne faceva visto che senza utero non poteva più fare figli?”. Un altro della stessa risma, a proposito dei tagli cesarei, è arrivato a vantarsi che loro “per la sicurezza delle donne preferiscono squartarle” e che solo nelle cliniche fanno i taglietti invisibili.»54 Improvvisamente si scopre dunque che il reparto ostetrico “faceva schifo”, ma, nonostante ciò, nessuno risponde ai problemi delle donne ospedalizzate e alle domande che esse si pongono: come è che una donna può morire di collasso, dopo che da ben tredici giorni era ricoverata nel reparto? Perché nemmeno il bambino si è salvato? In che condizioni di sfruttamento si lavora? Molte cose comunque si muovono. Ostetriche e infermiere cominciano a discutere collettivamente del proprio ruolo e delle condizioni di sfruttamento in cui si lavora nell’ospedale. Licia e' una levatrice che lavora in ospedale, appartine al Collettivo, e organizza i corsi di parto indolore. La sua testimonianza ci fornisce un quadro della situazione sociale e culturale dell’epoca. Ricorda le parole di un’ostetrica in sala parto: «Apri le gambe, così come fai quando stai con tuo marito?». E di alcuni medici: «Quando in ospedale arrivavano donne che si erano procurate l’aborto, alcuni medici si arrogavano il diritto di infliggere loro la punizione non facendo l’anestesia. Il pretesto era solitamente quello di chiedere se avevano lo stomaco pieno e se loro rispondevano di sì, si sentivano legittimati a procedere con il loro intervento barbaro. Noi a un certo punto abbiamo cominciato ad avvertire le pazienti e le aiutavamo a procurarsi il vomito» 55 «Poi lì è successo che una serie di episodi...una ragazza era morta di parto per esempio, un'altra ragazza era morta perché aveva tentato l'aborto, aveva abortito ficcandosi degli stecchetti di rosmarino...non so di che cosa...dentro nell'utero, ed era morta di setticemia, una cosa terrificante, una cancrena gassosa...per cui l'impegno era anche fortissimo nel senso di fare lavoro...stavamo alle porte dell'ospedale come prima io stavo alle porte della fabbrica, dando volantini, dicendo che ci voleva questa legge, non era proprio possibile.»56 Dentro l’ospedale lavoravano anche Lorenza Rozzi e Isolina Mantelli. Isa e' medico e proviene da un ambiente borghese e non ha problemi di parola, e quando viene assunta in ospedale ricorda che «non riverivo e non avevo paura di nessuno». Fa politica fin dal liceo. L’elemento di congiunzione è per lei la scoperta del conflitto con la madre: «Io ero figlia di padre, per capire mia madre ho dovuto attaccare mia figlia al petto»57. E’ convinta che la verità non può stare nell’ideologia. L’attacco all’ideologia è stato per lei sia il livello della dissacrazione che quello della liberazione: «Questo è dimostrato dallo scontro con “lotta continua” a cui molte di noi sono state legate ma con cui non hanno avuto problemi a rompere quando sono finiti i punti i convergenza. La mia appartenenza è “guarda sempre il volto dell’altro ma senza mai proiettarci il tuo”».58 Lorenza, responsabile della scuola di formazione per gli infermieri specializzati, viene da Reggio Emilia e dall’esperienza politica del PCI. Ha sempre vissuto in un ambiente operaio altamente politicizzato, i suoi zii hanno direttamente partecipato alla resistenza partigiana. Vive la militanza come un dovere ed appena arrivata a Catanzaro desta stupore nell’ambiente del partito il suo gesto di destinare alla tessera una somma più alta di quella che abitualmente veniva data. Viene cooptata nel comitato federale. Arriva a Catanzaro dopo essersi diplomata a Roma alla scuola infermieristica e specializzata nel ‘68 a Parigi nell’assistenza ai malati di neurochirurgia ed aver lavorato nella tendopoli del Belice. Dopo quest’ultima esperienza Susanna Agnelli le propone di organizzare la scuola infermieristica in Calabria. Catanzaro le era stata descritta come la città tra i due mari, ma la delusione per questo piccolo errore di collocazione geografica, viene compensata dalla piacevole sorpresa di trovarsi a contatto con un mondo medico che definisce altamente qualificato ed aperto a fornire alle infermiere le possibilità di poter esprimere la loro professionalità. A quei tempi Lorenza comprava l’Unità ed il solo fatto di esporlo in guardiola veniva considerato come un gesto rivoluzionario. «I rapporti con i miei superiori hanno avuto anche dei momenti molto critici come quando cercarono di impedirmi di partecipare ad un concorso interno. Chi però mi ostacolava, non ebbe il coraggio di affrontarmi faccia a faccia, ma chiese l’aiuto ad un altro medico».59 Lorenza ricorda che molti malati tornavano dopo essere stati dimessi solo per mangiare la “fettina” e che un’ infermiera rimase incinta e venne cacciata. Quando Lorenza incontra il femminismo lo fa tramite l’UDI ma se ne allontana presto poiché non condivide il protagonismo della dirigente: « Il femminismo è importante per me poiché mi ha dato la parola, la consapevolezza del mio essere donna e dell’invidia, la bellezza del rapporto con le altre donne. Le componenti del collettivo legate ai gruppi extraparlamentari e in particolare a Lotta Continua, oltre allo scontro sul piano sociale e su quello intimo e personale attraversano un conflitto difficile e contraddittorio con l'organizzazione e in particolare con la sua componente maschile. Un primo elemento di conflitto e' comune a tutti i contesti politicizzati: e' un conflitto tra lealta' al gruppo e al femminismo, tra priorita' delle contraddizioni da affrontare , tra i tempi della politica e quelli della riflessione e della presa di coscienza, tra fare e pensare. E' un conflitto profondo sul significato stesso di “politica” , su che cosa significhi trasformazione, sui soggetti che la producono. E' un conflitto che mette in luce le disparita' di potere che oppongono maschile e femminile dentro l'orgnizzazione. L'assemblea nazionale di Lotta Continua del 1976 fara' esplodere queste contraddizioni che mineranno il senso stesso dell'organizzazione e in questo scontro le donne di Catanzaro danno un contributo importante, a partire dalle loro esperienze nella mobilitazione all'ospedale. Nel Collettivo sono presenti anche giovani donne sposate. Rosanna Marafioti inizia l’attività politica all’università di Pisa in pieno ’68. Aderisce a Lotta Continua. Nel ’72, dopo l’università, torna a Catanzaro ed è l’unica del gruppo sposata con una casa e un figlio. «La mia casa era un porto di mare ma non è mai mancato nulla... . Nel ’79 andai via dall’Italia e mi trasferii in Olanda a Delft. E’ lì che ho iniziato a frequentare la Casa Delle Donne. Quando sono tornata a Catanzaro, nell’85 era gia tutto finito»63. Anna Maria Casalinuovo entra nel collettivo ha 30 anni e sente di vivere una grande utopia. Viene da una famiglia proletaria di quasi tutte donne. A 14 anni va a lavorare a Bergamo ed è lì che si forma la sua coscienza di classe. Il ritorno a Catanzaro è per lei particolarmente difficile: «Mentre a Bergamo non mi sentivo povera il rientro a Catanzaro è drammatico: finisco casalinga, sposata e in una situazione economica non delle più felici, non mi sentivo di appartenere più a niente»61, ma le altre ricordano come la sua casa fosse da subito diventata punto di riferimento per le donne del quartiere emarginato in cui viveva. Sono decine comunque le donne attive al suo interno, da Graziosa, ad Aldina, a Flora, a Carol, a Paola, a Olimpia.... La presenza di un gruppo femminista costituisce un sovvertimento profondo in una citta' apparentemente impermeabile al cambiamento. Quando nel 1978 alcune decidono di andare a vivere “da sole” in un grande appatramento comune a Pontegrande, gli inquilini del palazzo raccolgono firme per allontanarle, le imputano per disturbo alla quiete, di amminae in casa di notte, di attentare all'integrita' dei loro figli (!). Eppure queste donne sono serissime professioniste e insegnanti ormai ultratrentenni. Contravvengono pero' alla regola non trasgredibile che una donna esce dalla famiglia di origine solo per sposarsi (o al piu' per andare a studiare in un altro luogo). Al Collettivo fanno riferimento anche molte giovanissime studentesse e una delicatissima giovane donna del gruppo dei cosiddetti “Giardinetti”, un luogo che nelle rappresentazioni del perbenismo catanzarese significa droga ed emarginazione. Di fatto la droga fa la sua comparsa a Catanzaro. Attraversa l'esperienza di alcune giovanissime donne che nel processo di trasformazione che travolge la societa' della seconda meta' degli anni '70, non trovano gli strumenti per una ricomposizione. Nessun riferimento polotico e' in grado di offrire una prospettiva credibile. Queste giovani vite, alcune spezzate per sempre, sono il sintomo di un cambiamento che segna la fine di una esperienza, quella della mobilitazione di massa delle donne e dell'illusione che il cambiamento del mondo fosse a portata di mano. La forza straordinaria del movimento, le grandi manifestazioni per l'aborto che richiamano tutte a Roma o comunque in piazza, con la fine degli anni '70 e dopo l'approvazione della legge sull'aborto, sembra dissolversi. Come sottolinea Lorenza “c'e' stato il doloroso rientro nel nostro privato”. L'assassinio di Moro nel '78 e, di li a poco, nel 1981 la grande sconfitta degli operai della FIAT sanciscono il passaggio ad una diversa fase politica. Se il movimento si disperde restano pero' le donne che hanno attaversato quella esperienza profondissima e indimenticabile. Non a caso ciascuna ha continuato in mille diverse forme il proprio impegno, lasciando una traccia nella storia della citta'.



2.5 Collettivo Femminista di Lamezia Terme

Il collettivo femminista di Lamezia Terme nasce nel 1975 da una costola di Avanguardia Operaia. Successivamente ne nascerà un altro denominato Collettivo Donna. Le donne dei collettivi lametini sono in stretto rapporto con la sinistra partitica infatti aderiranno anche alla Carta delle donne del PCI. Del lavoro di questo collettivo abbiamo testimonianza attraverso i documenti di seguito integralmente riportati, tutti concentrati sul problema dell’aborto. La loro lettura chiarisce come, fino agli ’90, in un territorio come quello di Lamezia Terme, questo diritto non fosse ancora pienamente garantito.


IL CONSULTORIO IMPOSSIBILE

Ma non doveva essere già funzionante questo consultorio o donne, bambini

Coppie, singoli, cittadino, utente?

O è ancora quell’oscuro oggetto del desiderio?

Nel dicembre ‘78 il sindaco rappresentante della giunta DC-PSI appoggiata dal PCI sentenziò che per il consultorio tutto era pronto, “la cattiva” era la regione che non si decideva a dare i soldi! E’ passato, un’anno i soldi sono stati dati, il consultorio non solo non è stato ancora istituito ma non ha più nemmeno i locali, ceduti all’ufficio sanitario. Dove sarà, ubicato il consultorio? Sulla luna? Ci piacerebbe saperlo! Ma questa della sottrazione dei locali non e la sola cosa che ci stupisce. Il sindaco ha riproposto un regolamento che per essere un pò originale rispetto alla legge regionale introduce in qualche modo nel consultorio la figura del prete. Non abbiamo niente contro i preti, con alcuni di essi si lotta anche insieme, ma siamo convinti che l’assistenza deve essere laica e che nessun ricatto morale è giusto nei confronti delle donne.

Per noi questa è la manovra di chi vuol mantenere sotto il controllo della morale cattolica, di quella più deteriore, temi quali la sessualità, gli anticoncezionali, l’aborto ecc.; inoltre ci sembra un po’ troppo, che secondo il regolamento così come è stato proposto, il consultorio sia affidato a ben 3 medici, un’assistente sociale, un assistente sanitaria, un ostetrica e uno psicologo.

Vogliamo fare un poliambulatorio per poi non fare niente?

Noi diciamo che il consultorio può funzionare con le figure base previste dalla legge quadro: psicologo, assistente sociale, ginecologo da poter consultare (naturalmente non obiettore di coscienza) affinché le donne non si ritrovino davanti un giudice o semplicemente uno che se ne frega dei loro problemi, che saranno anche quelli relativi all’aborto, piaccia o non piaccia a chi vuole anche dopo la legge tacere questo problema. Nel consultorio le donne, gli utenti, devono avere un ruolo centrale di massima partecipazione.

Questo regolamento non lo garantisce!

Noi diciamo che nel comitato di gestione devono entrare ulteriori rappresentanze di donne e di utenti scelti dal basso e non delegati dai partiti.

Chiediamo anche che l’attuale amministrazione ci chiarisca come vuole assumere il personale del consultorio perché non ci fidiamo affatto dei suoi metodi. Infine, un consultorio per tutto il comprensorio di Lamezia non è tropo poco?

Lo sapevate che i soldi ci sono anche , per il secondo consultorio?

In una riunione dei giorni scorsi su questi temi, da cui Democrazia Proletaria è stata esclusa il PCI insieme al PDUP PSI ed ACLI si è impegnate a migliorare il regolamento. Queste forze hanno posizioni differenziate.

Il PSI che fa parte della giunta, è molto ricattabile, il PCI è oggi all’opposizione.

Ma compagni del PCI, vi batterete per avere un consultorio pubblico e per le cose dette anche in questo scritto che almeno in parte avete detto di condividere? Oppure la vostra e solo una opposizione strumentale in vista delle elezioni?

Non è questione di sfiducia, è che riteniamo, come D.P., che tutti questi interrogativi debbano uscire dal chiuso delle riunioni dei partiti per essere discussi dalla gente e perché, e questo l’unico modo per battere la violenza del potere, della DC in particolare, ma anche per aprire occhi ed intelligenza “compagni e compagne di tutta la sinistra” su una realtà che non è più quella di una volta. Altrimenti ad essere impossibile non sarà solo il consultorio.

Ciclinprop. DEMOCRAZIA PROLETARIA Via Garibaldi,75 Lamezia Terme 1979


OLTRE LA DENUNCIA: PERCHE’ LE DONNE NON SIANO PIU’ SOLE DI FRONTE AL PROBLEMA DELL’ABORTO


Lunedì 19 Febbraio sarà celebrato il processo contro i tre ginecologi della USSL 17 accusati di violazione della legge 194 e di altri gravissimi reati.


Già nel novembre scorso, dopo la notizia del rinvio a giudizio dei tre medici, ci costituimmo in “Comitato per la difesa e la corretta applicazione della 194” e, cosi organizzati, incontrammo il presidente della USSL Paolo Caglioti e il responsabile del reparto di ostetricia e ginecologia Dr. Barese, per denunciare la gravità della situazione e indicare proposte concrete, atte a rimuovere le cause che avevano reso illegalmente applicata prima, e tuttora inapplicabile la legge per l’interruzione di gravidanza.


Adesso nell’imminenza del processo, vogliamo innanzitutto riconoscere alla magistratura il merito di avere avviato e concluso celermente l’istruttoria, permettendo la realizzazione del dibattimento pubblico in tempi brevi. È un segno positivo, insieme di coscienza civile e giuridica e di riconoscimento del significato della denuncia che conduciamo da anni con l’obiettivo di rendere concreto il diritto di tutti alla cura e alla salute.


Vogliamo, poi, rivolgerci alle donne che sono parte offesa e che costituiscono la testimonianza vera del disagio con cui si è costretti ad affrontare, nella nostra USSL, un problema difficile e contraddittorio come quello dell’aborto. Ad esse offriamo la nostra concreta solidarietà, la nostra disponibilità al confronto, tutte le nostre risorse a fornire assistenza giudiziaria.


Ci rivolgiamo, infine, alla USSL 17 e all’Assessorato alla Sanità della Regione Calabria. Denunciamo con forza la mancata costituzione di parte civile in un dibattimento che vede assenti proprio gli istituti responsabili della cura e della salute dei cittadini.


Il comitato ritiene comunque di sostenere le forze politiche e le associazioni che decidessero di costituirsi parte civile e chiede principalmente alle donne, e a tutti i cittadini di partecipare attivamente alle iniziative di questi giorni.


COMITATO PER LA DIFESA DELLA 194

Centro donna Lilith, Tribunale dei diritti del malato, Comunità Progetto Sud, Democrazia Proletaria, Partito Comunista Italiano.



Lamezia Terme 15 febbraio 1990

SOLIDARIETA ALLE DONNE

La USSL deve applicare la Legge 194


Il 2 aprile al Tribunale di Lamezia si terrà la seconda udienza del processo ai tre ginecologi indiziati per aver percepito denaro in seguito ad Interruzioni Volontarie di Gravidanza presso l'Ospedale della nostra USSL.


E’ senza ombra di dubbio una vittoria delle donne e delle organizzazioni politiche che in questi anni si sono battute perché la Legge 194 venisse applicata integralmente mediante una programmazione efficiente che garantisse la riservatezza, la funzionalità e la assoluta gratuità del servizio.


A questo processo seguirà un altro che vede direttamente la USSL responsabile di non garantire il servizio di I.V.G. Ha dunque buona ragione il P.M. Calderazzo quando afferma che «ci vorrebbe un magistrato a tempo pieno che si occupi di tutte le pratiche della gestione della USSL».


MA ALLE DONNE E A NOI IL PROCESSO NON BASTA!

La nostra preoccupazione e la nostra mobilitazione hanno lo scopo di salvaguardare la dignità della donna, affinché una legge dello Stato sia applicata anche nella nostra USSL.


QUESTO DI FATTO NON AVVIENE!


Sono ormai trascorsi 6 mesi senza che alcun provvedimento risolutorio sia stato preso dal Comitato di Gestione della USSL per risolvere l'interruzione del servizio di I.V.G. Inutili a questo punto sono stati i ripetuti incontri avuti col Presidente della USSL, eppure avevamo proposto diverse soluzioni:

a) funzionalità del servizio presso l'Ospedale di Lamezia, per due giorni a settimana, mediante l'utilizzo dei sanitari non obiettori dell'Ospedale di Soveria Mannelli;

b)risoluzione della difficoltà a reperire gli anestesisti mediante garanzie certe per gli stessi, circa la non estemporaneità del servizio di I.V.G., la programmazione e la necessaria serenità professionale a svolgere un servizio così delicato;

c) rilancio della credibilità operativa del Consultorio familiare pubblico quale strumento fondamentale dell'iter che porta ad una maternità consapevole, libera, gratuita ed assistita, mediante la messa a disposizione di spazi interni all'Ospedale che garantiscano la necessaria riservatezza e il sostegno socio-psicologico alle utenti, ricomponendo soprattutto la legalità delle tappe che portano una donna a scegliere consapevolmente di abortire;

d)chiarimenti e soluzioni atte a superare l'eccessivo e in alcuni casi non giustificato ricorso all'obiezione di coscienza anche da parte di figure professionali sanitarie per le quali non è prevista e motivabile tale possibilità.


A QUESTE PROPOSTE NON E’ MAI SEGUITO, DA PARTE DEL PRESIDENTE DEL COMITATO DI GESTIONE DELLA USSL, ALCUN ATTO CONCRETO CHE MIRASSE ALLA SOLUZIONE ANCHE DI UNO SOLO DEGLI IMPEGNI PRESI

E a nulla serve dire che il servizio è comunque garantito a Soveria o nella struttura privata convenzionata. Il nostro Ospedale deve garantire un servizio previsto per una città di 70mila abitanti!

DENUNCIAMO QUINDI L'IMMOBILISMO E L'ASSENZA DI VOLONTA’ AMMINISTRATIVA DI QUESTO PRESIDENTE E DEL COMITATO DI GESTIONE E DELLA USSL n. 17 E CHIAMIAMO ALLA MOBILITAZIONE ANCOR PIU’ DONNE di quante finora si stanno coraggiosamente impegnando affinché, oltre al ripristino della legalità e alla condanna di quanti si fossero resi responsabili di odiosi ricatti sulla vita delle donne, sia applicata in tutte le sue parti la Legge 194.


INVITIAMO DONNE E UOMINI Di QUESTA CITTA’ A MANIFESTARE LA LORO SOLIDARIETA E AD ESSERE PRESENTI IL 2 APRILE ALLE ORE 10 IN TRIBUNALE,

PER CONTRIBUIRE A CRESCERE NELLA COSCIENZA DEI DIRITTI DI TUTTI.


Lamezia Terme, 31 marzo 90

Centro Donna Lilith, Tribunale per i Diritti del Malato, Comunità Progetto Sud, Democrazia Proletaria, Partito Comunista Italiano.






OLTRE LA DENUNCIA: PERCHE’ LE DONNE NON SIANO PIU’ SOLE DI FRONTE AL PROBLEMA DELL’ABORTO


Nel maggio scorso Democrazia Proletaria ha denunciato un fatto molto grave: l’eventualità molto concreta di “tangenti” pagate per abortire in ospedale.

Oggi quella denuncia politica è diventata inchiesta della Magistratura. Trentanove donne, su quaranta sentite dai Carabinieri, avrebbero ammesso di aver “pagato” per abortire nella struttura pubblica quando una legge dello Stato, la 194, ne assicura la completa gratuità.

Tre comunicazioni (avvisi di garanzia) sono state inviate dalla magistratura a tre ginecologi del reparto di ostetricia.

Al di là dell’esito giudiziario della vicenda, ci sembra importante sviluppare alcune riflessioni.

Riteniamo, infatti, che la speculazione sugli aborti a Lamezia sia consentita di fatto da una Gestione dei Servizi Sociali e Sanitari estremamente degradata, inaffidabile e irrispettosa dei diritti più elementari delle persone.

Parto, aborto, malattia, tutto si tollera che venga monetizzato anche quando si ha diritto alla gratuità delle prestazioni, anche se questo è contro le leggi dello Stato.

Ci chiediamo se un fatto del genere sarebbe potuto avvenire in presenza di un primario di reparto, di una direzione sanitaria e di un comitato di gestione seriamente e responsabilmente impegnati a far rispettare la legge.

Tutti fanno finta di non sapere e di non aver mai saputo niente. Da garantisti d’accatto, Presidente e Comitato di Gestione , preferiscono attendere l’esito dell’inchiesta.

Magari, poi, per dire che il problema è di coloro che la Giustizia indicherà come responsabili.

Ed è vero: se si accerteranno responsabilità, queste saranno direttamente dei medici sotto inchiesta.

E’ anche triste per noi constatare che sarebbero proprio i non obiettori quelli chiamati in causa. Sicuramente questo è sintomo di una caduta di tensione ideale, del senso di solidarietà, del rispetto del proprio lavoro.

D’altro canto, anche i medici non obiettori dovrebbero davvero interrogarsi, se obiettori seri sono:

sono proprio sicuri di essersi adoperati perché non ci fossero irregolarità nella applicazione della legge, perché consultori e ambulatori funzionassero? Oppure, non hanno anch’essi preferito tacere e tollerare per spirito di casta o per non avere seccature, come a volte, per non avere problemi, hanno obbiettato? Si, perché anche sulla obiezione ci sarebbe molto da dire: si obietta o non si obietta per i motivi più svariati, non sempre di natura etica. Oggi, ad esempio, sono diventati obiettori tutti gli anestesisti dell’ospedale di Lamezia e, cosi , ufficialmente non si può più abortire. Vi sembra serio, giusto, etico?

Infine , una cosa bisogna avere il coraggio di dire:

Le donne e gli uomini, i partiti e i collettivi che ci battemmo e lottammo per la 194, tutti abbiamo dimenticato in questi anni che non bastava una legge, non bastava l’istituzione dei consultori per garantire diritti ed evitare soprusi.

Abbiamo, tutte e tutti, dimenticato che da sole con il proprio problema si è troppo deboli, ricattabili.

Abbiamo perso il potere di critica, di vigilanza collettiva, la solidarietà, e così è potuto succedere di aver pagato per abortire il prima possibile, senza rumore, senza il pericolo di essere additate nel reparto di ostetricia.

Oggi, allora, che l’autodeterminazione delle donne viene attaccata da più parti, oggi che la tendenza alla privatizzazione dei servizi consente l’illegalità e vi convive, oggi non è più possibile rimuovere, dimenticare.

Tutti, donne e uomini che per anni abbiamo contrastato l’aborto clandestino, la speculazione di medici e ostetriche sul corpo delle donne, riprendiamoci in mano la vita perché la subordinazione e la mercificazione non si ripropongano definitivamente sotto l’ipocrita tutela della struttura pubblica.


DEMOCRAZIA PROLETARIA

sez. A. Argada

26.10.1989 Lamezia Terme


MAI PIU SOLE DI FRONTE ALL’ABORTO


Ancora oggi, dal settembre ‘89 nell’Ospedale di Lamezia Terme non è possibile sottoporsi ad interruzioni volontarie di gravidanza.

Aumentano, pertanto, le prestazioni per tale servizio pagate alla Villa Michelino, con maggiori costi per la USSL n° 17 e quelle per l’Ospedale di Soveria Manelli con maggiore disagio per gli operatori sanitari e per le donne.


Tutto questo avviene nonostante gli impegni presi dal presidente del Comitato di Gestione Dott. Caglioti e dal primario di Ostetricia Dott. Barese per riattivare il servizio nell’Ospedale di Lamezia Terme e per promuovere un più stretto legame tra attività del Consultorio e Ospedale, cosi da avviare con gli operatori di Ostetricia una discussione sulle modalità di assistenza al parto anche questa, pare, spesso effettuata dietro illecito pagamento.


Ma evidentemente per gli amministratori della USSL n° 17 così come per molti primari, è più facile promuovere convegni e progetti “ad alto contenuto scientifico”, piuttosto che affrontare e risolvere “gli oscuri e banali problemi che le donne quotidianamente vivono in Ospedale”.

Pertanto Lunedì 25 Giugno si celebrerà, dopo il rinvio di aprile, il processo ai tre ginecologi accusati di: concussione, falso ideologico e violazione della 194.


L’indifferenza di chi gestisce la USSL e il gioco al rinvio per quanto riguarda il processo, non sminuiscono la nostra voglia di chiarezza, di giustizia, il nostro impegno per il rispetto dei diritti delle donne.


Noi non siamo stanche, saremo presenti in Tribunale Lunedì 25 Giugno e invitiamo tutte le donne alla partecipazione e alla mobilitazione.COMITATO PER LA DIFESA DELLA 194

Centro donna Lilith, Tribunale dei diritti del malato, Comunità Progetto Sud, Democrazia Proletaria, Partito Comunista Italiano Giugno 1990



2.6 Fidapa di Lamezia Terme

La Fidapa viene fondata a Lamezia da Angelica Biacca nel 1970. Attualmente conta 130 socie e, all’impegno per la valorizzazione e la promozione della donna, ha sempre aggiunto altri interessi sociali, come narra la past pres. Ines Pugliese: «L’emancipazione delle donne passa attraverso la cultura, quindi da essa si sono diramate tutte le varie attività che hanno creato interesse e dibattito nella città in cui abbiamo operato. Sono state fatte mostre d’arte, presentati libri di poesie delle nostre socie, cenacoli culturali con la recensione di romanzi famosi, dibattiti politici, premi musicali. ...Abbiamo partecipato, insieme alle altre associazioni femminili, alla nascita dei Consultori Familiari denunciando le numerose carenze di informazione e di assistenza sul problema della procreazione. Si è partecipato all’Admo alla campagna per la lotta contro la leucemia e per la donazione del midollo spinale. Siamo state vicine ai Disabili collaborando anche con l’UNITALSI o con tutti coloro che ci hanno chiesto collaborazione. ... E’ stato denunziato il problema dell’acqua e fatta una ricerca sulla qualità delle acque minerali, sono state individuate opere d’arte in disfacimento e quindi restaurate... Il tema nazionale “Donne, potere e politica” è stato svolto da tutte le angolazioni dando rilievo all’arte, alla musica, alla conoscenza dell’ambiente per la valorizzazione dei piccoli centri e per la difesa delle nostre coste».







CAPITOLO 3

GLI ANNI OTTANTA E NOVANTA.

Di Maria Marino

Premessa

Gli anni Ottanta e Novanta sono gli anni di quello che oggi viene definito “femminismo diffuso”.

Il movimento apparentemente si ritrae, ma non cessa la necessità e l’esigenza di cercare luoghi e relazioni che portino il segno di questa esperienza. All’interno dei gruppi di cui andremo a parlare ritroveremo così anche quelle figure che negli anni Settanta si erano rese protagoniste di un altro tipo di politica. Alla visibilità esterna si preferisce la riflessione e simili. Da qui il bisogno di leggere e approfondire tematiche nuove, spesso fortemente radicali. Fra queste, quelle di “Sottosopra”, di “Via Dogana”, saggi come “L’ordine simbolico della madre” di Luisa Muraro o, ancora, testi di Adriana Cavarero. Tutte donne queste che seguono con attenzione la produzione culturale femminista degli anni Ottanta e talvolta la fanno talmente loro da rischiare di cadere nella trappola di cui parla Paola Melchiorri: «La “madre simbolica“, una delle figure trascendenti, le “donne divine“ che escono dalla conflittualità e dalla lacerazione delle donne reali e rimuovono il reale contenuto dei loro “affetti”, assumono la pura statura del padre. E il femminismo si rivela in questa accezione un ultimo sogno virile»19.

E’ qui che viene rintracciato uno dei problemi storici del femminismo, cioè la scoperta, dopo un primo momento di “inebriamento ideale“, che le donne non sono immuni da ciò che ha spinto l’uomo a strutturare in modo psichicamente così violento il rapporto con l’altro sesso. L’assenza dell’uomo non le salva da tale pericolo. Tutto ciò sta a dimostrare come la nascita di un genere, la scoperta di sé come appartenente ad un genere non è, per una donna, anche nascita di sé come individuo, autonomo e capace nello stesso tempo di relazione. Anche se la nascita di genere diventa necessariamente premessa per l’altra nascita, il percorso tra le due è lungo e doloroso.

La storia del femminismo però, dice Paola Melchiorri, può essere letta anche prima della formulazione ufficiale dell’ “ordine simbolico della madre”, in quel percorso intellettuale e esistenziale di donne che hanno scoperto e vissuto le forme della relazione tra donne, a partire da quella tra di loro.

Se le donne del primo movimento hanno ricercato madri e padri, sono state –osserva ancora Paola Melchiorri- le difficoltà incontrate in questo percorso ad accelerare l’instaurarsi dell’ordine materno come una soluzione capace di “fare in fretta”, sottovalutando i costi personali di una ricerca che è dolorosa perchè rischia di riprodurre gerarchie e poteri immaginari: «Se i rapporti tra donne, eliminando il corpo maschile, hanno il pregio infinito di farci vedere a nudo la profondità dell‘impianto, in ogni individuo, della polarità maschio- femmina e la difficoltà di un andamento di individuazione che non usi, per il processo di distacco, l’inimicizia degli opposti per dare voce all’ elaborazione dell’ ambivalenza verso il simile, essi non ci tutelano dalla loro ripetizione. Le differenze, di sapere e potere, si trasformano nella polarizzazione potere/impotenza del modello maschile/femminile e la somiglianza si gioca in un attaccamento mortale, portatore di soggezione e schiavitù»20

La narrazione della vita di molte delle donne che incontreremo nel paragrafo successivo radica spesso la consapevolezza di sé nell’infanzia e nell’adolescenza, perché è lì che si assorbe la prima lezione di vita dalla madre e dalle donne della famiglia: «La mia indignazione di bambina e di adolescente si focalizzava sulla povertà, l’oppressione nel lavoro, l’ingiustizia sociale. Le donne della mia famiglia e le suore mi mostravano come compiere gesti quotidiani e personali per aiutare: sono stata educata a non soccombere all’impotenza, ma ad agire “hinc et nunc”. Vivere nel gruppo ma restare fedele a me stessa.»21


Kore, Tempo di Marea

KORE

Kore è un gruppo di riflessione che nasce a Soverato nel 1987 e si costituisce nella forma di associazione nell’89. E' Assunta Di Cunzolo, che proviene dall'esperienza ormai conclusa dell'UDI soveratese, a volere la nascita di questo gruppo ed a scegliere le donne che ne sarebbero entrate a far parte. Dopo le prime riunioni, alcune andarono via e il gruppo fu stabilmente costituito da Delia Fabrizi, Maria Grazia Riveruzzi, Fulvia Geracioti, Maria Procopio, Teresa Ciaccio, Viviana Santoro, Marisa Rotiroti, Patrizia Greto e Patrizia Fulciniti. Ne ha fatto parte, fino alla sua morte avvenuta nel 1998, anche Giovanna Veneziano. Kore opera come un gruppo separato e privilegia il lavoro e la relazione politica al proprio interno. E' sempre stato un piccolo gruppo per scelta, ed è conosciuto all'interno di un circuito di relazioni attraverso le quali sono stati costruiti dei progetti politici: i seminari aperti per confrontarsi con altre donne , il lavoro nelle scuole con le insegnanti sulla pedagogia della differenza sessuale, il lavoro nel Comitato di Gestione del Consultorio familiare di Soverato, la realizzazione della Biblioteca delle donne insieme con la Fidapa, la partecipazione alle riviste “Mediterranea” prima e “Tempo di Marea” dopo. Il materiale documentale prodotto dal gruppo è prevalentemente ad uso interno, ma si trova testimonianza degli elaborati su “Tempo di Marea”, la rivista di riflessione e pratica politica di cui si dirà nel paragrafo successivo. Obiettivo principale delle donne di Kore è quello di costruire pensiero, che aiuta a trasformare se stesse e la realtà che le circonda, a partire dalla pratica delle relazioni politiche tra donne. Per tutte, l'ingresso nel gruppo segna un “nuovo inizio”: «A partire da questo, molte possibilità si sono aperte per noi: di riflessione e rimessa in discussione del rapporto figlie/madri/figlie; di cambiamento della relazione tra noi, che è diventata più ricca, più profonda, anche con un confronto più acceso sia sul piano politico che su quello affettivo; di modificazione del nostro linguaggio come una delle forme essenziali con le quali ci rappresentiamo il mondo; di avvertire il senso di libertà con cui ci muoviamo nei nostri luoghi di vita per l'autorizzazione alla libertà che nel gruppo prendiamo»67 Per anni queste donne si incontrano una volta a settimana, leggono, si confrontano, discutono spesso in maniera accesa. I riferimenti politici che stimolano la costruzione di questo percorso sono rappresentati dalle produzioni di pensiero da parte della Libreria delle Donne di Milano , del Gruppo “Diotima” dell'Università di Verona, del Centro “Virginia Woolf” gruppo A e B di Roma. Alcune esponenti di queste realtà vengono invitate a patecipare a seminari interni al gruppo. Il confronto non sempre è facile e le discussioni sono molto animate perchè all'interno del gruppo non c'è una univocità di pensiero, con una elaborazione articolata che si sviluppa attorno alla questione “Ordine simbolico della madre/Ordine simbolico femminile” : «...Stiamo discutendo di autorità, del gruppo e di chi esprime l'autorità al suo interno, se è riferita ad una sola o a più donne; delle nostre relazioni duali e di come si esprimono e si differenziano; dei conflitti e del disagio che nascono se da una relazione duale, che si avverte come privilegiata, ci si sente escluse; dell'autorità di Kore che definiamo come Autorità circolante. Stiamo discutendo anche se ci può aiutare l'accettare un legame nuovo, non temporale, tra dipendenza ed autonomia in cui l'una non escluda l'altra, come suggerisce Evelyn Fox Keller ne “Il genere e la scienza”. Su queste cose, come su tutto il resto , ci sentiamo in cammino»68 In particolare, uno dei momenti significativi di questa discussione è rappresentato dalla riflessione, avvenuta nel corso del 1992/93, sul testo di Luisa Muraro “L'ordine simbolico della madre”. Il primo effetto è stato quello di riconoscere che “il saper amare la madre” implicava necessariamente un incontro con la madre reale. Ne sono venute fuori, in primo luogo, domande, osservazioni anche dolorose, ribellione e sofferenze. La libertà di una donna, il suo modo di stare al mondo, si domandano, può dipendere esclusivamente dalla consapevolezza dell'amore per la madre, o non è forse conquista giornaliera, continua, per molti versi autonoma ed indipendente da questo sentimento? Le risposte delle donne del gruppo sono diverse. C'è già chi ha recuperato e fatto chiarezza nel suo patrimonio di memorie e di simboli: «Di mia madre ho chiara una immagine, anche perchè il fatto, ricorrente, avveniva davanti ai miei occhi da quando ero piccola fino all'età di 33 anni: mia madre e le sette sue sorelle sulla terrazza della loro casa materna che ascoltavano mia nonna e godevano della sua compagnia. Ogni domenica mia madre si consentiva il ritorno alla madre». Altre parlano in modo diverso: «c'è un muro di granito che mi impedisce di pensare ad una madre che, mettendomi al mondo, voleva, ha sempre voluto, la mia indipendenza simbolica».

Pertanto, nel dispiegarsi del pensare, da una parte si afferma che «nella costruzione di un ordine simbolico il riferimento è alla potenza materna che va di madre in figlia... Il discorso filosofico di Luisa Muraro è un atto fondativo di ordine simbolico: atto politico che si basa sulla nascita, sul corpo, sul desiderio, sull'amore, sulla relazione, sull'armonia (tra corpo e mente, tra sé e l'altro da sé). ... ed è nell'ordine simbolico della madre che, sin dal principio, è contenuta la capacità di accogliere le differenze, di comprendere l'altro da sé, di creare un luogo mediato in cui le differenze possano esistere, che permette l'esistenza e il divenire del mondo composto di due sessi: quello femminile e quello maschile»69 Dall'altra, «altre voci hanno espresso l'idea che nostra madre è il mattone primo della costruzione del nostro essere al mondo, il principio... Altri luoghi dove trovare buoni mattoni ci sono stati indicati da una (più) donna. Infatti tutte noi facciamo riferimento ad una madre simbolica o ad un simbolico materno che ci ha aiutato a ri/nascere, senza con questo voler rinnegare la prima nascita, alla maniera in cui lo hanno fatto filosofi e scienziati, poiché la seconda nascita è sempre avvenuta ad opera di una donna. Una donna, più donne, hanno mediato tra noi e il mondo, mostrandoci nuove vie di libertà, insegnandoci un altro linguaggio, inserendoci in una genealogia femminile.... La nostra prima esperienza è di figlie, si dice ancora, il nostro primo nucleo di identità avviene attraverso nostra madre, in seguito intervengono le esplorazioni del maschile paterno. Questo per ricordare che siamo figlie di madre e di padre e che i processi biologici non possono essere ignorati; ... La sovranità di ciascun genere richiede pieno riconoscimento culturale, simbolico e politico. Ora, il dato fondamentale di ciascuna di noi è l'essere donna. Il femminile armonizza potenzialità, potenza e potere. Potenzialità di essere secondo il nostro progetto radicato nel sesso biologico; potenza di un genere assunto e operante; potere etico e politico»70 Attorno a queste idee si sviluppano riflessioni appassionate, a volte anche aspre. Contemporaneamente, si cerca di operare un punto di incontro e di verifica tra le teorizzazioni (riconoscimento di autorità ad un'altra donna, pratica della relazione politica, ecc.) e la realtà delle nostre relazioni vissute nell'esperienza quotidiana (nel gruppo stesso, nei luoghi familiari, in quelli di lavoro), perchè, afferma Maria Procopio che da anni coordina il gruppo, «è importante ancorarsi alla realtà in cui si vive e non parlare solo in via teorica e di rapporti teorici. Ne nascono, da una parte esperienze interessanti: seminari con le donne in alcuni luoghi di lavoro, assunzione di cariche politico-amministrative in alcuni Enti locali, e tutte gli altri progetti di cui si è già parlato e che Kore ha promosso o ha contribuito a realizzare; dall'altra, l'esperienza reale dà la misura dell'importanza dell'essere in relazione politica con un'altra donna per costruire simbolico e trasformazione, ma, nello stesso tempo, “costringe” ad incontrare continuamente, innanzitutto partendo da sé, anche ciò che fa ostacolo alla costruzione o al mantenimento di relazioni politiche, l'invidia in primo luogo e la rivalità, nonostante ciò che viene teorizzato. La capacità delle donne di Kore probabilmente è stata quella di avere scelto la via difficile del confronto al proprio interno, anche duro, cercando sempre una mediazione a partire dal riconoscimento anche dei sentimenti negativi e senza mai operare una assunzione dogmatica della relazione politica tra donne. E' questo che ha consentito al gruppo di non rompersi, di essere ancora oggi una realtà significativa nel luogo in cui opera e di continuare a costruire relazioni e progetti di cambiamento», così come era già stato affermato nel ‘93: «...I luoghi delle donne, il nostro luogo separato, come necessità/desiderio per continuare una strada di soggettività femminile, di visibilità politica, di relazioni tra donne, di costruzione di simbolico femminile ma, anche, a partire da questi luoghi, dalla libertà e dall'autorità che ce ne viene, la proposizione di un dialogo intersoggettivo tra i sessi, tra generi differenti»71


IL GRUPPO KORE CON PINA NUZZO (UDI NAZIONALE)


Diversi, come si diceva prima, sono i progetti politici avviati dalle donne di Kore; di alcuni di questi si parlera' nei paragrafi successivi, qui' vogliamo ricordare l'esperienza del comitato di gestione del consultorio di Soverato e l'incontro avvenuto all'Acero nel 1991 tra numerose associazioni del catanzarese.

L'esperienza della gestione del consultorio da parte delle utenti e' una prassi che va avanti fino a tutti gli anni '90 e riveste significativa importanza l'esperienza del comitato di gestione dal '90 al '95 presieduto da Maria Grazia Riveruzzi del gruppo Kore. La gestione, infatti, si basa sulla pratica della relazione politica tra donne e, come dice direttamente Riveruzzi “Questa pratica politica fatta di relazioni e di mediazioni e agita nel consultorio conferi' alle donne utenti l'autorita' di porre le loro regole e il loro modo nuovo di fare politica dentro e fuori il consultorio, di opporsi alle strumentalizzazioni, all'arroganza o all'indifferenza della classe medica, agli ostruzionismi e alle meschine furbizie della classe politica o amministrativa, ai protagonismi ed a tutto cio' che poteva ledere la salute della donna. Il comitato di gestione in quegli anni fu un luogo che permise la crescita politica delle donne consapevoli del diritto alla propria liberta' e “autodeterminazione”. Molteplici sono stati gli interventi attivati di informazione e di prevenzione, di profilassi al parto, di educazione alla sessualita' nelle scuole del comprensorio e tutti gli interventi previsti dalla legge 194.

L'incontro dell'Acero, invece, fu promosso nel giugno 1991 da Fulvia Geraciori con l'obiettivo di organizzare un raduno di donne singole o appartenenti a gruppi anche misti. Cosi' Geracioti riferisce riguardo a questa esperienza: “Il deiderio di comunicare la rivoluzione copernicana del femminismo della differenza era in me fortissima. Il gesto piu' libero e gioioso che feci fu l'organizzazione nel '91 di un incontro all'Acero, in montagna a San Vito sullo Jonio, distante pochi chilometri da Soverato. Un incontro tra donne che stimavo e a cui desideravo comunicare il mio percorso politico/esistenziale nel segno della differenza di genere. Mi aiutarono fattivamente ad accogliere trenta donne Assunta Di Cunzolo, Patrizia Greto, Lina Santoro, Giovanna Veneziano. Vi parteciparono donne gia' “nella differenza” come Ghita Peluso e Titti Voccoli di Taranto e le amiche di Kore e di Lilith, sia altre con cui avevo condiviso in altre circostanze l'impegno sociale e ne conoscevo la passione civile. Tra quete Lorenza Rozzi, Adele Colacino, Sonia Serazzi, Nuzza Barbuto, Marina Galati e Nunzia Coppode' dell'associazione Progetto Sud, Aldina Alcaro del WWF, Rosanna Macrillo' e Franca Fortunato che poi intrapresero il percorso della differenza collegandosi a Luisa Muraro e a Via Dogana, la rivista della Libreria delle Donne di Milano. Quell'incontro fu ricco di scambi, di emozioni, e anche di incredulita; per tutte fu un seme che ciascuna fece germogliare secondo i suoi tempi e i suoi desideri. A me in particolare diede l'idea di fondare una rivista che fosse luogo di riflessione politiche, testimonianza di pratiche tra donne consapevoli del proprio genere che si giocano il desiderio di “esistere e fare mondo”. La scommessa della rivista Tempo di Marea fu di tenere aperto lo scambio politico senza ricorrere a schemi neutri, nell'intento di unificare quello che il pensiero occidentale di Aristotele in poi aveva diviso: il corpo e la mente, la teoria e la pratica, il desiderio e la progettualita'”.




Tempo di Marea

«23-24-25 luglio in Calabria (Mediterraneo) nel giardino e nella casa di Assunta – nella Tredicesima ora – è nata la creatura-rivista Tempo di Marea. Promotrici dell’incontro Anna Scacco, Assunta Di Consolo, Elena Hoo, Fulvia Geracioti, Patrizia Fulciniti. Noi tutte provenivano dall’esperienza redazionale della rivista Mediterranea l’osservatorio delle donne e siamo state – con altre le fondatrici dell’associazione omonima. Nel giugno dell’89, insieme a Teresa Barberio, Lina Santoro, Martha Bache-wiig ci siamo chiamate l’un l’altra per collaborare alla rivista ideata da Nadia Gambilongo. Tra acune di noi esistevano relazioni duali maturate in altri contesti, ci accomunava tutte il desiderio di comunicare con altre donne attraverso il tramite della scrittura. Era per tutte la prima volta: grande entusiasmo, quindi, molta ingenuità e alcuni errori conseguenti. Un’esperienza comunque formativa. L’errore fu la mancata valutazione dell’importanza di una chiara relazione politica tra tutte noi della redazione: davamo per scontato che bastasse essere donne, voler comunicare con le donne perché la scommessa riuscisse. Il desiderio di ciascuna era sincero e forte, ma informe, senza regole comuni, come se qualcuna scoccasse la sua freccia su un bersaglio senza centro. Il risultato fu una rivista volenterosa ma politicamente-simbolicamente confusa (…) Dopo due anni sospendemmo la pubblicazione perché il disagio interno impediva la circolazione creativa del desiderio. Noi, le ideatrici-genitrici di Tempo di Marea, credendo ancora fortemente nella validità creativa di un luogo di comunicazione stabile e dinamico, di un tempo-spazio di costruzione del mondo quale è la rivista, abbiamo cominciato a riflettere su come il nostro desiderio potesse avere forma chiara e comunicabile tra noi e con le altre donne. Su come, dunque, il desiderio potesse avere significato politico mettendo in atto quel “processo creativo-divino di pensare parlare agire che è Nominare”. Volevamo un progetto condiviso, attuabile attraverso una rivista, che consentisse alle donne, legittime eredi della “dea Verbo” di pervenire ai “poteri del Divenire attraverso le parole Elementarmente Metamorfiche (…) che spostano le forme dello spazio e del tempo (…) che ridisegnano le linee di forza, irrompono al di là dei confini e li cambiano”. Mezzo e orizzonte ci apparve subito essere la relazione consapevole tra donne: la “ginergia” che, dispiegata, creasse grandezza femminile. Libertà femminile. Ordine femminile»72

«Ci ritroviamo spesso a pensare nel gruppo che il valore del pensiero della differenza sessuale sta nel fatto di avere svelato ciò che è, di aver messo in parole ciò che esiste e che veniva occultato, e questo è stato possibile grazie alla pratica del partire da sé, dal corpo, dalla propria esistenza materiale. Così sono stati svelati artifici, alchimie, bugie, inconsistenza e danno di una cultura che, basata sulla negazione del corpo, ha fatto del mondo un deserto di vita. Ed è questo deserto che noi donne vogliamo far fiorire: solo noi possiamo farlo, ne siamo consapevoli da tempo, anche se oggi molti sono pronti ad affermarlo»73 «Tempo di marea» è dunque una rivista di riflessione ma anche di pratica politica. La sua struttura si articola in tre parti direttamente ispirate a “Le tre ghinee” di Virginia Woolf. Le produzioni teoriche, i saperi e il pensiero delle donne vengono raccolti nello spazio de la Signoria del pensiero «Prendi questa ghinea e la usi per radere al suolo l’intera costruzione(….) E che le figlie degli uomini colti danzino intorno al grande falò (…) mentre le loro madri sporgendosi dalle finestre più alte, gridano: ”Che bruci!Che bruci!Non sappiamo che farcene di questa istruzione”». La seconda Ghinea accoglie le esperienze delle donne impegnate nelle professioni e quindi liberate dal bisogno, la Signoria della produzione: «Che le figlie delle donne incolte intreccino una danza intorno alla nuova casa (…). E le loro madri rideranno felici nella tomba: “Per questo abbiamo sopportato insulti e disprezzo! Illuminate le finestre della nuova casa, figlie! Che risplendano!”». Ed infine lo spazio dedicato alla terza ghinea intesa come possibilità aperta per la donna che agisce nel mondo, la Signoria dell’etica che fa riferimento alla risposta data da V. Wolf a chi le chiedeva di lottare insieme agli uomini nella II guerra mondiale contro il nazifascismo: «il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi». Esplicative del senso e dell'impostazione della rivista sono ancora le parole di Geracioti “... In questo numero, accanto al nostro nome, ci sara' il nome di nostra madre, perche' nessuno dimentichi che siamo nate da donna. Portiamo nel nostro pensiero, nelle nostre parole i segni, le cure e i doni che abbiamo ricevuto dalle nostre Madri: la donna a cui particolarmente devo l'energia per intraprendere questo volo di gioia in “Tempo di Marea” e' Mary Daly: sono i suoi pensieri che scrivo tra virgolette, sua e' la parola-concetto che da' nome alla rivista. Da Virginia Wolf sono giunti a noi preziosi insegnamenti, la presentifichiamo scegliendo, per la scansione delle tematiche della rivista, il simbolico rappresentato da Le tre ghinee. Ma il mio e' il debito di tutt le redattrici e' anche verso le genealogie mute che ci hanno tramandato vita e saperi. Ed e' anche verso le donne viventi che con il mostrare la loro liberta', con lo starci accanto ci indicano strade nuove: alcune sono qui nominate, altre saranno rese visibili in tutti i numeri della rivista: lunga vita a “Tempo di Marea”, dunque, affinche' il debito sia pagato e il ringraziamento sia chiaramente espresso.

Accanto a noi, del nucleo redazionale originario, a noi che assumiamo di vivere in Calabria come topos di mediterraneita', ci sono le donne che vivono in Puglia e sono in relazione politica con noi, a partire dalla condivisione di questo dato originario che trascende la categoria goegrafica per offrirsi come luogo di concreta pregnanza simbolica: Maria Grazia Napolitano, Marilena Cataldini, Margherita Peluso, Titti Voccoli, Rita Groffedo. A noi e a loro appartiene la maternita' di “Tempo di Marea” poiche' l'averle incontrate ha suscitato in noi nuove energie, entusiasmi, prospettive”.


    1. Centro Lilith, Le Lune

Il Centro Donna Lilith

Nasce nel marzo del 1988 dal desiderio di alcune donne di Lamezia Terme (incontratesi in occasione della manifestazione romana delle donne di CGL CISL e UIL) di creare un “luogo privilegiato di relazioni tra donne”.


UNA RETE DI RETI

Donne di Lilith

Suore Oasi Bartolomea

Centro Roberta Lanzino

Mediterranea(Nadia Gambilongo, Anna Scacco)


La costituzione ufficiale avviene il 20 dicembre 1988. Nel marzo del 1991, a seguito del finanziamento concesso dalla Regione Calabria (finanziamento erogato per la gestione di un solo anno e mai più rinnovato), apre l’ufficio di consulenza e assistenza legale. Si tratta di un servizio, erogato nell’ambito del «Progetto Donna» - sostenuto allora da Simona Dalla Chiesa - di consulenza e assistenza legale gratuita, che comprende la costituzione di parte civile nei processi penali ed altre iniziative a tutela dei diritti e degli interessi delle donne. Il servizio legale si svolge attraverso una prima fase di consulenza gratuita, mentre l’assistenza legale viene fornita gratuitamente solo a chi non è in grado di sostenerne le spese per oggettive difficoltà economiche. Il Centro utilizza, per liquidare le parcelle degli avvocati, il “Fondo spese legali” facente parte del “Progetto contro ogni forma di violenza – Istituzione del servizio regionale di consulenza e assistenza legale alle donne”, approvato dalla Giunta regionale con delibera del 18 gennaio 1990. Coordinatrici del servizio sono le avvocate Virginia Aloisio, Paola Garofalo, Patrizia Maiello e Anna Puleo. L’assistenza legale, fornita grazie alla collaborazione di avvocati particolarmente sensibili all’argomento, è ben documentata da un dossier pubblicato dal Centro «per offrire un significativo spaccato, certo assai parziale, di violenze, soprusi ed abusi subiti dalle donne calabresi, specie da quelle più socialmente ed economicamente svantaggiate».

Donne vittime di minacce, cacciate di casa dal marito, soggette a violenza; il motivo che ricorre frequentemente tra le donne che si rivolgono al Centro è la violenza fisica e psicologica subita dai mariti.

Nel dossier ritroviamo casi di separazione da mariti violenti, cause per l’affidamento dei figli, cause per il recupero degli alimenti, cause di lavoro, cause per violenza carnale e una consulenza legale, per cui si è fatto riferimento alla legge 125 sulle Pari Opportunità, per il caso di tre vigilesse decadute dalla nomina per motivi di altezza. Nel 1990, inoltre, il Centro Lilith partecipa, insieme ad altri gruppi e associazioni, al “Comitato per la difesa della 194” e richiede la costituzione di parte civile in occasione del processo tenutosi a Lamezia Terme a carico di tre medici accusati di eseguire aborti a pagamento all’interno di strutture pubbliche22.



Il Centro Donna Lilith si propone di «creare, potenziare e diffondere una cultura basata sul rispetto della persona e della dignità umana per una migliore qualità della vita e per favorire lo sviluppo culturale sociale e politico della realtà donna».

L’obiettivo è dunque quello di modificare le logiche di sopraffazione che regolano la società e di cui sono vittime non solo le donne ma, in generale, i soggetti più deboli. Fattore indispensabile, affinché questo cammino possa avviarsi, è quello di organizzare una vasta comunicazione tra donne che rafforzi la consapevolezza del proprio portato culturale e che favorisca la trasmissione nella società dei valori della cultura femminile. Lilith, dunque, cerca di incidere anche sul piano culturale scegliendo, nel maggio del 1988, di aprire la campagna di sensibilizzazione in merito alla legge sulla violenza sessuale con lo spettacolo teatrale “Storia di Giovanna e altre” della compagnia Teatro Danza di Verona. Il giugno seguente il Centro Lilith riesce a raccogliere circa duemila firme, spedite poi alla Camera, in appoggio alla legge.

Nel 1990 il Centro organizza quattro seminari tenuti dalle ricercatrici dell’associazione Nosside dell’Università della Calabria: l’ 8 novembre 1990 “Il genere nei modelli culturali” (G. Greco); il 22 novembre 1990 “Gli archetipi femminili: un itinerario antropologico operante” (F. Geracioti); il 5 dicembre 1990 “Uguaglianza e differenza nella storia delle donne : l’antichità” (I. Verace); il 20 dicembre 1990 “Immaginario pubblicitario e rappresentazione femminile” (A. Salvo)

Nel febbraio del 1991 le socie decidono di dare vita a riunioni serali settimanali di lettura e studio sui temi del pensiero della differenza sessuale. In queste riunioni si leggevano i “Sottosopra” e i vari numeri di “Tempo di Marea”. Contemporaneamente grazie al rapporto tra Teresa Barberio e le suore dell’Oasi Bartolomea si crea un gruppo di laiche e cattoliche che svilupperà un ciclo di incontri sui temi della differenza analizzati da un orizzonte teologico. Tuttora alcune donne di Lilith continuano questo percorso di riflessione.

Era Teresa Barberio a passare “Via Dogana” a suor Rosetta: “Siamo riuscite a ritrovare nelle suore la donna. La non maternità ce le faceva vedere come non donne. Ma la riflessione sulla differenza ci apre nuovi orizzonti perché non è la maternità il ruolo fondamentale della donna”

Ricordano suor Evelina che dava assistenza ai malati terminali: «Non “io”, diceva, ma “la bambina che è in me”. Questa suora aveva più consapevolezza della propria identità sessuale di quanta ne avessimo noi che ci sentivamo femministe. La Messa veniva celebrata in modo diverso. Il prete faceva il minimo indispensabile ed anche le presenti intervenivano se volevano.»

E ricordano anche Vittoria, Suor Emmanuelle Marie, che e’ stata una suora di Betania (ordine nato nell’800 per l’accoglienza di ergastolane e prostitute). Nata a Parigi entra trentenne in un ordine religioso contemplativo e vi rimane per circa 40 anni. Ora, lasciata la clausura, continua la sua testimonianza nel mondo mettendosi al servizio dei più poveri. Le donne di Lilith la conoscono quando ha già lasciato i voti. Il vescovo della sua diocesi a Roma la accusa di una lettura troppo libera del vangelo. E’ lei a spiegare il valore del silenzio. L’urgenza di narrare deve fare spazio alla capacità di aspettare. Emanuelle Marie reagisce alle provocazioni del Vangelo con tutta la sua sensibilità di donna e di credente e vi scopre l'immagine di un Dio che si identifica con i poveri, gli emarginati, i rifiuti della società.23

Importanti, per lo sviluppo di questo percorso, sono stati gli incontri delle donne Lilith con suor Antonietta Potente.

Il Centro di assistenza legale Lilith chiude nel 1996 per mancanza di fondi regionali e devolve tutti i fondi residui alla Fondazione “Mago Merlino”, la casa di accoglienza per ragazze madri fortemente voluta da suor Rosetta Colombo. Lina Mazzei tenne in piedi questa rete fino alla chiusura del Centro.

L’esigenza che dà vita a quest’esperienza è quella di stare negli ingranaggi della società, non con spirito da “crocerossine”, ma mettendo in discussione prima di tutto se stesse.

Non più il filtro del partito, del sindacato o dell’UDI, ma la pratica della solidarietà tra donne. Un legame tra esse che è il frutto di riconoscimento reciproco. Un’applicazione quasi alla lettera del L’ordine simbolico della madre che, raccontano, «abbiamo letto, riletto, sottolineato» e che ovviamente come ogni teoria applicata alla pratica non manca di rivelare i suoi limiti di praticabilità. Raccontano, infatti, che i conflitti all’interno del Centro nascevano, più che dalla sete di potere (anche se “qualcuna pretendeva autorità”), da un’ esigenza forte di riconoscimento. Così racconta Gabriella De Pascale: «Sono io però che devo riconoscerti autorevolezza, non puoi dartela da sola, perché se te la do io, io esisto, altrimenti io non ci sono, non conto niente. Siamo cresciute nel disconoscimento, siamo assetate di riconoscimento...che esistiamo, che abbiamo un valore, che la nostra parola e il nostro agire è importante. Bisogna evitare di amare l’altro senza dargli libertà, come tante volte si amano i figli. Devi riconoscere che sono persone, che la possono pensare diversamente da te. Amare è rispettare l’altro e riconoscerlo come altro.»24

Ed in questo mettersi in discussione -«alle riunioni ci mettevamo sulla graticola»- fondamentale è la rielaborazione del rapporto con la madre: «Le nostre madri non erano per noi un buon modello perché le vedevamo come perdenti e siamo cresciute con quest’idea della donna perdente, per questo a volte siamo così aggressive».

Interessante risulta il dialogo che segue e che ripropongo per come si è svolto : «Ma perché non c’è benevolenza tra noi donne? E’ come se ci si sforzasse per essere positive e benevole (L.R.); Perché secondo me nelle debolezze delle altre vediamo la debolezza della madre e la nostra. Ti fa male dell’altra quello che ti appartiene (G.D.); Ad esempio a me la donna egocentrica non piace, magari mi stanca ma non mi fa arrabbiare (L.R.) Quella che da fastidio a me mi ricorda mia madre, per questo mi fa rabbia, se avesse un altro difetto probabilmente potrei essere anche più benevola (G.D.); Ricordo un clima positivo con le altre donne. Andavamo agli incontri anche con i figli, e meno male che questi figli hanno respirato mamme che uscivano. Non c’è rottura con i nostri figli e questo forse crea anche dei problemi. Per noi la normalità era pensarla diversamente dai nostri genitori, mentre noi finiamo per essere anche più ingombranti. A volte bisognerebbe fare un passo indietro, perché altrimenti si rischia di far scomparire la figura del padre. Hanno sempre lavorato e non hanno avuto una comunità di riflessione come la nostra (L.R.)».

E alla domanda sul motivo del vuoto di comunicazione tra la loro esperienza e la nostra generazione rispondono che «forse passano i modelli più che le parole».


Le Lune

Le Lune è un’esperienza che nasce a Catanzaro nel 1989 quando le ACLI organizzano un corso per creare consigliere di parità (era un corso pensato per donne occupate, circa 10). Le fondatrici sono: Lina Scalzo, Ornella Lavitola, Maria Rocca, Anna Maria De Marco, Rosanna Barbuto, Lorenza Rozzi, Maria Teresa Iuliano, Anna Puleo, Maria Rosaria Sganga, Francesca Ferraro, Pina Paparatto. In seguito si sono aggregte altre, tra cui Serena Procopio e Rosanna Macrillò. L’esperienza comincia così: le ACLI decidono di far gestire il corso alle donne dell’associazione e tra loro, all’interno del coordinamento femminile, c’è Anna Maria che è anche responsabile provinciale. Ciò che si cerca per primo è un esperto di normative europee per il lavoro della donna. A Cosenza è da poco arrivata Cristina Marcuzzi, che accetta il compito con un moto di gioia: aveva esperienza di collettivi che riflettevano sulla differenza. Il primo consiglio che da è quello di non usare docenti di sesso maschile. Tra le docenti vi sono Renate Siebert, Anna Salvo, Ida Vece, Giovannella Greco, Ida Rende, Carmen Leccardi, Donatella Barazzetti, Ida Dominianni, Gianna Gilardi. Al corso insegna anche Anna Rossi Doria che indica come primo passo quello di guardare anche la donna più lontana da sé. Anna Maria racconta, ad esempio, che il corso le ha insegnato il valore dell’ambivalenza, che lei ha usato per pacificare i rapporti con la suocera. Lorenza, che aveva vissuto la fine della sua esperienza lavorativa nell’ospedale come uno scacco, comprende, grazie alla lettura dell’ultimo “Sottosopra”, che la sconfitta non era sua, “bensi' di un sistema che non avevo contribuito a costruire e che anzi combattevo, intriso a tal punto di corruzione e potere da convincermi dell'impossibilita' di un suo cambiamento. Sono cosi' riuscita a rielaborare la dimensione dello scacco”. Anna Rossi Doria corregge inoltre le loro brochure, eliminando i termini più lamentosi. La cosa straordinaria è che quest’esperienza nasce come occasione tecnica e poi si trasforma in un’occasione per ripensare alla propria vicenda personale ed anche al movimento politico delle donne. Anche se non si fa più politica delle donne, il segno di quest’esperienza è tangibile. Anche le ACLI portano il segno di questa nuova soggettività femminile. Durante il corso erano state avvisate che sarebbero uscite con una forte carica che avrebbero poi dovuto saper gestire all'esterno. Le più politicizzate riuscivano a gestire questa specie di “doppia militanza”. “Lina Scalzo, raccontano, interveniva sempre per ancorare ogni discorso alla quotinianita' dei vissuti. Lei, sindacalista, riportava alla realtà”. Tra le attività esterne di cui ci rimane traccia ricordiamo: una serie di seminari coordinati da Anna Rossi Doria; Raffaella Lamberti (Libreria delle donne di Bologna): “Esperienza delle donne tra esclusione e voglia di contare” da novembre del ‘90 a gennnaio del ‘91; Amalia Signorelli (storica): “Condizione della donna calabrese tra famiglia e familismo”; Dacia Maraini: “Corpo e pensiero di donna. Pensiero e separazione”. I seminari permettono al gruppo di aprirsi, c’era sempre molta gente. Ad un incontro con Renate Sierbert (presentazione del testo “E’ femmina però è bella”) c’erano Anna Salvo e Ida Dominijanni. Il gruppo, in effetti, si scioglierà perché “probabilmente erano finite le cose da dirsi, anche se non si e' interrotta la relazione profonda che abbiamo costruito”. Alcune di loro hanno voluto incontrare suor Antonietta Potente recandosi all'Oasi Bartolomea di Lamezia: “Sono rimasta molto colpita da questa donna colta e ascetica, che, tra le presenti desiderose della sua amicizia, ha scelto Lina - racconta Lorenza Rozzi - ; ancora oggi mi trovo a riflettere sulla loro intesa, tra donne: quella tra una creatura tutta proiettata verso il cielo, suor Antonietta, e una creatura fortemente ancorata alla terra, Lina; a dispetto delle diversita' ne e' nata una bella amicizia, ne abbiamo tutte goduto e comunque rimane un insegnamento e un ricordo incancellabile”.


3.3 Federcasalinghe, Fidapa di Soverato

Federcasalinghe

La Federcasalinghe nasce nell’89 dietro l’input della presidente nazionale Federica Rossi Gasparrini ed a Soverato trova la sua sostenitrice in Anna De Marco Parrello, attualmente responsabile provinciale dell’associazione.

«Premesso, dice Anna De Marco, che tutte le donne sono casalinghe, alcune a tempo pieno altre part time, è stato difficile cancellare quella falsa immagine, tanto che l’associazione ha dovuto imporre un cambiamento culturale per riuscire a rappresentare la vera realtà della casalinga, colei che gestisce le risorse affettive , culturali ed economiche del suo nucleo familiare».

Inizialmente aveva obiettivi di tutela dei diritti delle donne, come il riconoscimento giuridico del lavoro familiare, poi ha cominciato a pensare all’assegno di maternità per le mamme casalinghe, cosa ottenuta; quindi all’assegno per sostenere le famiglie in difficoltà, alla legge per la tutela contro gli incidenti domestici, all’assicurazione per le casalinghe, cosa realizzata dall’INAIL. Così De Marco ricorda quegli anni: «Lentamente si è innestata un’azione culturale di crescita delle donne e di impegno per una loro maggiore presenza nei centri di gestione del potere politico ed economico. Agli inizi, organizzavo gite per le associate, cosa che può sembrare banale, ma che in effetti fu da stimolo ad una maggiore coesione tra gruppi di donne che non si erano mai incontrate e che cominciarono ad interessarsi della storia della Calabria, delle testimonianza del suo passato, poiché la presidente sapeva unire al dilettevole (l’uscita in compagnia), l’utile (notizie storiche sui tanti siti archeologici che si andavano visitando)».

All’inizio nella provincia di Catanzaro ci furono 12 mila socie, poi, anche la Federcasalinghe visse la crisi dell’associazionismo ed il numero delle iscritte si ridusse. La responsabile dell’associazione a Catanzaro in un primo tempo fu Marilina Ranieri, Anna De Marco Parrello fu eletta responsabile provinciale, carica che ancora occupa.

Le Federcasalinghe hanno una sede anche a Lamezia, all'interno del Centro Studi Lazzati.

Ad Anna De Marco Parrello sono state rivolte alcune domande, allo scopo di contestualizzare la progettualità e l’azione del gruppo.

Quali obiettivi avete raggiunto?

«Abbiamo raggiunto gli obiettivi prefissati, come il sostegno alla famiglia numerosa, chi ha tre figli minori percepisce un assegno annuo di circa 4.800.000 delle vecchie lire; ultimamente, in seguito alla crisi delle associazioni, la Federcasalinghe si è trasformata in holding sociale con varie diramazioni, dal sostegno alla casalinga si è passati all’attenzione verso la famiglia: in tutt’Italia c’è stata l’apertura di Sportelli Informafamiglia, e qui lo abbiamo realizzato a Sant’Andrea, perché in questo paese ho insegnato e quindi conoscevo bene la sua realtà socio economica».

Nel 2001 si ha l’affermazione dello Sportello Informafamiglia dopo la chiusura dei corsi di formazione svoltisi in tutto il territorio nazionale. Tre anni di volontariato allo Sportello che però, aggiunge la presidente provinciale, «mi hanno permesso di imparare tane cose, conoscere meglio la gente e fare tanto lavoro».

Allo Sportello collaborano tre avvocati, ha sede presso il Comune dove il Sindaco ha messo a disposizione una bella stanza e la sua collaborazione. Lo Sportello oggi è un punto di riferimento, si avvale della disponibilità delle Istituzioni e facilita il quotidiano di tante donne, che spesso hanno delle titubanze quando si tratta di parlare col Sindaco o con le forze dell'ordine. «Si è creato un circuito di relazioni e di amicizia, ma specialmente di sostegno a tante donne: un esempio, 150 donne hanno fatto la Moc gratuitamente, e molte, che non avevano mai fatto una visita ginecologica, sono state visitate. Le lotte sostenute dall’associazione sono state dure e difficili, ma alla fine si sono raggiunti gli obiettivi desiderati. Nella finanziaria del 99 erano stati introdotti due provvedimenti che rientrano negli accordi elettorali sottoscritti tra Donne Europeee Fedrecasalinghe ed Ulivo e cioè l’assegno di maternità per casalinghe disoccupate di lire 2.500.000 rivalutabile annualmente, l’assegno per i nuclei familiari con tre figli minori ed a basso reddito di lire 2.500.000, rivalutabile. Altamente positiva, nel 2001, la nascita del fondo famiglia, Legge 124/93, una pensione accumulata con gli scontrini della spesa, che in poco più di un anno ha ottenuto un aumento del 154 % del patrimonio. Le socie seguono l’attività dell’associazione , scoprendo così anche il gusto di rapportarsi, di conoscersi, ed anche di divertirsi insieme.Tante sono state in questi anni le iniziative della Federcasalinghe: convegni sugli infortuni domestici, sulla prevenzione in medicina, partecipazione a trasmissioni televisive sulle reti nazionali, divulgazione delle informazioni su come poter fare imprenditoria, gemellaggi fra donne europee, e tant’altro. Il tesseramento –spiega la Parrello- offre numerosi vantaggi: ricordiamo solamente il soccorso medico offerto dalla centrale operativa “Inter partner”, i prezzi agevolati presso le terme e presso i centri diagnostici, assicurazioni auto a prezzi speciali sconti per l’acquisto di libri presso le librerie Mondadori e Sele Book».

Come sono stati i rapporti con le altre associazioni?

«In un primo tempo non ci hanno apprezzato, forse l’idea che ad associarsi fossero le casalinghe era considerata “popolare”: lentamente però è stato chiaro che eravamo una forza dalla quale poteva nascere uno scambio di esperienze e cultura e l’atteggiamento di indifferenza verso la Federcasalinghe è lentamente mutato»

A tuo giudizio qual è il problema più diffuso oggi tra le donne?

«Vivono male in casa, nella famiglia, c’è un disagio familiare terribile, a volte dietro atteggiamenti che possono sembrare “strani” ci sono situazioni di malessere psico fisico incredibili». La Federazione si è recentemente battuta per il lavoro interinale, ha creato i fondi pensione, si sta battendo per un progetto di “baby parking”, per dare maggiore tranquillità alla donna che lavora, ma sta pensando anche alle donne che in casa curano gli anziani, per le quali propongono un contributo economico da parte dello Stato.

Ma questo non vuol dire invogliare la donna a stare sempre a casa?

«No davvero, ognuna è libera di fare delle scelte, part–time, lavoro interinale... Qual è stato il tuo rapporto con il pensiero femminista in questi anni?«Il femminismo nel senso “esagerato “ del termine non mi ha visto mai d’accordo, ma se c’era una lotta da fare io ero sempre pronta, se convinta di essere nel giusto e senza mai rinunciare alla mia femminilità».

Se ti chiedessero un impegno in politica, ci penseresti o accetteresti subito?

«Me l’hanno chiesto in tanti, io però non mi sento di vivere la politica, che per me non è una cosa limpida così com’è, ti impone un habitus e dei compromessi; si può fare politica anche come facciamo noi, aiutando donne e giovani attraverso lo sportello e parlando con le donne che vogliono stare assieme, per incontrarsi e discutere di tante cose».




Fidapa di Soverato

La Fidapa di Soverato nasce nel 1990, grazie a Francesca Lovecchio Fondacaro e ad Angelica Biacca, «alla quale -dice Francesca- tutta la sezione è grata per l’animus di madrina di battesimo, e per il supporto morale e fattivo con cui ha sempre seguito la fase iniziale di vita del club». Il club è nato col contributo di 22 socie: Angela Alfierazzi, Tina Alvaro, Rosalba Aversa, Adriana Castellotti, Antonella De Pace, Caterina Galasso, Fulvia Gioffrè, Francesca Lovecchio, Antonella Marvaso, Sandra Federici, Manny Megali, Manuela Pennacchi, Vanna Peronace, Rosalba Pugliese, Marisa Rotiroti, Lilli Rosso. Oggi ne conta 48. Dalla documentazione in nostro possesso si evidenzia che l’associazione è cresciuta sempre di più negli anni «grazie alle attività legate alla realtà del territorio e alla valorizzazione delle potenzialità di ognuna delle socie, che ha permesso la crescita di legami politici ed umani», afferma ancora Lo Vecchio. Ogni presidente Fidapa indirizza la programmazione secondo i propri intenti e le proprie progettualità, ferma restando l’adesione al tema nazionale biennale. Francesca Lo Vecchio ha iniziato la sua attività di presidente con una conferenza sulle strategie delle Pari Opportunità ed ha concluso il suo biennio con una tavola rotonda sul tema “Donne e potere”, facendo il punto sulle conquiste delle donne e sul ruolo importante che hanno nella società. Il secondo biennio, guidato da Marisa Rotiroti, è stato caratterizzato dall’incontro col gruppo “Kore” che, pur con modalità differenti, lavorava sull’identità femminile: da questo incontro nascerà il progetto della Biblioteca delle Donne, come luogo di riflessione politica. Il biennio si concluderà con un incontro su ”Donne e città” che analizzava il rapporto tra le donne e le istituzioni. Il terzo biennio, presieduto da Caterina Galasso, ha visto l’associazione dibattere sul tema: “Rapporto tra donne e politica, desiderio o necessità?”, dal quale è emerso che la partecipazione delle donne nella vita politica è necessità per un’evoluzione qualitativa della politica stessa. Tematiche trattate in questo biennio sono inoltre riferite all’orientamento e alla formazione professionale, indispensabili per un ingresso paritario delle donne nel mercato del lavoro. Durante il quarto biennio, la presidente Vanna Peronace, considerando il lavoro uno dei nodi cruciali del Sud e della Calabria in particolare, decise di farne il filo conduttore di diversi incontri, trattandolo sotto varie sfaccettature. Nel primo incontro il tema e' stato sviluppato da Donatella Barazzetti del dipartimento di sociologia dell’Università della Calabria. La conferenza su “Comunicazione, informazione, alle soglie del III Millennio” e' stata tenuta dal giornalista Sandro Curzi e l’antropologo Luigi Lombardi Satriani. Nell’ambito della conoscenza di culture limitrofe diverse, e uniformandosi al tema nazionale e' stato promosso un incontro su “Reti di relazioni tra donne in un progetto di cooperazione e scambio tra donne israeliane e palestinesi” Il quinto biennio, presieduto da Marisa Gigliotti, ha assunto come tematica centrale il patrimonio artistico del territorio, con la conoscenza e il recupero degli aspetti gastronomici e culturali. Attraverso incontri e visite guidate si è data continuità al tema delle prospettive occupazionali delle donne , legate all’espressione artistica. Le iniziative, le attivita', le finlita' e gli obiettivi che il club ha perseguito e continua a perseguire sono cosi' sintetizzate da Francesca Lovecchio: “Ls Fidapa di Soverato svolge un'attivita' socio-culturale, avendo come oggetto di studio, di meditazione, di approfondimento molti aspetti dei problemi che travagliano la nostra societa'. Si orienta verso quei problemi che investono le coscienze di tutti in modo da portare un contributo alla formazione di una cultura omogenea che, oltre ad essere un modello di vita e di comportamento, sia emblematica della nostra identita' come associazione che vuole contribuire a costruire un mondo migliore. L'Associazione mira soprattutto a sollecitare nelle socie un'attenta presa di coscienza di se' e la conoscenza della realta' che le circonda per assumere poi, nei confronti di essa, le proprie responsabilita', facendo emergere tutte le potenzialita' sia sul piano professionale che su quello della vita sociale. Per questo le socie si alternano come presidenti assumendosi ognuno la responsabilita' di guidare il club come fosse una palestra di esercizio di governo. Il club ha sempre cercato di intrecciarsi con la vita della citta', dimostrando quanto sia arduo il cammino delle donne in un ambiente che considera la donna fragile e subalterna”. La Fidapa di Soverato è un’associazione attenta anche ad altri bisogni della città; infatti nel ‘92 si fa promotrice della donazione di un’emoteca. Nel ‘95 un gruppo di fidapine (Angiola Alfierazzi, Tina Alvaro, Rosalba Aversa, Francesca Lovecchio, Paola Nucciarelli, Vanna Peronace, Marisa Rotiroti, Lilli Rosso, Anna Sia, Eva Winser) assieme al gruppo Kore fanno nascere la Biblioteca delle Donne, con l’obiettivo di valorizzare i saperi femminili. Così, pur attraverso percorsi diversi, i due gruppi assumono lo stesso obiettivo e decidono di lavorare insieme per perseguirlo. «L’associazione è stata ed è per tutte un luogo di crescita umana e culturale: non si sono tentate nè analisi né soluzioni corporative o femministe, ma certamente sono state accettate e condivise lotte e obiettivi del movimento delle donne. Non si è andate oltre perché abbiamo pensato che avrebbe avuto poca importanza innovativa sostituire a un vecchio “ismo” uno nuovo, avendo la società bisogno di quell’equilibrio naturale tra donna e uomo, pur nella loro specifica diversità. Continueremo a lavorare in questo senso, almeno lo spero, con serietà e continuità, in modo che nessuno potrà mettere in dubbio il valore delle doti che fanno delle donne un punto di riferimento e di sicurezza in un mondo disorientato e sordo ai richiami dei valori». Nella sostanza, la finalita' che persegue il club di Soverato e' l'impegno a costruire: “al di sopra di ogni barriera ideologica, religiosa, razziale e geografica, con tenacia e perseveranza quotidiana, una societa' migliore per essere una forza che pesa nelle scelte e che, acquistando sempre piu' autorevolezza, cerchera' di assicurare ad ogni donna una maggiore dignita' della vita”.




3.4 La Biblioteca delle Donne Kore - Fidapa

L’idea della Biblioteca delle Donne di Soverato nasce in un incontro promosso a Lamezia dal gruppo di lavoro del ”Progetto Donna”. Il Progetto Donna, ideato da Simona Della Chiesa nel 1987 come luogo politico delle donne, era un organismo della Giunta Regionale e, anticipando le Azioni Positive della legge sulle Pari Opportunità per valorizzare la soggettività femminile (1992), stimolava la formulazione di progetti da parte delle donne e delle associazioni femminili e proponeva anche l’istituzione di Biblioteche e Centri di Documentazione Rosa Tavella di Rifondazione Comunista, unica consigliera regionale donna, nell’ottobre del 1992, dando continuità a quanto si era stabilito in precedenza, insieme con le donne del gruppo di lavoro e delle associazioni, decide di erogare finanziamenti per progetti finalizzati ad attività culturali e in particolare per le Biblioteche delle donne. Così, nel dicembre dello stesso anno, a Soverato, le due associazioni KORE e FIDAPA (Assunta di Cunzolo – presidente di Kore e Marisa Rotiroti–presidente di Fidapa) presentano il progetto Biblioteca al P.D. Per la stesura del progetto e del regolamento è stata creata una rete di relazioni con associazioni (“Orlando” di Bologna che gestisce il “Centro di documentazione delle donne”) e donne di altre città, (Matilde Avenali della Biblioteca delle donne di Ancona, con la mediazione di Adriana Papaleo), che hanno offerto il contributo della loro esperienza. Nel progetto della Biblioteca, 17 donne di KORE (Assunta Di Cunzolo, Fulvia Geracioti, M. Grazia Riveruzzi, Viviana Santoro, Delia Fabrizi, Maria Procopio, Teresa Ciaccio, Patrizia Greto) e FIDAPA (Lilly Rosso, Rosalba Aversa, Eva Winser, Angiola Alferazzi, Tina Alvaro, Vanna Peronace, Paola Nucciarelli, Anna Sia, Francesca Lovecchio) con una diciottesima donna- Marisa Rotiroti - appartenente ad entrambi i gruppi, si assumevano la responsabilità della gestione. Dall’inizio ad oggi, la coordinatrice della Biblioteca sarà Marisa Rotiroti; questa, la sua testimonianza «La pratica della riflessione politica è stato il contributo che le donne di Kore hanno portato nella Biblioteca, mentre tutta l’organizzazione interna ed esterna è stato il contributo delle donne della Fidapa. Sono stati anni ricchi e fecondi di riflessioni e di incontri tra le donne delle due associazioni e con le donne delle istituzioni»78. L’Amministrazione Comunale “Pedalando Volare” guidata da Gianni Calabretta79 , con Assunta Di Cunzolo vice sindaco, comprendendo come il pensiero delle donne fosse diventato “cultura della politica”, condivide il progetto e concede i locali nel Palazzo di Città. Nel 2000, in un rapporto dialettico e costruttivo, le donne delle associazioni “Kore” e “Fidapa” stipulano una Convenzione con l’amministrazione e, come atto di amore verso la città, scelgono di donare, dopo 30 anni, tutto il patrimonio costruito dalla Biblioteca delle Donne alla Biblioteca Comunale. L’amministrazione s’impegna a concedere i locali e a mantenere anche in futuro la denominazione “Biblioteca delle Donne KORE-FIDAPA” «quale costruzione della memoria dei saperi delle donne» . «La scelta della fondazione della Biblioteca a Soverato non è stata casuale dice Marisa Rotiroti perché qui, a Soverato, c’erano le condizioni favorevoli in quanto donne di due associazioni culturali Kore e Fidapa” stavamo riflettendo (ognuna per conto proprio e con modalità differenti) sui percorsi di libertà delle donne; avevamo il desiderio di uno spazio politico di relazione e di scambio di esperienze tra donne al di la' delle appartenenze; c'era la necessita' di un luogo fisico dove custodire tanti libri per diffondere i saperi e la cultura delle donne”. Dal momento della progettazione le donne delle associazioni si incontrano con scadenza quindicinale per discutere di disparita', invidia, potere e autirita' femminile, temi che in quegli anni si dibattevano anche a livello nazionale, con posizioni e sfumature diverse tra i gruppi. Tra le donne della Biblioteca non sempre c'e' uniformita' di vedute, c'e' la storia, il non detto e il rimosso dei percorsi individuali e collettivi di cui terner conto, ma il collante che consente loro di governare i conflitti, a volte anche aspri e dolorosi, e' il desiderio/necessita' di mettere in campo tutte le energie e le mediazioni possibili per la realizzazione del progetto. La pratica della relazione tra donne diventa, cosi', lo strumento funzionale al conseguimento dell'obiettivo. Cosi' Marisa Rotiroti riassume l'attivita' svolta dal 1996, data della fondazione della Biblioteca, secondo la duplice modalita' di seminari interni, finalizzati alla costruzione e all'esercizio della pratica di relazioni, e incontri aperti all'esterno, nell'ottica della trasmissione di saperi, con presentazione i scrittrici e loro libri, rappresentazioni teatrali di donne, proiezioni di films con pa presenza di registe. “Molto significative le discussioni sui Sottosopra (Rosa, Verde, Blu, Oro, Rosso), documenti fondanti del pensiero delle donne, editi dalla Libreria delle Donne di Milano. Il Sottosopra Rosso del 1996, che nominava la rottura dell'ordine patriarcale, ha dato alle piu' giovani l'opportunita' di raccontare la propria esperienza di figlie liberate e di confrontarla con quella delle donne piu' anziane, che avevano guadagnato il senso di essere libere attraverso il percorso dell'emancipazione nell'UDI, nei partiti, nel mondo cattolico, nelle associazioni e individualmente. Il seminario sul pensiero di Hannah Arendt e' stato l'occasione per aprire il dialogo con insegnanti del comprensorio e agire, nei diversi campi del sapere, uno spostamento di sguardo che tenesse conto della nostra specificita' sessuata. La rassegna di films di registe, iniziata con la consulenza dell'Associazione Lucrezia Marinelli di Sesto San Giovanni (MI) sul tema Relazioni tra donne, ha proposto e legittimato uno sguardo sui modelli e comportamenti altri, evidenziando, attraverso le emozioni suscitate dalle immagini, come la comunicazione e i legami tra donne siano importanti per la costruzione della soggettivita'. Dal 1997 le donne della Biblioteca hanno rivolto una cura particolare alla formazione di genere delle giovani generazioni lavorando molto con le scuole su letteratura e cinema. Le/gli studenti hanno incontrato Joyce Lussu, donna della Resistenza, e scrittrici del Sud di cui avevano letto i libri: Maria Rosa Cutrufelli, Renate Siebert, Silvana La Spina. La rassegna di films ha indotto la riflessione su come il diverso posizionamento dell'occhio della macchina da presa sui corpi dei personaggi, da parte di un uomo o di una donna, possa incidere sull'immaginario collettivo. Infine, la sperimentazione di una pratica relazionale col mondo sociale e con le istituzioni, laddove e' stato possibile stabilire un rapporto, ha attraversato in modo trasversale tutto il lavoro delle donne della Biblioteca concorrendo all'affermazione di una soggettivita' femminile individuale e collettiva e di una cultura in cui uomini e donne possano riuscire a costruire insieme una societa' rispettosa delle reciproche differenze”.



Incontro con Maria Rosa Cutrufelli. Da sinistra: Rosalba Aversa, Marisa Rotiroti, Vanna Peronace, Maria Rosa Cutrufelli, Eva Winser, Fulvia Geracioti


Incontro con Margarethe Von Trotta. Da sinistra: Rosa Mangione, Vanna Peronace, Rita Monaco, Rosalba Aversa, Viviana Santoro, Assunta Di Cunzolo, Lilly Rosso, Margarethe Von Trotta, Paola Nucciarelli, M. Grazia Riveruzzi, Fulvia Geracioti, Rosa Tavella, Maria Procopio, Marisa Rotiroti Anna Sia, Adriana Esposito.
















CAPITOLO 4

IL RACCONTO

Di Giovanna Vincelli



Parole e silenzi

Parte della ricerca sui gruppi di donne della provincia di Catanzaro è stata condotta attraverso interviste in profondità. In particolare, sono state condotte 17 interviste che hanno interessato, in maniera trasversale nel tempo, molti dei gruppi presenti, dagli anni Settanta ad oggi, nella realtà territoriale oggetto di indagine. E’ un lavoro sulla memoria, sul recupero del ricordo, delle rappresentazioni che la memoria ha conservato. Un tentativo di tenere insieme la memoria con la storia (Baeri, 2005), che ha suggerito, a livello metodologico, di preferire un itinerario di auto-rappresentazione delle donne intervistate. Non è stata quindi adottata una griglia rigida d’intervista, ma si è lasciata la più ampia libertà alle donne interpellate di raccontarsi.

La presa di parola ha, in questo senso, molteplici significati. Per molte donne intervistate la parola non è semplice descrizione di avvenimenti o ricostruzione di un percorso individuale e collettivo: è anche un continuo ribadire l’oralità come interazione significativa nell’autocoscienza; spesso è il racconto (solo apparentemente paradossale) di un silenzio come “uscita” dall’universo simbolico maschile. Alcune donne intervistate, infine, hanno deciso di scrivere (o riscrivere) la loro intervista, utilizzando la scrittura come “risorsa” di verifica e di una trasmissione che superi l’immediatezza del ricordo. In questo caso, i contributi delle intervistate si caratterizzano per una maggior identificazione dell’interlocutrice all’interno dei gruppi di riferimento, mentre le interviste in profondità hanno maggiormente evidenziato la biografia personale, la soggettività, le priorità e le scelte individuali (pur fortemente legate a un’esigenza molto sentita di riconoscimento verso le altre donne)25.

Le fonti orali sono state, in questo caso, sollecitate da una ricercatrice-intervistatrice. Il rapporto tra intervistate e intervistatrice è in ogni caso complesso e ‘generativo’ di forme e contenuti particolari. In questo caso, il rapporto con l’intervistatrice è stato caratterizzato dalla diversa età anagrafica, che si è tradotta nella possibilità di interpretare le fonti con uno sguardo situato e particolare: in primo luogo la possibilità di leggere i materiali in maniera ‘intima’ (grazie alla conoscenza del dibattito teorico e della storia del movimento femminista), ma allo stesso tempo ‘estranea’, in cui l’estraneità è declinata come possibilità di distacco critico dalle relazioni e dai contesti della ricerca26.

Le intervistate hanno offerto la loro testimonianza su temi specifici (il lavoro, la partecipazione a lotte sociali e politiche, la quotidianità, l’ambito privato) o narrato liberamente spezzoni della loro storia di vita). Ogni testimonianza è stata accompagnata e preparata da un contatto informale, e il colloquio è sempre stato poco direttivo, sempre accompagnato da domande che hanno lasciato spazio alla possibilità, per l’intervistata, di stabilire le proprie priorità (domande come “raccontami la tua vita”, “parlami di te” o “raccontami i tuoi anni Settanta”).

La trascrizione delle interviste è stata, il più possibile letterale27. Questa scelta è legata alla necessità di non rendere opaca e irriconoscibile la fonte orale; tuttavia, in un secondo momento, si è scelto di sottoporre alle intervistate il testo trascritto, per permettere una riflessione aggiuntiva: in questo senso, le interviste sono diventate fonte primaria e, allo stesso tempo, momento di riflessione e ri-definizione. Non a caso, le ri-scritture non si sovrappongono mai al parlato, ma lo completano e lo approfondiscono.

L’interpretazione ha posto quindi l’accento sulla soggettività (sia dell’intervistatrice che dell’intervistata), ma necessariamente anche sulla loro interazione, permettendo di dare valore all’aspetto qualitativo, individuale, di cogliere le sfumature, le ambivalenze, le conflittualità, le scelte, i ‘successi’ e le ‘sconfitte’. Il largo spazio dato alle soggettività ha indirizzato l’interpretazione verso le modalità con cui ogni soggetto costruisce la sua autopresentazione, comunica un’immagine di sé, (ri) costruisce la propria esperienza e la racconta liberamente, con alcune precise sollecitazioni. Nell’interazione che si crea attraverso il dialogo, il racconto si carica di senso, e la memoria ritrova e ricostruisce il ricordo nel momento stesso in cui avviene l’intervista.

Nella ricerca, e nel lavoro di interpretazione dei testi a disposizione, si è scelto di mantenere questi molteplici livelli di interazione.


Una questione metodologica aperta, all’inizio della ricerca, si è rivelata la definizione di “movimento delle donne”, stante la differenza fra soggetti, culture e movimenti in cui si è espressa la soggettività femminile negli anni oggetto d’indagine. Secondo Guerra «”Femminismo” comprende un’accezione più vasta rispetto a ‘movimento delle donne’ o all’espressione anglosassone “women’s liberation movement” […] Con il termine femminismo intendo riferirmi ad un corpus complesso di teorie e di pratiche che attraversa gran parte degli ultimi due secoli e che negli anni Sessanta e Settanta si è espresso nella forma visibile, allargata e coinvolgente del movimento» (2005: 25).

Non tutte le donne intervistate si definiscono femministe, né tantomeno alcuni gruppi oggetto della ricerca sono riconducibili all’esperienza storica dei movimenti neofemministi. Elemento in comune è, tuttavia, l’attenzione verso l’autonomia e l’iniziativa delle donne, la consapevolezza di una discriminazione e la ricerca di strumenti per combatterla. Nel corso della trattazione, si preferirà quindi definire i gruppi in oggetto come parte del movimento delle donne, «quell’eterogeneo arcipelago sociale formato dai soggetti che, nei partiti, nei sindacati, nel mondo del lavoro e delle professioni, si impegnano in prima persona per trasformare l relazioni di potere tra i generi» (Leccardi, 2005: 103).

In ogni caso, l’intento di questa ricostruzione di esperienze non vuole essere quello di tracciare un bilancio definitivo, ma di suggerire ipotesi interpretative e di rileggere la “sfida” posta dai movimenti delle donne alla luce del presente. Per questo motivo, ampio spazio è lasciato alle parole delle intervistate, che hanno ricostruito non solo gli aspetti istituzionali della storia dei loro gruppi, ma hanno legato la loro esperienza agli aspetti personali ed esistenziali. Un contributo che non vuole essere solo Memoria, ma vuole utilizzarla per ritessere trame e discorsi, perché oggi «c’è comunque un grande silenzio: per tutto ciò che nelle vite, nei rapporti con l’uomo e con le altre donne non si riesce più a nominare, per paura di ulteriori divisioni, o per paura di perdere anche le persone più vicine» (Melandri, 2004).


La ricerca analizza quindi i percorsi dei singoli gruppi di donne in una realtà territoriale periferica – la provincia di Catanzaro28 - ma diventa anche l’analisi dei percorsi di singole donne che abitano questi gruppi (dagli anni Sessanta ad oggi), alcune con una certa continuità, altre con interruzioni e ambivalenze. La ricerca non è stata condotta in maniera sistematica su tutti i gruppi di donne che si sono formati in questi anni, ma dà conto di tutte le aggregazioni ritenute sufficientemente significative e quindi in grado di fornire indicazioni complessive. L’elaborazione a posteriori delle intervistate contiene, inevitabilmente, elementi di reinterpretazione del passato alla luce delle esperienze presenti. Come ricorda Portelli (1979): «il narratore di adesso è diverso da quello che era quando prese parte agli avvenimenti narrati […] Spesso c’è stata un’evoluzione nella sua coscienza soggettiva e nella sua condizione materiale che lo porterà a modificare, se non il suo racconto dei fatti, almeno il giudizio che ne dà e quindi la forma del racconto. […] Una selezione a priori è già stata compiuta dal ricercatore nel momento in cui ha scelto i temi della ricerca e le persone da intervistare; e una selezione a posteriori avverrà nel momento della pubblicazione. Perciò la ricerca condotta con fonti orali ha sempre caratteri di parzialità e lavoro in corso che la distinguono dalla ricerca storica come siamo abituati a concepirla, col suo requisito ideale di consultare tutti gli archivi, leggere tutte le pubblicazioni, esaurire la documentazione»

Le testimonianze sono spesso frammenti di discorso, dal quale emergono modalità distinte che sono tuttavia riconducibili a due modelli: il primo contrassegnato dal racconto, che non si traduce mai in comunicazione urgente della propria esperienza individuale e collettiva; il secondo risponde alle modalità di una ‘fruizione allargata’ della propria esperienza, contraddistinta dalla consapevolezza di un percorso comune – ma non identico - e dal riconoscimento reciproco attraverso esperienze condivise e l’identificazione di comuni obiettivi. Questa seconda modalità è caratteristica delle donne che hanno condiviso il pensiero della differenza come comune matrice teorica, e che quindi sottolineano con forza l’aspetto del riconoscimento, dell’affidamento, dell’autorevolezza.

Le interviste sono veri e propri spezzoni di biografie singole e collettive, che ricostruiscono le amicizie, i conflitti, le rivendicazioni, le festosità e le ombre, i progetti creativi del movimento. Si può riconoscere, in molte interviste, un filo conduttore, spesso rappresentato da un racconto autoesplorativo, (soprattutto da parte delle donne che hanno vissuto l’esperienza dei gruppi di autocoscienza) al quale si intreccia un racconto di ricerca, che risponde ad un’esigenza conoscitiva, - legata ad una descrizione per quanto possibile fedele del contesto – alla necessità di continuare a formulare ipotesi, fare verifiche, documentare e ‘spiegare’ (soprattutto ad una giovane ricercatrice che non ha vissuto anagraficamente un particolare momento storico). Poco presente appare, invece, un racconto di tipo ideologico, che corrisponde all’esigenza del fare politica, sia diffondendo la consapevolezza di un percorso, sia indicando un itinerario politico. Il racconto raramente assume le forme della mobilitazione e della ‘propaganda – anche del proprio gruppo -, ma è intimamente legato alla rielaborazione della memoria, alla necessità di comunicare per ricordare, per allontanare la minaccia dell’oblio. In tutti i racconti prevale l’ “ansia di lasciare traccia” (Rossi- Doria, 2005), il desiderio di (ri)tessere le trame di un discorso che non vuole rimanere incompiuto, ma che, attraverso la suggestione dell’esperienza biografica e collettiva, costruisca conoscenza storica, spazi di ricerca ulteriori, continuità fra le generazioni, perché «la memoria del femminismo, che pure ha sedimentato ingenti patrimoni documentari in una straordinaria vocazione conservativa, è tuttavia fragile ed è grande il rischio di perdita, di cancellazione» (Bertilotti e Scattigno, 2005).

In che forme in cui si può trasmettere questa storia? Esiste una trasmissione tra donne, anche di diverse generazioni, di esperienze e di uno specifico sapere e pratica femminile?. Cosa lega dal punto di vista dell’esperienza femminista la donna adulta alla donna giovane, la madre alla figlia, le insegnanti alle allieve?

Le difficoltà della trasmissione generazionale sono condizionate, e allo stesso tempo producono, il silenzio. Un silenzio che a volte diventa reticenza. Scrive Lea Melandri: «Ma se è calata sul primo femminismo una dimenticanza così tenace è perché la scrittura e la memoria del singolo […] hanno incontrato da subito le spinte opposte di una “generalizzazione” che subordinava a criteri di “universalità” e “appartenenza” la materia concreta di cui è fatta ogni vita» (1997: 8). E ancora Maria Luisa Boccia: «Abbiamo desiderato, amato, detestato, subito e agito attraversando ambivalenze e ricchezza di uno scambio tra individuale e collettivo che ha costituito la cifra peculiare di un vissuto denso di politica. È difficile, per non dire impossibile, tradurre questa densità in un bilancio trasparente e lineare; molto più semplice è congedarsi, come si addice al tempo della giovinezza»(2003: 253):


Io non ho un rapporto con le ventenni, non so come si collocano; naturalmente hanno una vita molto diversa da quella che abbiamo vissuto noi, in cui noi abbiamo lavorato e operato. Tuttavia continuo a pensare che c'è una subalternità ai maschi molto forte; non so se se ne accorgono, se ne sono consapevoli. Non vedo il delinearsi di un'organizzazione propria della donna, cioè, vedo una sciatteria delle donne, magari disposte a utilizzare gli uomini, che però non lavorano sull'accrescimento della propria dignità, della propria autonomia, della propria consapevolezza di soggetto compiuto, completo, capace di misurarsi ad alto livello (Annamaria Longo)


Quello che posso dirti di Lamezia, ma posso parlare a livello personale, è che ho molto il dispiacere del silenzio in cui siamo oggi come movimento, come donne. Per altri versi credo che anche nella realtà lametina siano esperienze passate all'interno della società, perché sono state molto visibili. Se tu parli con le persone (magari non quelle giovanissime), sono state esperienze molto visibili, soprattutto l'UDI e il Centro Lilith, mentre il gruppo femminista è stata una cosa molto fra le pareti domestiche, non ha avuto un grande impatto all'esterno. Hanno inciso, è avvenuto qualcosa sicuramente. C'è anche una nostalgia...se incontro le persone di allora c'è proprio una nostalgia dei momenti dello stare insieme; c'è quasi una domanda, un chiedersi perché non facciamo qualche altra cosa insieme. Questo è quello che percepisco e comunque la mia riflessione adesso è sul silenzio, che non so fino a che punto sia giusto che rimanga così, perché è un silenzio che forse dovrebbe essere rotto, perché bisogna sempre tenerla viva l'attenzione, perché altrimenti corriamo il rischio come società di regredire, non solo come donne. Quello che abbiamo conquistato non è reversibile: sono cose acquisite e spero anche le generazioni delle nostre figlie, che adesso hanno venti anni. Però il silenzio potrebbe essere rotto, a partire da sé, individualmente, non so bene come, però sento che sarebbe opportuno ricominciare a parlare (Loredana Rubino).


Un’ulteriore difficoltà deriva dalla difficile collocazione, per molte donne, nei ruoli contemporanei di testimoni e narratrici: la difficoltà, quindi, di separare il soggetto dall’oggetto della ricerca (Passerini, 1988). Ci sono donne che non vogliono essere rappresentate dal femminismo, e donne che, se nel femminismo riconoscono una teoria e prassi ineludibile, si discostano da narrazioni e teorizzazioni onnicomprensive e totalizzanti. Le narrazioni difficilmente mettono a tema il significato soggettivamente attribuito al termine ‘femminismo’. Argomento cruciale ma sottaciuto, probabilmente per la difficoltà di distanziarsi soggettivamente dalla propria esperienza concreta. Una difficoltà sicuramente alimentata dalla evidenza di un pensiero femminista plurale ed eterogeneo, contrassegnato da discontinuità e temporalità diverse, variamente interpretato se considerato nel contesto dei movimenti collettivi o letto sul filo della dimensione e iniziativa pubblica delle donne.

Ma fra i silenzi e le difficoltà di descrivere, nelle narrazioni emergono in maniera evidente le parole: parole che esprimono e descrivono un mondo nuovo che le donne scoprono e cambiano, modalità innovative ed esaltanti che si realizzavano nel quotidiano, nella concreta attuazione del “personale è politico”, la scoperta del sé che miracolosamente convive con la costruzione di un soggetto collettivo. E’ «l’innamoramento collettivo di cui parlano tante testimonianze» (Passerini, 1991: 146).

Quali sono quindi le diversità e le somiglianze fra i gruppi dagli anni ’60 fino ad oggi? Quali sono i rapporti, gli intrecci, le distanze esistenti tra i vari gruppi? Quali gli obiettivi e le strategie in questi anni?


Desiderio e scelta: i luoghi delle donne

Quello che io mi ricordo, assolutamente, è questa presenza diffusa nei paesi di donne che comunque erano state coinvolte...piccoli gruppi che si trovavano, discutevano, perché poi spesso arrivavano a Catanzaro persone... perché il femminismo in Calabria, sicuramente negli anni Ottanta, è stato diffusissimo ovunque, gruppi di donne che facevano qualcosa c'erano ovunque, una quantità 'industriale' di gruppi di donne! (Donatella Barazzetti)


Diversamente da altre parti d’Italia, dove le donne provenienti dai gruppi della sinistra (tradizionale ed extraparlamentare) rappresentano una seconda generazione di femministe, che sbilanciano il movimento verso l’intervento sociale e politico e le manifestazioni in piazza (Calabrò e Grasso, 1985), in Calabria sono le donne della sinistra che raccolgono le idee e le suggestioni teoriche provenienti da altri luoghi d’Italia per ritrovare in esse contraddizioni con le loro pratiche politiche tradizionali e la loro stessa collocazione nel mondo. La parabola dell’UDI, come vedremo, è significativa a questo proposito. Con la metà degli anni Settanta si realizza anche in provincia di Catanzaro un’evidente espansione del movimento delle donne: un’affermazione pubblica di massa e, allo stesso tempo, lo sviluppo di un grande impegno teorico e culturale. Le donne intervistate, nel periodo a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, hanno un’età media che si aggira intorno ai trent’anni, sono nella maggior parte dei casi insegnanti, professioniste, studentesse, un livello culturale medio-alto, provengono da esperienze di militanza politica nell’ambito della sinistra tradizionale o extra-parlamentare.

Le idee e le pratiche che i gruppi territoriali vivono e mettono in atto sono simili a quelle che si muovono sul terreno nazionale: la critica del confine fra pubblico e privato; la scoperta del proprio corpo e della propria sessualità, la messa in discussione delle istituzioni tradizionali; la consapevolezza della differenza (e delle differenze) di genere, che prende il sopravvento sull’appartenenza di classe. Emerge un nuovo linguaggio, pragmatico e personale allo stesso tempo, che coinvolge ogni singola biografia femminile in un contesto sociale più ampio.

Anche fra le intervistate è possibile rileggere le differenti modalità di pensiero e pratiche che attraversano i gruppi nazionali: il pensiero moderato ed emancipazionista, che non mette in discussione la divisione dei ruoli e l’assetto economico, ma attribuisce l’esclusione delle donne a un pensiero dominante, culturale, sul quale agire per permettere l’ingresso femminile nel contesto produttivo e politico; il pensiero marxista, che vede nella rivoluzione di classe la possibilità per tutti, donne e uomini, di liberarsi dallo sfruttamento del sistema economico:


Sentivo molto forte il richiamo delle idee socialiste e comuniste, l’aspirazione alla giustizia sociale; credevo moltissimo in questo, nel fatto che le persone dovessero avere dignità attraverso il proprio lavoro, tutto il discorso sui diritti per uomini e per donne, e all’interno di tutto questo ho sempre pensato che il fatto che ci fossero le donne, con la loro soggettività, avrebbe aiutato anche il processo di trasformazione. Ho sempre ragionato legando insieme le due cose, pur sapendo, non solo per acquisizione personale, ma anche da studi, dalle relazioni che avevo in quel periodo, che non vi era automatismo fra socialismo e liberazione delle donne. Ero comunque convinta allora (ma ne sono convinta anche ora) che le idee di sinistra (socialiste e libertarie) fossero più confacenti ad un discorso di liberazione delle donne, contro un sistema patriarcale che comunque vedevo molto legato all’organizzazione capitalistica, anche se probabilmente non era soltanto questo (Rosa Tavella)


Il desiderio, il progetto, la possibilità della scelta, compaiono sempre in primo piano nella narrazione delle intervistate. E’ il rapporto con la maternità, il nuovo rapporto con se stesse e con l’uomo che diventa oggetto di analisi e discussione; è la necessità urgente di affermare la possibilità della donna di scegliere che fare del proprio corpo; l’autodeterminazione e la scoperta di nuovi scenari. I rapporti fra donne vengono ripensati nell’ottica di un coinvolgimento immediato e personale, mentre la politica tradizionale è stravolta da modalità nuove di partecipazione.

Quello che motiva in modo significativo la costituzione di un movimento femminista, e che coinvolge tutti i gruppi di donne che transitano da una prospettiva emancipazionista alla dimensione della liberazione, è la prospettiva di una redifinizione completa di alcuni concetti: la famiglia (soprattutto il rapporto tra l’uomo e la donna), il corpo (la richiesta di una maggiore emancipazione e il diritto alla contraccezione), la messa in discussione del modo di fare politica:


L'idea che posso desiderare qualcosa di diverso, o comunque sostenere questo desiderio... Io avevo una fragilità di desiderio, o perlomeno facevo una distinzione fra quello che potevo e che non potevo, quello che mi era consentito e quello che no. E quindi spesso mollavo, perché in fondo – anche se non era stato questo l'insegnamento di mia madre – però l'idea era quella sociale, era quella che come donna era più facile cedere, che per me era scritto che dovessi cedere. Quindi questa idea del desiderio per me era un grosso problema, che non sapevo nemmeno che fosse un problema. Poi mi sono accorta a quante cose avessi rinunciato; e l'idea che altre potessero sostenermi, anche non essendo d'accordo – perché alcune non erano d'accordo...quando sono d'accordo è più facile. Quando non erano d'accordo, il tipo di sostegno che ho avuto è stato quello di dire: “Questo non è il mio desiderio, però mi pare bello per te”. Questa considerazione è stata importantissima (Fulvia Geracioti)


Eravamo tutte, madri e non, giovani e meno giovani completamente impreparate ad affrontare il tema della sessualità perché il nostro corpo ci era sconosciuto e così la nostra sessualità. Tutto ci avevano insegnato e tutto avevamo imparato, e, tra le cose che ci avevano insegnato, c’era quella che il nostro corpo era vergogna e offesa per la collettività; era quindi da nascondere e i suoi istinti (emozioni diremmo oggi) da reprimere (Assunta Di Cunzolo)


Nei movimenti e nelle organizzazioni molte donne hanno trovato maggiori possibilità di esprimersi, ma anche di sperimentare in prima persona le asimmetrie di potere, i conflitti, la persistente dimensione del patriarcato. Il movimento femminista in senso stretto rappresenta solo una delle forme e delle articolazioni del movimento delle donne, che vive in un reticolo diffuso di centri, librerie, case delle donne, riviste. Ne nasce una periodizzazione che porta la vicenda del femminismo contemporaneo oltre il passaggio degli anni Settanta, nel cuore degli anni Ottanta e del “femminismo diffuso” e che legge il movimento delle donne come espressione sul piano politico della soggettività femminile (Calabrò e Grasso, 1985).

Nei decenni precedenti gli anni Settanta, l’Italia presentava due organizzazioni femminili di massa, l’UDI e il CIF, che erano diffuse su tutto il territorio nazionale ed agivano come cerniera fra la partecipazione alla politica istituzionale dei partiti (PCI e Democrazia Cristiana) e l’attività sociale, privilegiando quest’ultima, in particolare, rispetto alla presa di coscienza individuale. Alla fine degli anni Settanta, i due grandi partiti di massa del secondo dopoguerra, sono accomunati dal comune spiazzamento nei confronti di un soggetto politico emergente, dalla sorpresa di fronte alle battaglie referendarie e al loro esito, dalla visione tradizionale dei ruoli di genere. Nell’esperienza dei partiti di massa, in questi anni, l’accento è posto sulla società, sede della subordinazione femminile: è in questo terreno (e non in quello del rapporto fra i sessi) che devono avvenire i cambiamenti economici, sociali, culturali. La forte affermazione dell’importanza della presenza delle donne in altri ambiti politici e ideologici, malgrado una persistente difficoltà legata all’assenza nei luoghi della decisione, caratterizza, ad esempio, la narrazione di un’intervistata che legge in un’ottica di genere la sua esperienza all’interno della Democrazia Cristiana, concentrandosi sulla relazione politica fra una oligarchia politica maschile e una pressione femminile sempre più determinata e consapevole:


Quindi iniziò questo lavoro di aggregazione, di chiamata, e cominciò a costituirsi questo movimento femminile di donne della Democrazia Cristiana, secondo me di qualità, per la presenza di alcune. Era, in un certo senso, un movimento elitario, perché nella DC, come del resto nel PCI, c'erano molti iscritti, ma poche militanti. Le iscritte erano quelle che servivano per i congressi; allora le donne iscritte erano – come si diceva all'epoca – le mogli, le figlie, le nipoti, tutte la donne di casa, perché poi nei congressi quelli che rappresentavano questi pacchetti naturalmente avevano grandi opportunità per la lotta interna, che non era roba di poco conto. (Clara Sanginiti)


Anche sul versante più tradizionale dei gruppi appare forte l’attenzione verso la questione dell’uguaglianza femminile, soprattutto rispetto ai problemi in ambito lavorativo. Quello che non viene recuperato è il terreno della libertà personale:


Bisogna riandare alla fondatrice [della FIDAPA], Lena Madesin Phillips, un'americana che si inserisce nel movimento del femminismo. Lei era un'avvocato in America che, invece di fare la suffragetta e partecipare a quelle che furono le manifestazioni – a mio parere – scomposte...anche qui in Calabria alcune con le ragazze giravano sventolando – forse lei non se lo ricorda – il reggiseno, facevano gesti poco eleganti per una donna, per una signora (non in senso di ceto, ma di animo). Questo avvocato in America si assunse il compito di approntare, di costituire questa associazione per affrontare, sostenere l'inserimento delle donne.[…] La Fidapa ha sempre interpretato il suo Statuto in modo pacato; certo non è un'associazione con gli occhi bendati e conservatrici, perché è stata istituita dal movimento delle femministe, ma con una impostazione del tutto diversa da quella delle suffragette. La Federazione non ha spirito di parte, persegue i suoi obiettivi senza distinzione di razza, lingua e religione. Si propone di sostenere le iniziative delle donne, elevando il livello della cultura e della qualificazione delle donne, risvegliando il senso della loro responsabilità verso il proprio paese e verso la società. Si adopera per rimuovere le discriminazioni che ancora sussistono a sfavore delle donne, sia nell'ambito della famiglia che lavorativo. (Teresa Barbieri???forse è Maddalena Barbieri)


Anche l’UDI, pur nella difficoltà di affermare la propria autonomia, cerca una propria elaborazione indipendente dai partiti di riferimento, pur se la ‘questione femminile’ rimane in secondo piano rispetto al problema centrale della classe operaia???. Nonostante questo approccio, l’UDI diventa un riferimento per quanto riguarda i temi del diritto al lavoro delle donne e della maternità. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono gli anni dell’impegno verso le donne della campagna (la ‘Tabella Serpieri’) e l’abolizione del licenziamento delle donne in caso di matrimonio, la vertenza degli asili nido e della scuola materna, motivata dall’esigenza di permettere alle donne lavoratrici di conciliare il lavoro con la famiglia:


La battaglia più grossa noi l'abbiamo fatta nel 1951, quando c'è stata l'alluvione e hanno cominciato a fare una strada che collega Badolato con le Serre, e allora gli operai tagliavano gli alberi nei terreni dei più ricchi, e la polizia veniva a bloccare questo. Noi da ragazzi...le donne più grandi occupavano le strade, noi più piccole andavamo in cerca di qualcosa da mangiare per gli operai nel paese. Ti sentivi partecipe alla lotta. poi il momento cruciale per me personalmente è stato...perché allora c'era la Legge Gullo, che portava il miglioramento nella mezzadria. Le raccoglitrici di olive si sentivano più protette, anche i contadini – che prima non prendevano niente dai terreni – cominciavano ad avere il loro frutto, la loro partecipazione, la loro parte degli ulivi; la misura che prima veniva piena del frumento che loro raccoglievano e dovevano pagare al padrone...hanno fatto un legno che dava la misura giusta, e quindi ogni dieci misure gliene veniva una fuori. Vedevano queste cose qua […] Io mi ricordo che facevamo le battaglie per l'asilo, per la scuola materna. Siamo andate alla Regione e mi dicevano: “Guardate, sono venuti i vostri compagni di Modena, di Reggio Emilia e di Bologna per espandere e migliorare i loro asili. Noi non abbiamo soldi, a noi non ci mandano soldi per fare gli asili qua”; “E voi che voce avete quando andate a Roma, se non vi imponete per quello che dobbiamo fare? Se voi vi date da fare...”. Allora sono cambiate delle cose, perché la scuola a tempo pieno a Badolato è stata fatta la seconda dopo...prima si è fatta a San Giovanni in Fiore. Io, personalmente, quando mio marito era sindaco, mi sono bisticciata con lui, perché sono andata a prendere i documenti a Cosenza e a San Giovanni; li ho portati qua e li ho costretti con la forza a far approvare, nel Consiglio comunale, l'apertura della scuola a tempo pieno. Dicevano: “Con i tempi forse non ci riusciamo”, ma se mai cominciamo! E allora era la seconda in Calabria, dopo Badolato l'hanno fatto dappertutto. Perché? Perché erano le donne che si interessavano a fare queste cose, e grazie ad Annamaria [Longo] – perché lei, essendo professoressa, recepiva di più, preparava documenti e noi andavamo...Loro davano l'intellettualità e noi eravamo la forza. E' stato molto importante questo, perché le intellettuali dei paesi si sentivano più grandi e non contribuivano alle nostre lotte. Non hanno mai contribuito, pochissime sono state quelle che hanno appoggiato le lotte che abbiamo fatto, perché ci trovavamo di fronte...Poi, dopo fatte, tutti accettavano. [Le battaglia più importanti sono state] sull'emancipazione, il diritto di essere donna. Perché di qua tu riesci a scatenare tutto quello che intorno puoi capovolgere. E soprattutto la cultura, perché se non c'è cultura non c'è niente; perché la cultura ti fa confrontare con gli altri. Perciò ho combattuto di più per le scuole, per il diritto allo studio (Rina Trovato)


In questi anni l’UDI e il CIF si muovono quindi sul terreno della vita pubblica, con la conseguenza di sottovalutare i segni del malessere femminile, che si annidavano soprattutto nel privato. Gli anni Settanta impongono una netta cesura con il passato: nelle politiche dei movimenti tradizionali vi è un’equiparazione completa della donna all’uomo (e quindi la richiesta di leggi per la parità), il femminismo che si afferma in questi anni sostiene l’alterità fra uomo e donna, nega la neutralità del sesso maschile come parametro cui adeguarsi, afferma l’esistenza di due generi distinti, ognuno con una propria identità:


Eravamo un gruppo di donne abbastanza attente a quello che succedeva nel sociale, e quindi avvicinarsi all'UDI è stata una cosa naturale, perché l'UDI a Catanzaro è stata fondata poco prima che io entrassi, quasi in contemporanea (nel 1970 o 1972, non ricordo bene), e quindi avere un luogo in cui alcune donne si potevano incontrare, che non fosse di carattere politico-partitico, ma di carattere politico-sociale, per noi è stata una conquista; un luogo in cui potere esprimere ciò che pensavamo e soprattutto allora c'era una sorta di delirio di onnipotenza, pensavamo di poter cambiare il mondo, anche soltanto enunciando la cosa. Poi ci siamo accorte che non era così nel corso degli anni; comunque, la nostra parte l'abbiamo fatta lo stesso, e siamo state iperattive in tutte le battaglie sui diritti civili che riguardavano le donne, dal divorzio all'aborto; qui a Catanzaro poi sugli asili nido, le scuole materne, i consultori, tutto quello che era l'orizzonte delle donne. […] Io sono prima entrata nell’UDI e poi nel partito: ho fatto il percorso contrario. E quindi noi abbiamo sviluppato tutta una serie di iniziative, di lavori, soprattutto dal punto di vista culturale; io credo che noi abbiamo lavorato, oltre a tutto quello che riguardava i diritti civili, e anche le conquiste che riguardavano le donne dal punto di vista istituzionale, noi abbiamo fatto un’operazione proprio di carattere culturale in quegli anni, promuovendo una serie di convegni, soprattutto su quelle che sono state le femminista ante litteram, anche se allora nessuno sapeva che potessero essere connotate così, tipo Rosa Luxemburg, ecc.; abbiamo fatto seminari e ogni volta che facevamo queste iniziative, oltre alle nostre associate, che comunque erano assidue frequentatrici della nostra sede, avevamo proprio tutta la città che veniva a prendere parte (Adriana Papaleo)


Io ho cominciato a guardare qualche opuscoletto di campagna elettorale, del PCI probabilmente, perché circolava in classe, e quindi ero comunque attenta. Stavo un po’ stretta nel ruolo della brava ragazza, della brava studentessa, ero pronta in qualche modo...queste cose le avverti. Poi il mio ragazzo mi disse che c'era questa donna, questa architetta, che organizzava una riunione con delle donne. Andai alla prima riunione addirittura. Mi piacque subito il discorso. Comunque c'era materiale, c'erano cose da guardare, da leggere. Poi l'UDI a Lamezia ha avuto un'organizzazione e un impulso straordinari, perché sostanzialmente si sono organizzati dei circoli, c'era proprio una rete organizzativa. Questo è stato importante, ma è stato molto importante lo stare insieme tra donne di generazioni diverse, di estrazione sociale diverse. Tu immagina: la studentessa con la bracciante del quartiere popolare, e insieme a leggere Noi Donne, che è stata una rivista importantissima, di rottura all'epoca. Io diffondevo le copie di Noi Donne a scuola, abbiamo fatto un sacco di incontri, molti con questo taglio sociale, dei quartieri popolari nuovi che venivano costruiti a Lamezia, e lì la battaglia per la luce, per i servizi pubblici, quindi c'era molto questo taglio sociale. Però, accanto a questo, c'era anche la riflessione sull'essere donna. Organizzammo una mostra, delle diapositive, in cui si evidenziava l'immagine femminile sulla stampa; e poi c'erano le immagini che uscivano fuori dalle riviste patinate, quelle dell'epoca, raffrontate con l'immagine delle donne nostre, calabresi. Quindi tutto un lavoro di controinformazione non indifferente. Poi erano gli anni della battaglia sull'aborto e sul divorzio, quindi tematiche scottanti, fortissime, però devo dire che le donne rispondevano in massa, nel senso che si faceva un lavoro all'epoca che oggi nessuno più si mette a fare. Io il pomeriggio, alle due e mezzo, partivo da casa mia e me ne andavo in questi quartieri, anche un po’ distanti, e con le ragazze del quartiere andavo a fare caseggiato; il lavoro proprio porta a porta, entrando nelle case, parlando con le donne dell'aborto, di quello che significava, della propria libertà, dei mariti, dei figli; per arrivare poi a organizzare l'assemblea nel magazzino, nel quartiere, quindi tutta una rete di rapporti. E' stata un'esperienza importantissima, anche se è da collocare molto in quel periodo storico, perché ancora il pensiero sulle tematiche femminili era quello: era un discorso paritario, emancipatorio, organizzativo, sul modello delle organizzazioni politiche, del sindacato, del partito. (Loredana Rubino)


Nel Partito io vivevo questo tipo di disagio, che vivevano tantissime persone, un senso di inadeguatezza totale, di incapacità di cogliere il linguaggio dei partiti, della politica, quegli incontri politici che duravano delle ore interminabili, in cui tutti avevano tantissime cose da dire e non dicevano niente. Partivano tutti con: “Condivido il discorso del relatore…” e si partiva dalla Cina, si arrivava alla Russia, si passava da tutto il mondo, però poi i bisogni quotidiani della gente, le necessità, le difficoltà…nessuno ne parlava mai. Era una cosa incredibile. Per cui ti sentivi inadeguata perché se tu non riuscivi ad entrare nel meccanismo di quel linguaggio lì, non riuscivi mai a prendere la parola. Io pensavo che i miei problemi quotidiani, quelli che avevo sul lavoro, il disagio dei malati, il sovraffollamento dell’ospedale (spesso dovevamo legare due panche perché non c’erano letti, ci mancavano molte volte le lenzuola), queste cose qui…non riguardavano la politica, ma riguardavano il quotidiano che non interessava a questa grande politica. Io credo di essere arrivata al femminismo tramite la conoscenza di Donatella. Credo che lei sia stata la persona che ci ha coinvolto in qualche modo, perché non riesco a trovare il momento in cui ho incontrato questo gruppo di donne, tutte più giovani, io ero la più grande…Donatella, Amelia, Isa, Paola Garofano, Annamaria Casalinuovo, Licia ecc….le ho trovate, ci siamo trovate, ed è come se ci fossimo conosciute da sempre. Mi sembra che abbiano sempre fatto parte un pochino della mia vita qui a Catanzaro, forse perché le vedevo alle riunioni, agli incontri, alle feste dell’Unità […] Quindi mi sono trovata in mezzo e mi ricordo che fu una cosa straordinaria, come per tante altre donne, la scoperta…Guarda, io non so quale fu la cosa più importante, perché ce ne sono state tante che quegli incontri ci hanno dato…la scoperta della nostra sessualità, la scoperta del confronto con le donne, anche con quello che hanno vissuto le nostre madri, come avevano vissuto la sessualità, condizionata da tanti fattori (la Chiesa, il peccato), e anche quando noi abbiamo cercato la libertà la vivevamo sempre con un senso di colpa. E poi il confronto, il piacere di stare insieme alle donne, raccontare le nostre vite e le nostre storie e di trovare dei punti di confronto interessantissimi; e poi questa unione di donne che venivano da ceti sociali completamente diversi. C’era il gruppo di persone che venivano da ceti privilegiati, ragazze delle famiglie bene della città, e anche ragazze che venivano dai quartieri più lontani. E allora c’era proprio questa sorellanza che ci univa e poi questa consapevolezza, oserei dire, che è stata illuminante, che anche le cose…la quotidianità aveva un valore enorme. Questo credere in te stessa, lasciare alle spalle quei complessi d’inferiorità che molte volte ti avevano tenuta lontana perché non avevi niente da dire. Invece, la scoperta che tante cose ci riguardavano, ed avevano un valore immenso, ed erano proprio le cose del quotidiano, le difficoltà, i disagi ecc. Quindi è stata una scoperta di tante cose che abbiamo messo insieme (Lorenza Rozzi)


Cosa accade nella provincia di Catanzaro in questi anni? Si struttura la pratica del piccolo gruppo di autocoscienza, si configura la ‘doppia militanza’ di molte donne impegnate nella sinistra istituzionale, si raggiungono strati della popolazione femminile che fino a quel momento erano rimasti estranei, si consolidano i rapporti politici fra le donne, pur attraverso duri contrasti fra gruppi, si aprono luoghi autonomi di socialità femminile, si dà vita al confronto con le istituzioni sui temi del diritto di famiglia, del controllo delle nascite, dell’aborto, della violenza. I gruppi del femminismo radicale si affermano in un momento successivo, in particolare quando si chiude l’esperienza della doppia militanza, per dare vita a forme organizzate autonome politicamente. Convegni, incontri, manifestazioni. Dibattiti sulle nuove leggi: legalizzazione dell’aborto, costituzione dei consultori, la legge sulla violenza sessuale. Argomenti che coinvolgono in modo concreto e immediato tantissime donne, dando loro la sensazione di poter realmente agire per cambiare la loro vita e la società in cui vivono. Mentre si intensifica la riflessione teorica, si sviluppa il confronto con le istituzioni e l’impegno sul fronte legislativo. La mappa dei gruppi si moltiplica, emergono esperienze non riconducibili alle pratiche del femminismo storico, si formano gruppi che si orientano verso i temi del lavoro e delle pari opportunità, altri che svolgono attività legate alla diffusione dei saperi femminili, ancora altri gruppi di sole donne che svolgono prevalentemente lavoro su se stesse. Il rapporto con le istituzioni, pur nella diversità delle esperienze e dei momenti storici, emerge sempre come contraddittorio. Da una parte l’analisi femminista pone al centro del discorso la consapevolezza di sé, la soggettività, la relazione con le altre donne; dall’altra le istituzioni sono caratterizzate da una resistenza nei confronti del mutamento e da un approccio ‘universalistico’ che deve essere perseguito con apposite strategie e modalità preordinate. E’ un incessante ‘fare i conti’ con la lingua degli uomini (Ergas, 1977). Nel rapporto con le istituzioni si ottengono visibilità e risultati, che tuttavia, sembrano mettere in crisi i gruppi, provocando divisioni e conflitti.

Le narrazioni delle intervistate ci accompagnano lungo questo percorso.

Nei capitoli precedenti è stato possibile rievocare il periodo nel quale un gruppo di giovani donne di Catanzaro ha fondato il “Collettivo di Via Case Arse” aprendo il primo ed unico consultorio autogestito della città. Lorenza Rozzi, Graziosa Costa, Isolina Mantelli, Maria Antonietta Carrozza, Amelia Morica, Anna Maria Casalinuovo, Elisa Scarfone, Rosanna Marafioti, Donatella Barazzetti sono solo una rappresentanza delle decine e decine di donne che in quegli anni hanno lavorato, discusso, o anche solo sostato nella sede del collettivo. Incontri, discussioni, soprattutto sedute di autocoscienza. Nel Collettivo, e soprattutto nelle discussioni per il consultorio e sul consultorio emerge il problema della gestione della salute e della sessualità, e compare immediata l’esigenza di cominciare a parlare di sé. Si formano gruppi di autocoscienza (un testo di riferimento per le questioni della sessualità diventa Noi ed il nostro corpo), si passa all’esperienza dell’autovisita, si rendono evidenti due anime che iniziano a prendere direzioni diverse: l’intervento all’esterno e la linea che aveva individuato nell’autoanalisi, nell’autocoscienza, un punto fondamentale per iniziare un processo di cambiamento. Nei gruppi di autocoscienza le donne possono tradurre in parola le loro esperienze, le loro emozioni, la loro soggettività e confrontare tutto questo con quello che altre donne stavano sentendo e vivendo, comprendendo «la natura politica di ciò che è sempre stato definito personale» (Koedt, Levine e Rapone, 1973: 8). Il raccontarsi, il parlare di sé, il parlare della propria sessualità, della contraccezione, delle relazioni con il partner (non come problema generale o teorico, ma attraverso il racconto della nostra vita reale) scatena contraddizioni e disagio. Il raccontarsi funziona come rispecchiamento, consente la coscienza di sé, rappresenta l’impressione di (ri)nascere e scatena conflitti. Questa oralità, descritta a volte come “analisi selvaggia”, è presto riconosciuta come una pratica dal forte potere eversivo, capace di dare senso alla storia ma difficile da gestire. Nei gruppi si parla, spesso si urla, si piange, si litiga, ogni tanto qualcuna sbatte la porta. Tutte rivelano una grande rabbia interiore. Raccontandosi rivelano un’intima insoddisfazione, toccano il dolore delle altre e il proprio in modo talmente intenso da essere costrette a scegliere: andare avanti o fermarsi.


Come Collettivo abbiamo fatto dei tentativi di piccolo gruppo, mi ricordo dei devastanti tentativi, in cui si discuteva fra di noi di tutta una serie di cose, però ci siamo anche avventurate su terreni che, non controllandoli, hanno prodotto dei disastri. La gente raccontava di sé, e andava in tilt, perché il problema era che non avevi gli strumenti, mentre finalmente tiravi fuori tutto quello che era...sulla sessualità per esempio...questo più a Roma però...il problema però era di scoprire che, non so, essere frigide, avere certi problemi, non era un problema singolo, ma era un problema collettivo, che poteva esserci una sessualità diversa da quella che avevamo sempre conosciuto, perché scoprire che quella sessualità non era quella tua (Carla Lonzi, donna vaginale e donna clitoridea, per intenderci), scoprire che ci potevano essere delle modalità diverse, cosa che secondo me poi nessuno è riuscito a teorizzare veramente fino in fondo, però era l'idea di essere state, in qualche modo, prese in giro dalla storia. E scoprire che certe cose, che tu pensavi fossero i tuoi limiti, erano invece certe cose che appartenevano a tutte le altre, questo è stato straordinario. Però il problema era che era difficile dare una risposta, al di là del raccontarsi, anche perché poi su questo raccontarsi le persone...generano anche delle reazioni di resistenza nelle altre persone, se non ci sono strumenti, conflitti forti...che poi abbiamo anche lasciato perdere, quando ci siamo rese conto che per qualcuno poteva essere troppo devastante, fare una sorta di analisi senza che poi qualcuno riuscisse a restituirti un equilibrio. Però sicuramente l'idea che c'era una differenza, l'idea che nell'organizzazione noi avessimo subito per anni tutta una serie di cose...non solo per essere secondarie rispetto alle strutture dell'organizzazione, ma proprio come considerazione, è stato qualcosa di molto violento, molto coinvolgente. Poi noi ci siamo soprattutto orientate al fare, più che al pensare, anche se anche al nostro interno c'era questa separazione, come c'è stata in tutto il movimento femminista, tra le donne che ritenevano che il vero problema era riflettere su di sé e quelle che dicevano che il vero problema era trasformare il mondo, questo del dentro/fuori è stato uno dei nodi cruciali di conflitto (Donatella Barazzetti)


Cominciavano ad accendersi conflitti tra quelle che volevano l’impegno sui servizi e quelle, in genere le più giovani, che volevano riunirsi in gruppi di autocoscienza; alcune avevano concluso gli studi all’Università e tornavano definitivamente a casa e probabilmente avevano già fatto parte di qualche gruppo fuori dalla Calabria. Alcune sperimentarono per qualche tempo questa forma di relazione ma io e altre ci sottraemmo. La battaglia per il consultorio, per gli argomenti che comportava e per i divieti condivisi che dissolveva con la condivisione di tutte noi, funzionò per me come autorizzazione alla conoscenza del mio corpo che, prima, anche dopo la maternità, non avevo mai intenzionalmente osservato… non ci si specchiava nude, non si conosceva l’anatomia del sesso, era un non detto su tutto quello che riguardava corpo e sessualità: di tutto questo, mai parlato con nessuno, mai neanche con l’amica del cuore ed era tutto rimasto chiuso dentro, inespresso con vergogna e sofferenza. No, non potevo partecipare a queste riunioni, non sarei stata capace di sopportarne la sofferenza, ancora più se condivisa (Assunta Di Cunzolo)


Di quelle riunioni ho un ricordo più visivo, di voci, che non dei contenuti. C'era un grande protagonismo, ma anche forse una grande confusione. Non vi era forte ancora una consapevolezza di un pensiero; c'erano questi corpi, queste vite che si incontravano, si parlavano, ma che ancora non avevano un'elaborazione (non dico compiuta, perché compiuta non si ha mai) però definita (Rosa Tavella)


La pratica dell’autocoscienza trasforma la stessa casa, simbolo della tradizionale oppressione e isolamento femminile, in uno spazio politico e di elaborazione della propria soggettività. Risulta tuttavia difficile, anche a distanza di anni, comunicare il senso e la sostanza dell’autocoscienza, che diventa anche disagio, incomprensione, solitudine. Soprattutto, è intraducibile dalla sua stessa pratica.

Il percorso del Collettivo evidenzia la grande contraddizione tra lavoro esterno e interno, tra autocoscienza e pratiche indotte fuori. I due poli della contraddizione si potrebbero definire la ricerca di sé, la ricerca di una nuova identità femminile - individuale e collettiva - altra rispetto alle definizioni della donna da parte della cultura maschile, e l’affermazione dell’esistenza sociale delle donne. E in seguito, è proprio la differenza fra donne che non si riesce a gestire, soprattutto quando non si caratterizzano come fertili diversità, ma come vere e proprie disuguaglianze (ad esempio il possesso di strumenti culturali, che l’appartenenza al gruppo non può facilmente eliminare):


Sai, poi tra le donne c'è stata tantissimo questa dimensione del problema del potere: siamo tutte uguali, siamo tutte dello stesso gruppo, siamo tutte donne, poi il problema di chi parla meglio, di chi è più intellettuale...i gruppi si sono spaccati per questo...Da noi è successo questo (Donatella Barazzzetti)


Il rapporto fra l’UDI e il Collettivo risalta nella sua ambivalenza attraverso il ricordo delle protagoniste. Da un lato descrizioni che, da entrambe le parti, sottolineano le difficoltà di comunicazione, gli approcci diversi, se non l’ostilità che hanno accompagnato i due gruppi:


Qui c'era qualche gruppetto femminista; abbiamo cercato di avere qualche incontro, ma c'era uno sbilanciamento, perché erano gruppetti che non avevano una maturazione politica; erano gruppetti costruiti su slogan, senza approfondimenti, con atteggiamenti non di apertura, di riflessione di aggregazione, ma un po’ arroganti, poveri dal punto di vista dell'elaborazione. Al contrario dell'UDI non c'era stata in questi gruppetti, un'elaborazione culturale. Erano gruppetti minimi comunque; noi tentammo di avere qualche rapporto, ma non era stato felice l'incontro, restavano delle riserve. Anche perché, su alcuni di questi gruppetti, c'erano elementi che non erano elementi prettamente femministi; erano collegati ad altri gruppi politici come Lotta Continua, Potere Operaio, e tentavano di utilizzare questi gruppi femministi. Il discorso è molto complicato: erano sedi dove c'erano state delle infiltrazioni, ed io avvertivo questo, avevo colto questo elemento e quindi ero un po' guardinga, nel senso che non ero disponibile (Annamaria Longo)


I primi mesi del '74, in rotta di collisione con l'UDI, che era forte a Catanzaro, Annamaria Longo, che era ancora su posizioni totalmente legate alla questione femminile, il Partito Comunista, ci consideravano...però noi eravamo un gruppo...eravamo militanti politiche che avevano scoperto il femminismo, almeno in quelle che erano le linee...cioè non avevamo niente a che vedere con le femministe di origine radicale, con le femministe del tipo Tatafiore, oppure con Carla Lonzi per intenderci, che avevano più un problema di definire il femminile rispetto al maschile, e di dare un fondamento teorico al problema della differenza [...] C'erano stati rapporti, ma di conflitto, al limite del picchiarci quasi. Perché loro comunque erano delle persone che ragionavano in termini partitici. Prima veniva comunque una lealtà. Il problema si poneva anche per noi, però era molto più sfumato: il nostro non era un problema tanto di appartenenza a un gruppo, ma di strategie di trasformazione del mondo. Bisogna fare o pensare? Mentre, nel caso dell'UDI, il problema era di una doppia lealtà, di un'appartenenza specifica che era quella partitica. E se il partito dava certe indicazioni sull'aborto, su questo o quell'altro, non c'era modo di schiodarle. Era proprio questa idea che loro fossero in qualche modo subordinate a una dimensione...loro ci odiavano, le femministe borghesi erano sostanzialmente contro la lotta di classe, il soggetto della trasformazione non sono le donne. […] L'UDI si scioglie, e decide di riorganizzarsi autoconvocandosi come movimento, che poi c'è tutto questo passaggio nella seconda metà degli anni '80 di una parte molto rilevante di intellettuali dell'UDI e del Partito Comunista al pensiero della differenza (Reti, per esempio, Boccia, tutte queste qui, non solo dell'UDI, ma tutto questo fermento del Partito Comunista) e che tenta di rovesciare all'interno del partito la visione del mondo, introducendo il punto di vista della differenza di genere. L'UDI secondo me fa un percorso un po’ diverso; le militanti del partito tentano di fare questo, l'UDI come struttura solo di donne si scioglie e, secondo me, si riorganizza da un punto di vista di movimento, quindi produce una rottura nei confronti dei partiti, considerati espressione del maschile. […]L’UDI, rompendo in questo modo, trasla, anima e corpo, nelle fila del più sfegatato femminismo, perché in fondo loro scoprono, a loro volta, in quegli anni, che cosa significa essere delle donne; paradossalmente, scoprono la diversità femminile. Quindi, in parte può essere stato strumentale, ma in parte, secondo me, loro hanno fatto un percorso, per così dire, posticipato, di quello che noi abbiamo fatto negli anni '70 (Donatella Barazzetti)


D’altro lato, e simultaneamente, la ricerca di percorsi che si incrociano e si separano, hanno difficoltà nel comunicare ma non sono irrimediabilmente ostili:


I rapporti con gli altri gruppi...Mi ricordo solo un 8 marzo che abbiamo fatto insieme alle ragazze del Collettivo. Mi ricordo che una persona mi chiese cosa ne pensavo ed io dissi quanto mi sembrasse giusto. Io non sono per la frattura del movimento, non lo sono mai stata. Anche nella politica rappresentativa, se non andiamo compatti, insieme, (anche discutendo, bisticciando) non approdiamo a nulla.. mi rendo conto che ci sono dei punti fermi, ma ci sono delle cose che sono più importanti.

E come è andato questo 8 marzo?

Benissimo. Ci siamo divertite tutte. Abbiamo ballato, mangiato i dolci che avevamo preparato.. ricordo questo, non ricordo altro. L'abbiamo fatto in piazza...oltretutto, invece di essere le solite donne di una certa età (perché eravamo giovani, ma non giovanissime) avevamo tante giovani, che non erano soltanto le 'figlie di', ma anche persone che erano del Collettivo. Io lo ricordo con piacere quell'8 marzo, questa festa con tante giovani donne (Delia Fabrizi)


Nel Collettivo, visitandolo, c’era sicuramente un altro clima, più giovanile e spigliato, però mi era sembrato che i problemi fossero affrontati in quanto calibrati si di sé, sulla propria appartenenza generazionale, sulle proprie vicende affettive, ecc. E, paradossalmente, pur essendo giovane, mi sembrava insufficiente questo discorso; io avevo bisogno di una realtà in cui incontrare donne di altre età, di altre formazioni, di altre provenienze, anche di altre classi sociali. Perché pensavo – e sono tornata su questa posizione oggi – che solamente collocandoti in uno scenario ampio, strutturato, con una grande progettualità collettiva, tu puoi anche (seppure in forma mediata, indiretta) trovare delle risposte per te, e anche una tua progettualità. Laddove invece misurarsi troppo su di sé è un piano che ti apre prospettive nuove, ti dà pure più forza e più coraggio lì per lì, però tutto diventa…come dire…funzionale e subalterno alla temperatura relazionale e affettiva del gruppo; ecco, questa è una cosa che non volevo mettere in conto come possibilità; dovevo trovare un’istituzione (allora non la chiamavo così), un’organizzazione che ci sia anche indipendentemente da me e dal tipo di apporto e coinvolgimento che posso dare […] Col Collettivo [i rapporti] devo dirti che sono stati, per quello che io ricordo, nel complesso buoni perché c’era la questione dell’aborto…non è che non ci fossero delle occasioni di confronto. Sicuramente poi, come è successo anche altrove, tu notavi…non dico la diffidenza, ma la difficoltà di queste donne a rapportarsi con quello che sentivano una struttura, un’organizzazione, un’istituzione. E quindi c’era questa riserva mentale, forse più da parte loro che da parte nostra, perché da parte nostra c’era pure una curiosità nei confronti del femminismo, anzi l’XI Congresso, quello che destruttura l’UDI, è stato proprio perché riteneva che il femminismo avesse delle proposte, delle modalità di relazione che fossero così promettenti, così feconde, da far pensare alla necessità di farsi trovare non irrigidite in strutture gerarchiche ormai consolidate. Quindi c’era una grossa aspettativa, apertura di credito. Forse quello che noi trovavamo era, di fatto, che poi il Collettivo si dovesse misurare di volta in volta su problemi che non avevano questo respiro…che non potevano riguardare persone che invece noi avevamo sotto gli occhi […]loro ti davano questi strumenti facendo sapere che…lavoravo anche in altri contesti, ma lì tu eri padrona di ricevere, di acquisire gli stessi strumenti e di usarli, di gestirli, per quello che volevi fare tu, che volevi essere tu. Un’Altrove ipotetico, che non era magari nemmeno prefigurato, però tu sapevi che avevi la possibilità di aggancio con una realtà politica, con un’etica collettiva, con una dimensione collettiva che la tua dimensione invece, tutto sommato di studentessa e giovane insegnante borghese, non ti avrebbe concesso in nessun altro modo, se non attraverso la mediazione…che però a quel punto era un po’ troppo, come dire…esigente, di un partito, che ti avrebbe cambiato totalmente la tua fisionomia, però non ti lasciava nemmeno la possibilità di decidere in che modo volevi stare dentro la politica. Ecco, questa è stata la cosa che secondo me ha creato questo impatto fortissimo dell’UDI in generale nella realtà italiana, e in particolare qui a Catanzaro; perché era un modo per avvicinare donne di varia estrazione e di varia provenienza attraverso una progettualità, era un luogo mediato, era un luogo in cui tu dovevi affrontare dei problemi. Non ci si rapportava senza diaframmi, ma questi diaframmi costituivano anche il legame con cui tu potevi realmente rapportarti a tu per tu con donne che non avresti mai incrociato se non attraverso relazioni che magari non appartenevano al disegno che volevi dare alla tua vita. (Annalisa Marino)


Noi ci sentivamo più avanti...eravamo, rispetto alle donne dell'UDI, più giovani, più radicali, perché come collettivo femminista facevamo l'esperienza della nuova sinistra, quindi legavamo insieme le due cose. Eravamo, tra virgolette, più 'estremiste', rispetto alle donne dell'UDI che consideravamo emancipazioniste, perché soprattuto in una prima fase è stato così, poi l'UDI è stata molto toccata dal pensiero della differenza, e quindi c'è stata un'altra fase, però la prima fase...Diciamo che ora, rivedendola con gli occhi di oggi, penso che da parte di nostra c'era una sorta di ribellione a quelle che erano state le madri, quindi il rifiuto di quella libertà femminile che era soprattutto libertà di movimento, di reddito, di lavoro, ma non di pensiero, di organizzazione della vita. Però c'era anche un po' di ingratitudine, perché in fondo, invece, loro ci avevano aperto una grande strada, e forse le donne dell'UDI, in quella prima parte, non seppero molto parlare con i Collettivi. Però non ci fu la stessa distanza, la stessa dicotomia, che ci fu per esempio tra Partito Comunista e gruppi della nuova sinistra, fra cui ci fu una cesura radicale. Invece, nonostante si ripetevano anche nelle generazioni e nelle appartenenze politiche più o meno lo stesso tipo di divisioni, però in qualche modo c'era più comunicazione, più trasversalità (Rosa.Tavella.)


Esistono anche esempio di collaborazione: nel caso del consultorio autogestito è proprio l’incontro sul territorio, e la contaminazione fra esperienze diverse, a gestire un luogo comune di aggregazione e organizzazione. Collaborazioni in netta contrapposizione con il passato, che caratterizzano, su particolari temi, questo momento storico:


In quegli anni [anni Sessanta] c'era una competitività e una chiusura...non si riusciva nemmeno a capire che poi, in fondo, si lavorava per un obiettivo che era comune, che era questa liberazione delle donne. Era prevalente l'aspetto ideologico, era prevalente l'appartenenza. […] [Negli anni Settanta] fu il fiorire dell'associazionismo, che ebbe un aspetto importante, perché consentì alle donne di stare insieme. E solo stando insieme, ribadendo, discutendo…Tante volte sembrava che questi movimenti fossero lontani dalla politica. Io non sono di questo parere, perché secondo me interrogarsi sui problemi del mondo, della società più vicina, dei problemi che ci riguardano, questo è già fare politica (Clara Sanginiti)


Negli anni Ottanta compare, evidente, una discontinuità con il passato. Mutano le pratiche politiche, ma cambiano anche le pratiche dei referenti esterni. L’UDI si trasforma e si avvicina al femminismo della differenza; nuovi gruppi nascono e si collocano in una dimensione classicamente istituzionale; d’altra parte, la crisi dei movimenti e della nuova sinistra produce un riavvicinamento fra gruppi di donne e forze politiche tradizionali, mediato dall’ingresso nel discorso pubblico della dimensione delle pari opportunità. La vicenda dell’UDI (l’abbandono della struttura organizzata) è coerente con la direzione di ricerca teorica assunta dalle sue militanti. La consapevolezza dell’inadeguatezza della struttura, come si era storicamente organizzata, innesca una dinamica trasformatrice che diviene irreversibile e che, tuttavia, proprio a partire dalla ricchezza di questa esperienza29, si esprime nella volontà di continuare a lavorare intorno al senso e alla forma della politica delle donne: «Si può pensare che nell’associazione sia venuta in crisi, a partire da un contatto tra donne che ha suscitato un rinnovarsi delle molteplici identità, e dall’approccio diverso alle forme della politica che si è registrato nei confronti del femminismo, una forma in sé del fare politica che ne ha compromesso l’identità complessiva, investendo la stessa organizzazione formale, e la ha «compromessa» ad un livello tale che il confronto tra le molteplicità delle identità delle donne ha spazzato lo stesso retroterra consolidato degli elementi fondamentali l’organizzazione, ne ha frantumato il principio di autorità e legittimizzazione, aprendo, nella maggioranza delle aderenti, interrogativi sullo stesso rapporto tra forma organizzativa storicamente consolidata, fini perseguiti e livelli di solidarietà espressi» (Rauty, 1988: 79).


Sono questi gli anni di massima visibilità sulla scena pubblica, e contemporaneamente dei conflitti più aspri fra gruppi, delle crisi e degli allontanamenti, dell’emergere di conflitti e tensioni fra donne che danno vita a nuovi gruppi, differenti aggregazioni che coinvolgono un numero sempre maggiore di donne. In questo scenario, alcune battaglie comuni, come l’abolizione del reato d’aborto, la libera scelta delle donne rispetto al proprio corpo e all’essere madri, la temuta nuova regolamentazione del corpo femminile. Questioni che uniscono nella riflessione, ma che rivelano inevitabili contraddizioni nella pratica e nelle scelte di campo.

La parabola dell’UDI presenta, nel ricordo delle protagoniste, caratteri ambivalenti. Una svolta per alcuni versi inattesa, per altri coerente con il percorso intellettuale e militante dell’organizzazione (Cfr. Cap. ???).


Un’altra modalità dell’UDI di Catanzaro, subito il coinvolgimento in funzioni di responsabilità direttive, quindi nel consiglio direttivo, e mi ricordo anche nella Segreteria provinciale dell’UDI: E quindi da lì io ho avuto modo di impegnarmi di più, di lavorare di più, e quindi anche la responsabilità di seguire…ecco, un’altra modalità di lavoro, perché veramente imparavi tutto…il discorso politico, lo stile di un volantino, il manifesto, le parole usate, l’ordine dei temi, l’agenda, tutto costituiva oggetto di attenzione e, a volte, di discussione; persino il colore, per esempio, di un manifesto. E quindi diventava una sorta di laboratorio di politica, in cui tutto convergeva a far arrivare delle motivazioni, delle letture, delle chiavi di interpretazione della realtà, in maniera assolutamente puntuale. E poi avevamo uno scenario di donne, le più svariate. C’era questa abitudine a fare volantinaggio nei caseggiati, quindi tu vedevi…andavi nei quartieri, ovviamente di periferia, vedevi degli alveari, delle donne da sole, che a volte erano proprio contente di poter parlare con qualcuno, di farle entrare, quasi mai erano diffidenti. Era una modalità di viversi i problemi più profondi senza poterli nominare, laddove invece adesso è il contrario, si può dire: il poterli nominare a volte non è stato accompagnato dal poterli riempire di contenuti più problematici; e poi c’è stata una cultura, un’informazione, che ha un po’ snaturato tante di queste chiavi di lettura. (Annalisa Marino)


I conflitti con il movimento femminista sono legati alla contrapposizione fra emancipazione e liberazione, che solo alla fine degli anni Settanta sono pensati come intrecciati dalle donne dell’UDI. L’aspetto che tutte le intervistate sottolineano è l’organizzazione gerarchica e verticistica che, coerente in un contesto di stretto rapporto con il PCI, diventa una trappola nel confronto con una realtà in evoluzione. Il rapporto che si riconfigura con il Partito Comunista è fortemente critico: sono messe in discussione tanto la struttura politico-organizzativa quanto il centralismo democratico e le pratiche gerarchiche. L’insofferenza per l’aspetto istituzionale culmina con l’avvicinamento di molte aderenti al pensiero femminista e si concretizza con l’XI Congresso del 1982, che aveva come titolo “La nostra politica e la liberazione”: «L’identità,l’autodeterminazione, il separatismo, la comunicazione fondano il nostro potere, che innanzitutto significa poter essere; poter realizzare cioè i nostri bisogni, i nostri desideri, i nostri progetti; esprimere la nostra politicità che non può prescindere da uno spazio e da un tempo costruito da noi e per noi» (Michetti, Repetto e Viviani, 1984: 467).

Nel ricordo delle intervistate aderenti all’UDI, tuttavia, questo processo viene ricostruito non in maniera meccanica e consequenziale, ma assume le caratteristiche di un percorso coerente con le specificità dell’UDI di Catanzaro e delle sezioni della provincia (Badolato, Lamezia, Soverato): una specificità che assume i tratti di un’indipendenza intellettuale, un’effervescenza che anticipa molti tratti della svolta successiva:


[Con il partito Comunista] è' stato un rapporto molto conflittuale perché questo movimento cresceva molto, e crescendo così tanto portava dentro elementi di autonomia forte. Quindi lo sforzo...faccio un esempio: noi avevamo il sindacato a Catanzaro, il sindacato scuola, ma anche lì – quando aprimmo la battaglia per queste maestre – ci rendemmo conto che c'erano canali privilegiato, canali non trasparanti. E quindi ecco lo scontro forte. Soprattutto la mia persona era diventata un personaggio d'attacco. Io ho vissuto la doppia militanza con grande sofferenza e scontro, soprattutto. Perché lo scontro, il conflitto, c'era. Ne avevo consapevolezza. Man mano che questo percorso andava avanti, io sentivo le donne molto pronte, e ancora di più vedevo questa organizzazione del partito maschilista, questo trincerarsi, questa paura del nuovo. Era proprio paura del nuovo, di questo scardinamento che il movimento portava […]Il conflitto c'era ancora, e non era solo qui. Era nazionale. L'UDI era nata come fatto spontaneo, ma collaborava col partito, prendeva fondi dal PCI. E allora noi andammo sempre di più, come impostazione nazionale, a liberarci da questa schiavitù dei fondi, quindi l'autofinanziamento, proprio per poter camminare con le nostre gambe. Su questo percorso forse siamo state un po’ troppo veloci, perché...l'aborto è stato nell'81, nell'82 noi decidemmo di sciogliere l'UDI. Avevamo teorizzato...e questo è stato a distanza di anni non un errore, perché il discorso era serio...Avevamo teorizzato che questa associazione, che aveva mutuato la sua organizzazione dal partito, dai partiti, era un'organizzazione piramidale e che non c'era nulla da fare: in questa organizzazione piramidale le donne copiavano il modello maschile, per cui bisognava cambiarla completamente, lasciare che i gruppi spontanei si organizzassero. Accadde questo, infatti a Catanzaro negli anni '83-'84 si fecero delle cose splendide, però poi non ha retto (Annamaria Longo)


C’era una specificità anche, in generale, rispetto al Sud, e alla Calabria in particolare. Perché nelle altre realtà si andava soprattutto per temi, molto organizzate ecc. Nella nostra realtà c’era, grazie ripeto a questa figura straordinaria che è stata Annamaria Longo, la volontà di calare tutto sulla libertà delle donne. Io ricordo che ho rasentato anche la questione dei consultori e degli asili nido, e mi ricordo che…come venivano affrontate queste cose? C’erano riunioni in cui la dirigente istruiva la questione, dava i termini della questione e mi è rimasta impressa questa cosa: attenzione – diceva – gli asili nido è chiaro che si fanno per i bambini, perché creino delle condizioni di socialità, d sicurezza di crescita, però ricordate che noi dobbiamo lottare per le donne, perché le donne hanno bisogno di liberare il loro tempo; anche per essere buone madri, in condizioni migliori, di maggiore fiducia e libertà rispetto al loto tempo. Quindi era tutto un lavorare per calibrare…non per dire “ci adeguiamo all’agenda del momento”, che spesso non era scelta da noi, era pure un discorso al quale a volte eravamo obbligate, laddove invece la grande questione che ci interessava era la relazione con la società maschile, la sessualità femminile, il progetto di sé, come le varie fasi della vita di una donna si potessero rileggere; era tutto un altro discorso. Quindi c’era questa forza dell’UDI di Catanzaro, che era anche numerica, ma anche di straordinaria capacità organizzativa, di straordinario impatto, c’era proprio il coinvolgimento di tantissime donne e tutte messe a lavorare con vari ruoli, con varie competenze, ma per creare una sorta di…non solo di impatto politico, ma anche di riferimento nella città. E non a caso questo funzionava, perché eravamo conosciute e riconosciute proprio dappertutto, c’era una apertura di credito straordinaria, e anche una grande possibilità di conoscere donne di altre formazioni – penso al CIF – con cui ti misuravi.[…] Le donne che erano già molto addentro nell’UDI, quasi tutte appartenevano ad altri partiti, soprattutto il PCI, e poi il Partito Socialista. Ovviamente non dissimulavano, ma né protestavano, esibivano, la loro appartenenza al Partito. Si sapeva che esercitavano la “doppia militanza”, così si chiamava, però avevano questa modalità nei confronti di chi veniva via via…mostravano come si fa politica in un luogo di donne, quali sono gli strumenti di cui dotarsi per fare politica e quale era la loro modalità di rapporto nei confronti del Partito. Spesso era critica, senza per questo giudicare la loro appartenenza, la loro voglia di misurarsi su altre cose. Quindi, io perlomeno mi ricordo, avevo questa netta sensazione che intanto mi facevano vedere come si lavorava, come si impostava un problema, e per me è stata un’esperienza importante perché, in fondo, ancora oggi, se ho una grande passione politica, non è perché sono passata dal Partito, ma è attraverso la mediazione dell’UDI; laddove invece, quando ho rasentato contesti più connotati politicamente, se non proprio di partito, spesso ho vissuto…non dico con disagio perché non è vero, ci sono stati sempre momenti di confronto, ma con una sorta di pigrizia, di stanchezza, sentivi che mancava qualcosa che fosse calibrato su di te, e non c’era neppure la progettualità che perlomeno un partito dovrebbe possedere. Ecco, loro ti davano questi strumenti facendo sapere che…lavoravo anche in altri contesti, ma lì tu eri padrona di ricevere, di acquisire gli stessi strumenti e di usarli, di gestirli, per quello che volevi fare tu, che volevi essere tu. Un’Altrove ipotetico, che non era magari nemmeno prefigurato, però tu sapevi che avevi la possibilità di aggancio con una realtà politica, con un’etica collettiva, con una dimensione collettiva che la tua dimensione invece, tutto sommato di studentessa e giovane insegnante borghese, non ti avrebbe concesso in nessun altro modo, se non attraverso la mediazione…che però a quel punto era un po’ troppo, come dire…esigente, di un partito, che ti avrebbe cambiato totalmente la tua fisionomia, però non ti lasciava nemmeno la possibilità di decidere in che modo volevi stare dentro la politica. Ecco, questa è stata la cosa che secondo me ha creato questo impatto fortissimo dell’UDI in generale nella realtà italiana, e in particolare qui a Catanzaro; perché era un modo per avvicinare donne di varia estrazione e di varia provenienza attraverso una progettualità, era un luogo mediato, era un luogo in cui tu dovevi affrontare dei problemi. Non ci si rapportava senza diaframmi, ma questi diaframmi costituivano anche il legame con cui tu potevi realmente rapportarti a tu per tu con donne che non avresti mai incrociato se non attraverso relazioni che magari non appartenevano al disegno che volevi dare alla tua vita (Annalisa Marino)


La ‘doppia militanza’, il disagio di far convivere l’esperienza politica (la ricerca dell’uguaglianza’) con le tematiche della differenza, emerge come situazione dolorosa e carica di contraddizioni. Una contraddizione che sembra sciogliersi quando l’UDI decide di eliminare il verticismo, scegliendo la strada dell’autoconvocazione, lasciando la libertà a riunirsi alle donne che desideravano continuare un percorso su alcune tematiche specifiche. Una contraddizione che tuttavia appare speculare a quella che affrontano le donne che decidono di perseguire la strada dell’emancipazione, e che per questo tralasciano la dimensione della soggettività. Il conflitto è nella stessa teorizzazione politica dei femminismi, fra la visione egalitaria e rifiuto del modello emancipativo per la ricerca di un’autenticità fondata in se stesse e nel rapporto con le proprie simili. Un conflitto risolvibile, nelle parole di Maria Rivera Garretas: «Da una parte il femminismo dell’uguaglianza e dall’altra il femminismo della differenza. In realtà esse si contrappongono a torto perché il contrario di uguaglianza è diseguaglianza, non differenza. [...] Entrambe le proposte teoriche e politiche, quella dell’uguaglianza e quella della differenza, hanno come obiettivo la libertà delle donne. Una intende questa libertà in termini di liberazione della donna nella eterorealtà della persona umana, del regime dell’uno, l’altra cerca la libertà femminile in un mondo che operi nel regime del due [...] Sono due opzioni politiche e simboliche che nascono in luoghi diversi e desiderano arrivare a luoghi diversi» (Rivera Garretas, 1998: 56; 132-133)30.


Io ho vissuto la doppia militanza con grande sofferenza e scontro, soprattutto. Perché lo scontro, il conflitto, c'era. Ne avevo consapevolezza. Man mano che questo percorso andava avanti, io sentivo le donne molto pronte, e ancora di più vedevo questa organizzazione del partito maschilista, questo trincerarsi, questa paura del nuovo. Era proprio paura del nuovo, di questo scardinamento che il movimento portava. Poi nel '72 ci sono state le alluvioni in Calabria, e lì l'UDI entrò nel vivo di un rapporto con tutte le persone che erano state alluvionate. Organizzammo a Valle Fiorita una distribuzione di pacchi...fu una parentesi un po' più assistenzialista, per l'emergenza, e che tuttavia servì all'UDI per estendere i suoi rapporti, i suoi collegamenti. Il profilo era sempre quello di quale aiuto dare alle donne, rapportarsi a loro e alle loro esperienze. Intanto crescevano gli impegni, temi più innovativi, il periodo '72- '73, i consultori. Lì ci fu la svolta vera, delle tematiche...perché per la prima volta, con i consultori, si parlò per la prima volta non solo della conquista dei servizi primari, ma si cominciò a discutere di tutta la tematica della sessualità (Annamaria Longo)


L’UDI sceglie di percorrere la strada della differenza, riannodando le trame di quello che, negli anni Settanta, era stato un duro conflitto generazionale. Molte intervistate, in particolare, sottolineano il carattere innovativo di alcuni temi affrontati in questo periodo, in particolare, l’attenzione verso un tema divenuto in seguito caro al movimento delle donne: il seminario “Perché la madre: ipotesi del “rapporto madre e figlia”, tuttavia, è l’ultimo lavoro dell’UDI di Catanzaro:


Già negli anni settanta noi a Catanzaro facevamo delle cose che erano al di là della “politica UDI”; in parte diverse dai temi che si stavano trattando a livello nazionale. Sono state cose sempre più interessanti. Non ricordo gli anni precisi, però la Libreria delle Donne di Milano, con il primo Sottosopra, quello sulla psicoanalisi..sembrava dire il fallimento – nella testimonianza di alcune di loro – del femminismo che conoscevamo.. Ricordo un seminario in cui intervenne Renate Siebert, sul femminismo e l'autocoscienza e su questo fallimento. [L’UDI di Catanzaro] non era una “cinta di trasmissione del PCI”, detto come va detto e come era invece in altre parti d’Italia. Poi è chiaro..eravamo di sinistra. Per questo ad un certo punto forse c'è stato anche facile l'XI Congresso, tante di noi lo avevamo già dentro (Delia Fabrizi)


Avevamo partecipato intensamente al X° e all’XI° Congresso Nazionale dell’UDI, il femminismo ci aveva contaminate tutte, dai vertici alla base, e la struttura era ormai inadeguata: da movimento di emancipazione per le donne eravamo diventate movimento di liberazione delle donne. Non più deleghe nè rappresentanza, ognuna rappresentava solo se stessa e al massimo, autoproponendosi, si assumeva la responsabilità della gestione di un’organizzazione storica che dalle partigiane fondatrici aveva per oltre trent’anni aggregato donne di ogni estrazione sociale (Assunta Di Cunzolo)


Paradossale, per alcune intervistate, appare lo sfaldamento dell’UDI di Catanzaro appena qualche anno dopo, quando diventa un’organizzazione politica delle donne, anziché per le donne, come se “le parole per dirlo”, nel momento in cui diventano rumorose, lascino lo spazio al silenzio. Parole che, senza dubbio, non lasciano una traccia fisica. Alcune risposte rispetto all’assenza di tracce scritte suggeriscono una riflessione più generale sulla trasmissione della storia del femminismo: non si dava valore alle cose che si facevano; non si volevano lasciare segni (verbalizzare, archiviare, mettere tutto in ordine) come si procedeva nelle organizzazioni maschili; il rifiuto di pensare la storia in generale, quando l’interesse era sulle storie individuali. Sicuramente la ‘fatica’, e il disagio, di rinchiudere e limitare, in un solo racconto o in una sola definizione e interpretazione un’esperienza così intimamente connessa alle esistenze individuali:


Dopo l'XI Congresso abbiamo realizzato una serie di iniziative..(.l'XI Congresso è quello che ha destrutturato il verticismo nell’UDI) e abbiamo fatto corsi e percorsi molto interessanti, di cui purtroppo, con la superficialità con cui troppe volte noi donne consideriamo i lavori che facciamo, non abbiamo pubblicato gli atti. E questo lavoro era su Virginia Woolf, su Adrienne Rich, su Edith Warton e poi, in seguito, il gruppo rimasto ha lavorato per realizzare l'ultima parte del progetto, che abbiamo intitolato “Perché la madre?” Ipotesi sul rapporto madre-figlia.” Era uscito il sottosopra verde con il documento (della Libreria delle donne di Milano) sull'affidamento, su cui abbiamo molto discusso a Catanzaro. Quando io sento parlare di autorità e affidamento sto male, ma questo è un mio problema personale. Però ricordo anche che discutevamo di separatismo, l’emancipazione era un discorso noto tutto sommato, perché la maggior parte di noi eravamo o insegnanti, o professioniste, eravamo già 'emancipate', si diceva all'epoca, quindi il tema della “liberazione” poteva prenderci un po’ di più – anche se poi, abitando a Catanzaro, era molto più complicato il tutto! Ed era più complicato vederlo dentro noi stesse. Ritengo che è uno dei motivi per cui poi noi abbiamo lasciato perdere...Il seminario sul rapporto madre-figlia aveva aperto una falla in ognuna di noi; eravamo nell'85, in epoche molto 'primitive'! […] Secondo me noi eravamo già nella destrutturazione. E' chiaro che non lo sapevamo. Cosa significava esattamente destrutturazione? Però anche forse chi teneva il potere non ha saputo capire certe cose. Secondo me c'è stata proprio una debacle relazionale. Finiti i ruoli è come se...fossimo scoppiate. Io l'ho provato sulla mia pelle, ricordo di aver avuto da ridire, in maniera anche piuttosto pesante...Non una questione solo di rapporti, perché i rapporti c'erano, ma sulla valutazione delle scelte, che avevo fatto da sola, senza influenze o giudizi che potevano venire dall'esterno (Delia Fabrizi)


Ai congressi avevamo anche noi votato per demolire l’UDI come struttura verticistica -lo slogan era ‘meno organizzazione, più movimento’- ma, dopo il XII° congresso (fu la prima autoconvocazione?), che io sappia, non ci riunimmo più nel circolo di Soverato. Forse la lettura del Sottosopra Verde, forse la convinzione che tutto appartenesse ormai al passato senza prospettive e senza speranza, forse la stanchezza, forse non reggevamo più il conflitto all’esterno ma soprattutto all’interno. Non ricordo con precisione…ma, se avevamo bene imparato ad attivare antagonismi e mediazioni all’esterno, non eravamo ancora pronte o, meglio, non avevamo gli strumenti per imparare a gestire i conflitti tra noi; sapevamo solo soffrirne oppure godere dell’attacco all’altra oppure sottrarci andando via. E, alla fine, non tutte insieme ma ognuna andò via. Dopo qualche anno anche l’UDI di Catanzaro interruppe ogni attività, tra le ultime ricordo il convegno su “Cambia il modo di vivere perché cambia il modo di lavorare” concluso con una pubblicazione e un seminario su Virginia Wolf. Probabilmente era il 1984/’85 (Assunta Di Cunzolo)


Molti in seguito, negli anni successivi, hanno pensato che l’UDI si fosse sciolta; ancora adesso qualcuno sostiene che nell’82 l’UDI si è sciolta. No, l’UDI si è destrutturata, ha fatto un enorme gesto che molti hanno considerato come anticipatore; ha completamento reciso i suoi legami di dipendenza economica con il PCI; riceveva infatti un finanziamento dell’ordine di circa 80 milioni l’anno, ha rinunciato, e ha questa decisione hanno partecipato, hanno detto sì, donne che vivevano…erano funzionarie dell’UDI, con stipendi che venivano pagati anche grazie a questo finanziamento del PCI. Hanno votato per lo scioglimento, e quindi per la loro disoccupazione. Quindi è stato un atto di coraggio straordinario, proprio come ultimo segnale di un processo di autonomia nei confronti del partito che era iniziato molti anni prima, e che con la questione del divorzio e dell’aborto si era reso manifesto, perché tu sai benissimo che all’interno del PCI, sia nei confronti del divorzio prima, che dell’aborto, c’erano delle freddezze, delle diffidenze, riserve mentali (Annalisa Marino)


Si scioglie perché....Qui ci sarebbe da approfondire...forse non l'ho mai voluto approfondire. Il problema è questo: non c'è più il riferimento romano, siamo sole. Ma non era questo, perché qui c'era proprio una vivacità culturale molto avanzata, molto all'avanguardia. Questa vivacità culturale aveva questo limite, che è un limite anche mio, personale: io ho precorso i tempi, ed era difficile trascinarsi dietro le altre. Questa corsa avanzata è stata una caratteristica fino all'84. E' un limite mio, credo di essermelo portato sempre dietro: un precorrere i tempi, con intuizioni politiche giuste, non sbagliate, che tuttavia deve aspettare la maturazione degli altri, altrimenti vai avanti da sola, e non hai gli altri che ti seguono, ed è difficile portarsele tutte. Era stata una fatica grossa, però c'era la gratificazione di arrivare...Io invece nell'84 vedo che il gruppo dirigente mi mette sotto accusa; la mia sensazione è stata questa, come l'ho vissuta io. Mette sotto accusa non l'elemento che andava avanti, ma l'elemento che poteva bloccare le iniziative delle altre […] Questo gruppo grosso, vasto – ognuna aveva delle capacità, delle qualità, insieme si faceva sistema, si produceva un impatto...Secondo me ci fu...oppure il percorso era già consumato. Alcune pensavano di poter raggiungere posizioni di potere. Conclusione invece è stata che io, di punto in bianco, mi alzai, sbattei la porta e andai via, lasciando tutto là. Passarono forse due mesi, tre mesi, e non furono capaci di andare avanti. Questa è la lettura che io dò. Io non ho voluto neanche liquidare...altre – non so neanche chi - fecero la liquidazione. Forse (non lo so), probabilmente avrò sbagliato anche io; però mi ero stancata. Evidentemente sono stata investita da questa velleità – perché erano velleitarie queste ambizioni – e ne capivo il velleitarismo, ma non ho avuto la forza di resistere, di mediare, di farli maturare. Ero stanca, e quindi lasciai (Annamaria Longo)


Manca completamente esperienza UDI Soverato: consultorio (il primo ad essere istituito in Calabria con gestione al femminile e per affermare il concetto di autodeterminazione della donna a partire dalla sessualità, ancora oggi indigeribile dal patriarcato) e centro legale, credo il 1° in Calabria aperto nel 1982 e completamente autogestito (senza finanziamenti pubblici e con rapporti con Lagostena Bassi, quella dei delitti del Circeo, di cui si è recentemente riparlato a proposito di Izzo e i suoi nuovi misfatti; puoi trovare il materiale che ti serve nel mio racconto oppure nei documenti che ho dato a Maria Marino). Pensa che martedì scorso (7 marzo), in un incontro a Lamezia, organizzato da Rosa Tavella e con la presenza di Lo Moro e i suoi dirigenti sanità, è stato riconosciuto pubblicamente il ruolo dell’UDI alla fine degli anni ‘70 nel territorio del soveratese dall’attuale direttore generale, dal momento che –detto testualmente- è l’unico comprensorio della provincia dimensionato per numero di consultori esistenti: 4 (a Soverato, Badolato, Chiaravalle, Girifalco) su una popolazione di meno di 80.000 abitanti, attribuendo il dato alla positiva conflittualità del movimento con le Istituzioni.


Al di là dell’esperienza dell’UDI di Catanzaro, è necessario sottolineare l’importanza e il significato politico e simbolico di un gesto destinato a ripetersi. Dalla condivisione di spazi neutri, si passa alla creazione e alla scelta di spazi femminili autonomi. Da un lato quindi i gruppi di presa di coscienza, dall’altro le migliaia di donne che scendevano nelle strade, mettendo in discussione le relazioni di genere esistenti, i tradizionali ruoli nella famiglia e nella società. L’esperienza personale viene legittimata come fonte di conoscenza, mentre crolla definitivamente la divisione fra sfera pubblica e privata. Non è più in questione l’estensione della cittadinanza alle donne, ma la costruzione di nuovi luoghi che assumano rilevanza collettiva.

Il “Centro Donna Lilith” nasce nel 1988 per creare, a Lamezia Terme un luogo privilegiato di relazioni tra donne. E’ una sinergia fra elaborazione teorica segnata dal pensiero della differenza e istituzioni locali: a seguito del finanziamento concesso dalla Regione Calabria (Progetto Donna), infatti, viene aperto l’ufficio di consulenza e assistenza legale, che comprende la costituzione di parte civile nei processi penali ed altre iniziative a tutela dei diritti e degli interessi delle donne. Il Centro Donna Lilith si propone di “creare, potenziare e diffondere una cultura basata sul rispetto della persona e della dignità umana per una migliore qualità della vita e per favorire lo sviluppo culturale sociale e politico della realtà donna”, attraverso una vasta comunicazione tra donne che rafforzi la consapevolezza del proprio portato culturale e che favorisca la trasmissione nella società dei valori della cultura femminile. L’attività del Centro infatti si svolge anche sul piano culturale, oltre all’assistenza legale:


Teresa Barberio è stata la fondatrice del centro Lilith a Lamezia, che nasce con un fortissimo impulso organizzativo. Stiamo parlando della fine degli anni '80. E' stato importantissimo, perché al di là del discorso dello stare insieme, noi abbiamo dato vita ad un ufficio gratuito di assistenza legale alle donne, e per la prima volta, secondo me, si è cominciato a parlare di solidarietà femminile e non in termini di solidarietà, di carità, nell'ambito di quelle iniziative che comunque vengono svolte anche da enti religiosi, oppure come discorso emancipatorio, ma proprio come discorso di solidarietà, di condivisione con altre donne. Se vuoi, ci siamo anche molto lanciate in un discorso di questo genere, ci mettevamo anche a rispondere al Telefono Rosa – che avevamo inventato noi – nel senso che, senza neanche competenze specifiche, però stavamo a raccogliere le denunce che ci venivano dalle donne; e poi abbiamo contattato le avvocatesse – cercavamo soprattutto delle donne – che potessero dare assistenza legale in modo gratuito, e siamo riuscite a tirare fuori un paio di donne. Poi abbiamo fatto anche dei dibattiti, abbiamo invitato Renate Siebert fra le altre, sull'episodio di Rosetta Cerminara, quindi ci sono state delle iniziative pubbliche. E poi è stato importantissimo il Centro Lilith perché, in quell'ambito lì, abbiamo scoperto il pensiero della differenza sessuale. Tieni conto che io, lavorando in banca – erano gli anni che avevamo i figli piccoli, e ce li portavamo dietro alle riunioni – a me capitò di andare ad un corso organizzato dal sindacato dei bancari e rivolto alle donne a Bologna, e lì ho avuto una fortuna pazzesca perché c'era Luisa Muraro. Quindi quando sono tornata ho portato tutto il materiale, e lì per me si è spalancato tutto un orizzonte nuovo come impostazione, e praticamente la sera, dopo cena, ci vedevamo nella sede del centro Lilith e leggevamo gli interventi di Luisa Muraro. Per poi leggere tutti i libri, rileggerli e commentarli. Questo è stato un passaggio decisivo e importantissimo per quanto mi riguarda (Loredana Rubino)


Il Centro Lilith aveva al suo interno donne molto diverse; donne che venivano dall'esperienza dei partiti, alcune con esperienza del femminismo degli anni '70, altre invece digiune completamente, che facevano nel Centro la loro prima esperienza politica. Questo naturalmente poteva essere anche un fatto positivo, però questa enorme diversità non è riuscita poi a costruire un gruppo che in qualche modo avesse una solidità di pensiero, di pratica politica. C'è stata tutta una prima fase, guidata molto da Teresa Barberio – che ne era la presidente – di grande entusiasmo, anche di grande aggregazione – perché poi era rimasta l'unica aggregazione politica fuori dai partiti che riuniva donne. Questa esperienza dell'ufficio legale è stata molto interessante, perché ha fatto venire le donne del Centro in contatto con esperienze anche abbastanza dure di violenza domestica, di violenza sessuale, di separazioni, di conflitti anche drammatici. E, tramite questa esperienza, anche la comunicazione con altri gruppi, tipo il Centro Lanzino, che si occupava più o meno delle stesse cose, anche se con un taglio un po' diverso. Finisce, io penso, perché c'era molta eterogeneità senza che ci sia stata la capacità di costruire gruppo. Poi c'è stata anche la difficoltà economica: non ci sono stati più i finanziamenti del Progetto Donna, quindi – siccome era tutto intorno all'ufficio legale – nel momento in cui i finanziamenti non sono più continuati, c'è stata questa difficoltà. Quindi, difficoltà politiche e difficoltà concrete...poi forse di storie personali, esaurimento di risorse... Teresa è andata via, non c'è stato un ricambio abbastanza autorevole, tanto da portare avanti questo tipo di esperienza (Rosa Tavella)


Dell’esperienza dei gruppi di donne precedenti, negli anni Novanta, sono via via scomparsi i caratteri principali: una sede, un luogo, uno spazio pubblico dove le parole diventano materia per capire sé stessi e per agire, dove discutere è costruire idee e progettare un futuro diverso. Poche le eccezioni, costruite attraverso esperienze che, da percorsi lontani e apparentemente incompatibili (le donne di Kore e della FIDAPA che si incontrano nell’esperienza della Biblioteca delle Donne di Soverato) si confrontano e danno vita a luoghi fisici e simbolici altri:


Non è stato facile. Da parte nostra...loro [della FIDAPA] non sappiamo cosa hanno pensato, perché non hanno l'abitudine al conflitto. Noi sì. Molte di noi hanno pensato che erano troppo borghesi, troppo perbeniste o altro, invece è stata un'ottima cosa. Abbiamo visto che erano delle donne intelligenti, capaci, che avevano voglia di....poi ci vedevano come se noi sapessimo tutto! Ci hanno riconosciuto un sapere. E' stato molto bello, senza invidia, sono state delle donne limpide. Adesso non mi più di parlare di “quelle di Fidapa”, per me sono le donne della Biblioteca. Non ha più senso questa distinzione. La Biblioteca nasce da questa idea che solo il sapere può affrancare; nemmeno affrancare, ma rendere liberi (Fulvia Geracioti)


Se parlare della propria storia non è facile, altrettanto difficile è descrivere il presente, soprattutto quando presenta caratteristiche ambivalenti e problematiche:


Le occasioni mancate forse sono tante. Per quello che mi riguarda, a un certo punto della mia esperienza politica – non so se è stato soltanto un limite soggettivo ma un limite anche del partito nel quale continuo a lavorare – non sono riuscita a ricostruire (io insieme ad altre) un collegamento fra le varie esperienze di donne, sia di quelle che lavorano in maniera singola, o all'interno di formazioni miste, sia quelle che mantengono dei gruppi di donne, come quelle della Biblioteca di Soverato, le donne dell'Università, il Lanzino; un collegamento che riuscisse in qualche modo a tenere in piedi – su tematiche o semplicemente sulla politica – l'esperienze che ciascuna di noi aveva vissuto. Questa è una cosa che ci penso sempre, mi dico: “Perché questa cosa non sono riuscita a farla?” Perché non riusciamo più a comunicare, a trovare dei momenti collettivi, come è successo...magari partendo da un tema specifico, o da uno generale, insomma una cosa qualsiasi (Rosa Tavella)


I fili delle parole, per molte intervistate, si riannodano negli anni Novanta (avviene alla fine anni ’80, quando è stato pubblicato Non credere di avere dei diritti), quando nasce il gruppo Kore. Kore cerca di ritessere un percorso che aveva visto le protagoniste vicine e lontane, assenti e contemporaneamente presenti nella vita delle altre. Un percorso che ha segnato, ferito, ha mostrato le difficoltà della trasmissione, la difficoltà del rapporto madre-figlia, ma anche l’importanza del partire da sé, dell’imparare a raccontarsi, del riconoscersi l’autorità per farlo, del trovare delle parole per dirsi l’importanza della soggettività. Nel gruppo Kore si inizia a leggere i libri di Diotima, si dedica un intero anno a L’Ordine simbolico della madre di Luisa Muraro: il libro viene letto, discusso, provoca conflitti. Ognuna delle partecipanti, negli incontri periodici, apre per sé e per il gruppo nuovi orizzonti in cui il desiderio di fare, di agire, diventa sempre più impellente:


Adriana Papaleo mi consigliò di leggere “Non credere di avere dei diritti”, appena prodotto dalla Libreria delle Donne di Milano. L’ho letto d’un fiato, era anche la mia storia, ed era tutta lì in quelle pagine e c’era anche altro, c’era quello che mi serviva per andare avanti. Così è nata l’idea di formare un gruppo per approfondire la storia del femminismo e per capire cos’era questa differenza, la disparità tra donne, la relazione, la mediazione possibile, il riconoscimento e la gratitudine, la relazione con la madre. Per prima ho consultato Maria Grazia e Delia, le antiche amiche udine. Si apriva così un’altra pagina, era una svolta. Finalmente cominciavo a capire qualcosa, a decodificare, decostruire e progettare. Insieme alle amiche del gruppo che si era formato, insieme a quelle che erano rimaste perché alcune sono presto andate via, abbiamo iniziato un nuovo percorso, ma forse era solo la continuazione. Dopo aver letto “Il pensiero della differenza” di Diotima nella sua prima edizione del 1987, abbiamo deciso di nominare il gruppo con il nome Kore. Alla fine, le donne rimaste per scelta erano quelle che si erano scelte; perciò, malgrado i conflitti che costantemente si accendevano, Kore continuò il percorso di riflessione e pratica fino alla realizzazione della Biblioteca delle Donne. Secondo me abbiamo scelto il nome Kore perché ci sentivamo già nella tensione di figlie in cerca di un percorso che consentisse a ciascuna una riconciliazione con la propria madre. In ogni caso per me è stato così. In una riunione del gruppo ho recuperato l’immagine dell’incontro domenicale di mia madre con la madre e le sue sorelle. Prima non ci avevo mai pensato, eppure erano causa di discussioni interminabili tra mia madre che non vi rinunciava e mio padre che non tollerava di esserne escluso (Assunta Di Cunzolo)


Il percorso di formazione e lo stare dentro Kore mi hanno permesso di rileggere l’esperienza passata alla luce di come io mi andavo trasformando; mi sono resa conto in realtà di come ero stata lontana da me come donna, nel senso che il mio essere donna, lo stare dentro un corpo sessuato, il pensiero che il mondo è fatto di generi, di uomini e di donne, questo nel mio orizzonte, fino a quel momento non l’ho avevo contemplato; e ho guardato tutto il mio percorso all’interno della politica, fino a quel momento, come una persona senza sesso o, comunque, consegnata a piene mani all’idea di questo partito-padre, con tutta la mentalità e le pratiche che c’erano dietro, e con poca coscienza di genere da parte mia. Abbiamo fatto un grosso lavoro dentro Kore; perché poi Kore è stato un laboratorio di idee, oltre che di pratiche […] La differenza generazionale non è mai pesata e poi non è neanche così grande. Forse avrebbe anche potuto esserci se quello che ci univa era magari rappresentato da altri interessi, però quello che ci ha unite è stato l'interesse attorno a questo dato fondamentale e fondante, che è il nostro essere e riconoscersi soggetto sessuato, col desiderio di costruire un luogo di pratiche e di pensiero a partire dalla nostra identità, per cambiare lo sguardo su noi stesse e sulla realtà che ci circonda. Allora, probabilmente, proprio perché l’interesse era questo, la differenza generazionale non è mai stata un dato rilevante nei nostri rapporti. Ricordo la passione dei primi anni, la passione della lettura – perché noi facevamo proprio questo; intanto eravamo un piccolo gruppo che era stato scelto da una donna, Assunta, sulla base di un progetto, di un desiderio, che avevamo condiviso. Il lavoro che facevamo, almeno nei primi anni, era quello di incontrarci quasi settimanalmente, di leggere, di discutere sulle letture fatte, e la cosa ci tirava talmente dentro, sia intellettualmente che come messa in gioco delle proprie vite personali, che probabilmente non c’era spazio per questo discorso della differenza generazionale. Perché comunque eravamo tutte figlie, infatti uno degli argomenti forti che abbiamo discusso è stato quello del rapporto madre-figlia, e lì eravamo tutte figlie. Intorno a questo rapporto c'è stata una grossa discussione all’interno di Kore, con una grande vivacità ed anche una non univocità di pensiero perché, pur riconoscendoci e avendo approfondito quelle che erano le teorizzazioni del pensiero della differenza a partire dai testi del gruppo Diotima e della Libreria delle Donne di Milano, che alcune condividevamo in pieno ( e io mi riconosco fra queste), altre tra noi, pur partendo e riconoscendosi in questo pensiero, ponevano delle accentuazioni e delle pratiche anche diverse. Rispetto a questo ci sono state delle discussioni intense, anche accese, nelle quali ho cercato di avere un ruolo di mediazione (politica, di relazione e anche di pensiero). E quel documento che c’è in Tempo di Marea, il documento di Kore, riassume quest’opera di mediazione, e cerca di costruire un percorso, un pensiero comune,rispetto a quelle che erano le nostre diverse posizioni, soprattutto rispetto alla discussione, che per un anno abbiamo fatto, sul libro di Luisa Muraro, “L’ordine simbolico della madre”. […] Di questi anni, ho il ricordo di un gruppo molto vivace, che poi a un certo punto ha fatto lo spostamento dal pensare fra noi all’apertura anche all’esterno. C’erano delle richieste che venivano da parte di altre donne esterne al gruppo che ci sentivano punto di riferimento, allora abbiamo organizzato una serie di seminari. (Maria Procopio)


L’esperienza ormai consolidata del rapporto fra donne porta al desiderio di moltiplicare i momenti di condivisione di vita e di lavoro, gli spazi dove incontrarsi, discutere, riflettere e vivere il patrimonio di riflessioni maturato negli anni precedenti: prende forma «una genealogia di donne, ossia un venire al mondo di donne legittimate dal riferimento alla loro origine femminile» (Libreria delle donne: 1987: 9). Alcuni desideri sono solo di un gruppo (ad esempio il desiderio della rivista, che ha visto alcune di Kore impegnate in Mediterranea e poi, in un secondo momento, in Tempo di Marea). Un gruppo descritto anche come conflittuale, in cui il conflitto arricchisce, fa crescere, trasforma:


In Kore, tra Delia e Fulvia si accendevano costantemente conflitti che allora mi sembravano guerre perché io ne uscivo distrutta; oggi so che sono l’esempio di come ci si può contrapporre con le idee senza offendere e senza distruggere ma crescendo insieme a dispetto delle reciproche e -forse o non forse apparenti- incompatibilità. Fulvia è sempre stata un vulcano di iniziative e una ‘scopritrice di talenti’. Patrizia Greto e Fulciniti, e Giovanna Veneziano, che ha portato in Kore, hanno avuto da lei ascolto, attenzione e incitamento a realizzare sogni, speranze, aspirazioni. Io credo che attraverso Kore – attraverso le altre di Kore- ciascuna di noi sia riuscita a trovare il modo per rendere possibile qualcosa per sé importante (Assunta Di Cunzolo)


E’ stata una grande palestra di gioia. Io ho imparato a portare avanti le mie idee, anche in contrasto con un’altra, ad ammirarle profondamente, a vederlo quasi come un gesto di stima il dissenso. Questo a me ha fatto crescere tantissimo, mi ha fatto passare la paura del dissenso, sempre però a motivarlo, a rispettare l’altro […]L'esperienza di Kore è molto bella, di orgoglio anche. Noi veniamo avvertite dalla popolazione...dicevano: quelle di Kore. Noi quattro gatte eravamo! Ma ne parlavano come se noi fossimo state un esercito. L'autorevolezza conta tantissimo. Ovviamente ne potevano parlare nel bene e nel male, però c'era sempre questa idea. Noi dicevamo: “noi di Kore...” e abbiamo sempre usato questo plurale in un modo bello, di assunzione. Oggi siamo tutte quante nella Biblioteca (Fulvia Geracioti)


La parola assume sempre più centralità, attraverso la pratica della lettura e della scrittura, che fa parlare il silenzio e assume carattere generativo:


Noi abbiamo letto di tutto e commentato tutto. Questa apertura è anche un segno della differenza, e anche questo è un segno della Grande Madre. Noi abbiamo preso sul serio le donne della Puglia, di Verona, di Roma (Luisa Boccia è venuta un paio di volte(forse non era Boccia???), noi le abbiamo prese sul serio. Le abbiamo riprese, le abbiamo portate da noi, le abbiamo ospitate, cosa c'è di più specifico di questo? Io lo vedo in questa capacità di accogliere pensieri diversi, di dargli ascolto, di elaborare i propri - a volte prendendo, perché no?, quando un pensiero ti convince diventa tuo -, in questo io vedo la nostra ricchezza. C'è ovviamente un altro pericolo, che diventiamo suddite...in che senso...ma forse adesso non più...Si diventa suddite di un pensiero pensato altrove. Le specificità, quando le vai a sviscerare, le vedi là dove nascono, diventano universalità. Non nel senso maschile, diventano 'larghe', diventano Madre, diventano Tempo di Marea [..] Adesso, guardando indietro, io noto che avevo un pensiero così lucido, così articolato, che avrei potuto fare…qualsiasi cosa al mondo. Trascinavamo noi la gente qui, non eravamo meno di nessuno […] Mi viene in mente Tempo di marea perché è un momento in cui sto leggendo Mary Daly, “le donne di marea come uccelli...”, che noi scriviamo all'inzio della rivista; e mi piace questa idea del tempo di marea perché mi riporta a questo respiro della terra, un'idea panica. E' stato un parto molto rapido, ci incontriamo 3 giorni da Assunta a San Vito e vengono donne della Puglia, tutte queste donne di cui mi ero circondata in questi viaggi...le invito e decidiamo di fondare Tempo di Marea. Ci sono delle differenze tra di noi. La mia scommessa è sempre quella di tenere insieme le differenze; con alcune ci riesco, con altre no. Alcune vengono da gruppi più strutturati che temono...non so se la confusione o altro. E comunque facciamo la rivista; cominciamo con un editoriale che sono gli editoriali, nel senso che riconosciamo che ognuna possa dire...lasciamo le pagine autogestite, lasciamo che ognuna si esprima per sé. A me è sembrata un'idea bellissima quella di utilizzare il nome delle madri, negletto. Siccome il cognome era comunque il cognome paterno, che fossero vive o morte noi diciamo il nome delle madri...io sono Fulvia Geracioti di Iolanda (Fulvia Geracioti)


Oltre alle parole, anche momenti e dimensioni di vita in comune che pongono la socialità e le emozioni al centro della scena. Si sperimentano attività e momenti di vita in comune, condivisione di vacanze e tempo libero:


Allora facciamo la prima settimana...il primo plenilunio tra luglio e agosto – molti mariti che sono divenuti amici vanno a fare trekking, mancano due-tre giorni – chiamiamo le altre...c'è la luna, ci mettiamo la Norma, un classico! Ci mettiamo la preghiera alla luna, beviamo...E' un momento di estrema felicità. Sono amiche di tutta Italia, vengono in particolar modo da Catania, da Firenze, da Roma, da Milano, a volte anche da Torino. Tra noi diciamo che da tempo vogliamo avere...non un'associazione, noi ragioniamo sempre in termini di gruppo, io ragiono sempre in termini di 3-4 persone (Fulvia Geracioti)


La scomparsa del movimento delle donne dalle piazze non coincide quindi con la sua fine, ma con una profonda trasformazione. Si riafferma attraverso lo studio, la riflessione, un diverso modo di rapportarsi alle istituzioni. Il desiderio di riprendere a fare politica si esprime, nei primi anni Novanta, con il progetto della Biblioteca delle Donne che diventa luogo politico innovativo, nel quale concretizzare l’esperienza della pratica dei rapporti tra donne in spazi collettivi in cui i tempi della politica, del quotidiano e dell’elaborazione teorica potessero intrecciarsi in un progetto comune. La Biblioteca nasce dall’esigenza di creare una rete tra saperi femminili, nella consapevolezza che non si costruisce conoscenza vera se non partendo da sé come corpi concreti, nel cercare anche tra percorsi individuali lontani fra loro per approccio intellettuale, esperienza storica e individuale, un filo comune che possa indicare una storia ed una collaborazione collettiva:


Qui, in questa specie di laboratorio politico, è stato possibile concretizzare l’idea Biblioteca delle Donne di Soverato, che nasce in Kore e viene realizzata in collaborazione con un numeroso gruppo di amiche della FIDAPA di Soverato. Era il 1992, Marisa Rotiroti da allora ne è la coordinatrice perché più di tutte ne aveva desiderato la realizzazione e la Biblioteca è alloggiata nel Palazzo di Città. La collaborazione tra le due associazioni così diverse tra loro sembrava una scommessa, eppure ancora continua e oggi per me Eva, Francesca, Anna, Lilly, Rosalba, Vanna, Tina e Paola non sono più le amiche Fidapa ma sono le amiche della Biblioteca con le quali condivido un percorso di oltre dieci anni insieme alle vecchie amiche di Kore; grazie al loro costante sostegno ho potuto affrontare con sufficiente serenità l’esperienza in contemporanea nel governo della Città (Assunta Di Cunzolo)


L’occasione è stata fornita da un dibattito pubblico sulle figure di Antigone e Ismene, che Lilly Rosso, Vanna Peronace, Francesca Lovecchio, Emanuela Pennacchi ed io (il direttivo di quegli anni) avevamo organizzato per l’apertura dell’anno sociale, con la condivisione di tutte le socie Fidapa. L’idea è nata dal seminario di Delia Fabrizi “Clitennestra e le altre”. Delia, ispiratrice del seminario – dibattito è stata, naturalmente, relatrice sulle figure di Antigone e Ismene e ci ha raccontato il suo incontro simbolico con queste due donne. E’ stata un’esperienza molto bella: gli interventi delle fidapine e korine hanno evidenziato un comune sentire, pur nella diversità dei percorsi individuali e politici. Il dibattito fervido e appassionato di quell’incontro e di quelli successivi, anche all’interno dell’associazione, mi hanno dato la sensazione che la nostra Fidapa fosse diversa dalle altre, anche un po’ anomala; un esempio: in Fidapa si discuteva di “Donne e Potere” nel movimento delle donne si discuteva di “Potere e Autorità femminile”. Le donne della Fidapa di Soverato discutevamo, ci interrogavamo e riflettevamo attraverso dei seminari tenuti da donne (era stata una nostra precisa scelta per valorizzare i saperi femminili: Renate Siebert – Lina Santoro – Fulvia Geracioti – Noemi Saggioli - Rosa Tavella – Maria Procopio- M. Caterina Iacobelli- Nadia Alecci) e sugli articoli della rivista “Tempo di Marea”. In un incontro aperto al pubblico “La donna e la città” (con Assunta Di Cunzolo – vice sindaco, Marika Caruselli, Fidapa, prima presidente della Provincia donna, Carmela Apollaro del Consiglio delle Donne di Firenze, Marisa Gigliotti, urbanista, si è discusso del giusto senso della politica intesa come possibilità di….e non come dominio – controllo (erano gli anni di Tangentopoli e c’era una grande voglia di cambiamento, che a Soverato si era verificato con il governo del Movimento “Pedalando Volare” guidato dal Sindaco Gianni Calabretta e Assunta vice - sindaco.). In quell’occasione feci la proposta, accolta, che nello Statuto del comune di Soverato venisse inserito il Consiglio delle donne. Era, in definitiva, una Fidapa aperta al pensiero della differenza, lo accettava e cercava di comprenderlo. Era già iniziato il nostro percorso insieme con le donne di Kore (Assunta Di Cunzolo, Fulvia Geracioti, M. Grazia Riveruzzi, Viviana Santoro, Delia Fabrizi, Maria Procopio, Teresa Ciaccio, Patrizia Greto) con le quali avevamo fatto il progetto Biblioteca e con le quali noi, le dieci donne della Fidapa che ci eravamo autoproposte per la gestione della Biblioteca (Lilly Rosso, Rosalba Aversa, Eva Winser, Angiola Alferazzi, Tina Alvaro, Vanna Peronace, Paola Nucciarelli, Anna Sia, Francesca Lo vecchio ed io, che facevo parte di entrambe le associazioni) ci riunivamo a discutere di temi che di volta in volta sceglievamo (potere e autorità – riconoscimento tra donne, – invidia e gratitudine – tema tratto dalla lettura del testo di Melanie Klein). Questa pratica di discussione tra di noi è stato il contributo che le donne di Kore hanno portato nella Biblioteca, mentre tutta l’organizzazione interna ed esterna della Biblioteca è stato il contributo portato dalle donne della Fidapa. Sono stati anni ricchi e fecondi di riflessioni e di incontri tra le donne delle due associazioni e con le donne delle istituzioni (Marisa Rotiroti)


Ho avuto rapporti abbastanza superficiali con varie associazioni femminili, ma il rapporto più intenso è stato, ed è, col gruppo Kore, perché insieme abbiamo costituito la Biblioteca delle Donne. Il nostro rapporto, piuttosto continuo, mi ha dato la possibilità di scoprirmi per assumere consapevolmente il mio ruolo tra loro e mi ha permesso di focalizzare l’inesauribile ricchezza dell’incontro/scontro, di evidenziare il profondo valore sia di una scelta critica, che della discussione su alcuni problemi per proiettarci insieme nel futuro, su orizzonti più vasti. Io penso che le due associazioni finora, Kore e Fidapa, abbiano lavorato bene, e in sinergia. C’è stato fra di noi, come all’interno della Fidapa, uno scambio continuo di idee, e, nella nostra eterogeneità, abbiamo saputo trovare una certa univocità, combattendo ogni individualismo per la parità dei diritti di ciascuna di noi. La cosa più bella e più proficua consiste che io non faccio nessuna differenza fra l’amica della Fidapa, fondata da me, e scelta nel gruppo molte volte da me, e l’amica del gruppo Kore, che mi sono ritrovata così per caso. Tutto questo grazie alla nostra comune intelligenza che ci fa superare, comprendere, e anche apprezzare l’amica che la pensa in modo diverso ma che, in un certo senso, ci invita a riflettere sul proprio pensiero e modo di essere e alla fine ci influenza in positivo. Il gruppo ha influito positivamente sul mio Io, perché mi ha dato quello che io non avevo o che non vedevo in me; mi ha invitato ad un’analisi più attenta e più profonda di me stessa (Francesca Lovecchio)


Cosa si ricorda degli anni precedenti? Sicuramente una profonda amicizia tra molte delle protagoniste; un’amicizia senza troppe indulgenze ma forte, un ‘sentimento’ più che una relazione, perché le esperienze quotidiane non vedono le intervistate (almeno non tutte) insieme:


Le nostre vite, a un certo punto, hanno portato ognuna di noi per una strada diversa, un percorso proprio, alla ricerca di un percorso proprio. Mantenendo, però, con la maggior parte, un rapporto affettivo, un legame affettivo, anche se non più una frequentazione; però il legame sì (Delia Fabrizi)


Molti successivi percorsi politici sono stato intrapresi nel proprio lavoro, nella propria quotidianità, in contesti a volte sorprendenti. I presupposti dei primi anni del movimento vengono a cadere (la mobilitazione collettiva, le relazioni con altri gruppi), ma rimane un punto di riferimento teorico e pratico all’esperienza vissuta, sia esso declinato nella vita professionale e politica, sia privata e sociale, come senso di appartenenza ad un patrimonio comune di impegno e di produzione intellettuale:


Adesso, insieme a Teresa, stiamo seguendo la rivista “Ore 11”. E' una rivista di spiritualità e antropologia, soprattutto è un percorso di consapevolezza di sé, c'è un discorso comune che riguarda la persona, dell'appropriarsi di se stessi. E' un percorso che è iniziato da 4-5 anni, il rapporto con le suore dell'Oasi Bartolomea di Lamezia Ho un po' di difficoltà a parlare di questo perché probabilmente non riesco...è talmente una cosa originale e nuova che mi sembra di non riuscire a trovare le parole per dirlo, perché c'è una laicità e un'apertura...Io sono non credente, almeno per ora, io e Gabriella siamo in un orizzonte assolutamente laico. Trovarci in questo ambito così straordinario per i temi che affronta - dal discorso politico sullo sviluppo sostenibile, al discorso sugli stili di vita - ci sorprende; anche perché poi là vai a trovare anche le cose dalle quali sei partita. Quando si parla di stili di vita diversi, e si parla di tempi lenti, e dei valori della cura, sono tutti temi che riguardano noi donne. Quindi io sono molto immersa in questo percorso. Questo gruppo che si forma presso l'Oasi Bartolomea è un gruppo tutto di donne, ma non è che è nato tutto di donne; era nato come gruppo misto e adesso sono rimaste le donne a parlare e a pensare e a prendere il passo del Vangelo e a commentarlo. Abbiamo avuto una teologa che ci ha dato moltissimo, senza parlare mai di Dio, ma parlando a partire da sé, quindi tutto quello che è la presa di coscienza su di sé, i limiti e la propria fragilità in relazione con gli altri. Questi sono solo dei frammenti che ti sto dando, perché è un'esperienza tuttora in corso. Non so dove andremo e comunque siamo su questa strada (Loredana Rubino).


Quando sei sopraffatta da esigenze di lavoro in un settore così delicato come quello dell’ospedale, è difficile avere una relazione di comprensione anche con le donne. L’esempio concreto: quando le donne si assentavano perché qui c’era una realtà economica particolare; le infermiere che venivano qui a lavorare avevano alle spalle una tradizione che non era quella del nord o di altre realtà…qui c’era il pomodoro da fare d’estate, la sardella da fare non so quando, il maiale a dicembre…ti sembrerà incredibile, ma le assenze di questo tipo cozzavano terribilmente con la mia mentalità e la mia concezione del lavoro. Vai quindi a conciliare la comprensione dell’altro con la necessità di mandare avanti il lavoro dei reparti e di assistere i malati... Allora io sono scoppiata, perché sono diventata ipertesa, perché ero immersa in questo problema, e non riuscivo…Molte giovani donne, appena si sposavano rimanevano incinte, e si assentavano dal lavoro, ma non erano sostituite. Io mi ricordo che uscivo con il mio motorino, andavo nelle strade di Catanzaro, a cercare le infermiere a implorarle di venire a coprire gli orari di lavoro. Una realtà quotidiana, per cui diventavano quasi tue nemiche. Tu dovevi mandare avanti il lavoro…tanto che nell’87, disperata, per questa situazione legata non a me, ma all’organizzazione del lavoro, politiche che venivano fatte….io mi sentivo incapace di uscirne, perché non ero capace di gestire questa cosa…e nell’87 sono venuta via. Avevo già 30 anni di lavoro alle spalle e sono venuta via con il pensiero di aver subito uno scacco enorme. Il femminismo non mi ha aiutato in questa esperienza dura del lavoro; mi ha aiutato in un secondo momento, quando ormai ero venuta via. Ci fu un giornale, elaborato dalla Libreria delle Donne di Milano, che parlava dello scacco delle donne, della sconfitta delle donne, e che questa sconfitta era perché vivevamo molto in questa dimensione maschile, dove il modello di lavoro è il modello maschile, per cui noi eravamo disorientate, ma non era mai uno scacco individuale…io invece l’ho vissuto come scacco personale, per cui mi sono sentita sconfitta. Quando sono andata via dall’ospedale, dopo breve tempo, mi sono guardata intorno…il femminismo era passato, ognuna di noi era tornata nel proprio guscio…e allora per alcune fu un dolore terribile – questo rientro nella normalità e nel chiuso – pensa il femminismo cosa poteva significare quando noi uscivamo di notte per riappropriarci della città, uscivamo tutte insieme a cantare per la città…Mi sono guardata intorno e ho cominciato a vedere delle donne che andavano nei nostri vicoli, tutte le mattine, e mi chiedevo cosa andassero a fare; ho chiamato una di loro un giorno e ho chiesto cosa facessero, mi hanno risposto che andavano a fare volontariato nel quartiere. E allora mi sono accostata anch’io. Nello stesso tempo, mi è stata data l’opportunità di fare questo corso su azioni positive e pari opportunità organizzato dalle Acli in Calabria, con un gruppo di donne straordinarie di Arcavacata (Renate Siebert, Donatella Barazzetti ecc.), forse sarà stato l’89/90, è stato interessantissimo, perché è stata la critica di un percorso, anche di anni di grande dolore. E qui ci siamo riallacciate alle tematiche del femminismo, in una maniera diversa; allora le pari opportunità ci parevano cose importanti da fare…le varie discriminazioni che esistevano sui luoghi di lavoro ecc.. Ma quello che è stato importante è stata l’opportunità di aver lavorato per tre mesi intensi per ritrovarci con dei gruppi di donne. Erano donne tutte più giovani di me (insegnanti, architette ecc.), persone che venivano da esperienze diverse, e alla fine di questo corso eravamo talmente cariche di entusiasmo che siamo andate a costituire Le Lune. Con questo gruppo abbiamo fatto delle cose importanti, dei seminari con Anna Rossi Doria, Dacia Maraini…per dir la verità non abbiamo mai fatto nulla sulle azioni positive e le pari opportunità, forse l’unica è stata Anna Scalzo, a Villa Betania; lei era sindacalista e lavorava ancora…per me le azioni positive…io ero già fuori dal mondo del lavoro e mi era molto difficile mettere in atto quello che avevo imparato! E’ servito più che altro, quel corso, a ritrovarci per stare insieme, per entusiasmarci rispetto a delle cose che potevamo fare insieme. Quel corso è stato importante per l’incontro con queste donne straordinarie di Arcavacata e per gli incontri stimolanti che abbiamo avuto, ma poi, per quanto personalmente mi riguarda, al di là di questi seminari non ho potuto utilizzare quel sapere che ci avevano dato perché io ero fuori dal mondo del lavoro. E invece sono entrata a pieno ritmo nel mondo del volontariato; il quartiere è stata una scoperta interessantissima, entrare nelle case del quartiere, conoscere le donne e gli anziani, diventare loro amica; conoscere la storia delle persone, con i loro dolori, le loro gioie...tutte le porte si aprivano...abbiamo vissuto dei momenti esaltanti. Questa del volontariato è stata un'esperienza forte, poi sono andata al Centro di solidarietà, dove ho fatto praticamente l'infermiera, per un anno e mezzo ho fatto tutte le mattine i prelievi ai ragazzi, alla comunità di tossicodipendenti, li accompagnavo in ospedale, mi occupavo di loro completamente; e poi il direttore della Caritas mi ha chiesto se volevo occuparmi del volontariato in carcere, e lì sono rimasta 10 anni; da due mesi ho interrotto per un problema al ginocchio. Sono stati impegni che mi hanno arricchito di altre esperienze, di altri aspetti della società (Lorenza Rozzi)


La difficoltà che traspare è l’impossibilità di ricomporre i diversi mondi che si abitano in una visione unitaria; la difficoltà di declinare una politica che traduca la complessità in un discorso comprensibile ed unificante. Quello che i gruppi di donne hanno sicuramente prodotto (disperso? trasmesso?) è un’idea della politica al plurale, dove il confronto avveniva sulle discussioni e sulle realizzazioni, dove ci si sentiva più soggetti che rappresentanti, capaci di (ri)mettersi in discussione e sempre capaci di forti passioni e reciproca consapevolezza. I percorsi dell’oggi sono vari: c’è chi si occupa della famiglia, chi lavora negli uffici, chi dirige o insegna nelle scuole, chi cura i malati, chi si occupa di volontariato. Il filo rosso che unisce queste esperienze è l’intensa pratica nel/del quotidiano: gli anni Settanta dei movimenti, che sottopongono a critica radicale la contrapposizione fra pubblico e privato, tra personale e politico (l’organizzazione della vita materiale, l’oppressione del lavoro domestico e delle relazioni familiari); gli anni Ottanta della svolta verso una ricerca identitaria di una differenza femminile irriducibile, con una propria cultura, un proprio linguaggio e una propria genealogia; gli anni Novanta, infine, con i percorsi frammentati della politica delle donne, ma anche con le relazioni fra culture differenti in un movimento sempre meno legato alle appartenenze, e fra soggetti fino a quel momento rimasti estranei all’esperienza dei gruppi storici.

I nessi fra le esperienze personali e collettive di donne diverse fra loro emergono continuamente nei racconti delle intervistate: un legame (fra donne fortemente politicizzate, estranee al femminismo storico, generazioni che si susseguono) che sembra ritrovarsi nella comune persistenza delle asimmetrie di potere fra i sessi. Altro tratto comune sembra essere la continua ricerca di luoghi delle donne. Dalla casa privata, al consultorio, alla libreria, ai convegni, alla Biblioteca, tutto concorre a dare riconoscimento e visibilità ai corpi, alle pratiche, ai saperi delle donne, fra tradizione politica e percorsi di vita individuali. Percorsi che spesso ritornano su se stessi, per continuare a capire il presente, e progettare il futuro, attraverso la memoria delle esperienze passate:


L’UDI si è ricreata, come struttura, una responsabile di sede nazionale – che poi è anche la sede dell’archivio centrale dell’UDI – e si è creato un coordinamento nazionale di 10 persone, di cui io faccio parte che dovrebbero raccogliere le istanze, individuare degli accordi, delle problematiche che poi creino una sorta di base per una discussione collettiva. Una sorta di raccordo…non possiamo dire che siamo quelle che diamo la linea, che siamo un comitato direttivo come era una volta, però sicuramente siamo un punto di riferimento cruciale, di una politica che si vuole, non dico nazionale, ma perlomeno collettiva, riconoscibile a Milano come a Palermo; pur nella consapevolezza che Palermo, per dire, avrà sempre la necessità di commisurare la questione delle donne, della società femminile, con i problemi reali. E Milano pure. Quindi il tentativo è quello, di ridare questo respiro univoco, e costituire questo punto di riferimento interpellando le donne delle varie realtà locali su come loro pensano di calibrare queste necessità, queste grandi questioni che ci riguardano tutte, questo scenario che si prospetta, nella loro realtà, con i problemi che devono concretamente affrontare. Quindi la scommessa è questa, provare ad accumulare le domande, le chiavi di lettura per questo nuovo scenario che si prospetta, in cui le donne, se ci fai caso continuano…anzi, hanno cominciato ad essere, la posta in gioco di uno scontro…non vogliamo dire di civiltà, ma sicuramente uno scontro economico, di interessi che usa come pretesto il corpo femminile, paradossalmente. Il corpo femminile, velato o svelato, è il campo di battaglia nuovo. Allora, se noi non siamo in condizione, attraverso quello che abbiamo imparato, appreso, discusso, riflettuto, ragionato fra noi, di provare a mettere a disposizione, e nello stesso tempo confrontare queste chiavi di lettura, questi strumenti, con queste donne che entrano in Italia, con le loro tradizioni, con la loro formazione, con i loro progetti di vita, allora è una politica che….si capisce perché molti dicano che non serva più; perché se il femminismo è politica dei tuoi diritti, e tu li hai ottenuti, o al massimo ti devi preoccupare di massimizzarli, il discorso si chiude. Quando invece ti accorgi che adesso veramente è di nuovo su uno scenario collettivo che ti devi misurare, non devi pensare solo alle nuove generazioni, ma a che cosa tu puoi determinare sul piano culturale, rispetto agli stereotipi che stanno tornando (Annalisa Marino)


Altri percorsi scelgono il silenzio pubblico, che amplifica, nelle intenzioni, il discorso interiore e rifugge la gerarchia e la fissità delle organizzazioni formali:

Io ricordo bene, positivamente, quelle esperienze, ma anche con un certo malessere, le ansie da organizzazione. A me il pensiero della differenza mi ha fatto capire molto questo, e io l'ho molto interiorizzato. Ritengo che comunque basta anche esistere, e trasmettere uno stile di vita diverso, per incidere e trasformare. Io ho abbandonato totalmente l'ottica direttiva, pedagogica, fare qualcosa per le donne, per la città, per l'ufficio. Sono entrata in un'ottica di idee diversa, che è quello del prima di tutto “per me”. Io l'ho detto e lo dirò ancora a chi mi sta vicino e può essere interessato. Ma può essere interessato nel senso che magari mi domanda: “Dove sei stata in questi giorni?”; e allora la mia assenza, se stimola qualcosa, allora se vuole venire viene. Io però ho perso totalmente questo discorso organizzativo, non mi corrisponde. Credo che derivi molto dall'interiorizzazione del pensiero della differenza e da questo percorso. Questo non significa che non si possa “fare”, ma è un fare in modo diverso. Ognuno di noi ha un piccolo potere nella nostra persona, e io quel potere piccolo che posso agire lo agisco, però sempre senza parlare in nome di altre donne, mentre invece nel passato abbiamo fatto molto questo. Ma naturalmente era quello il momento storico, non si poteva fare diversamente. Questa cosa qui è stata messa in discussione, perché nessuno può parlare a nome delle altre donne, ognuno parla per sé (Loredana Rubino)


Cosa rimane negli anni Novanta e oltre? Se i gruppi di donne, negli anni precedenti, hanno seguito la via della rivendicazione di diritti e dell’antagonismo e della critica nei confronti dello status quo, oggi emergono nuove strategie per il cambiamento, in ambiti spesso diversificati. Mutati i codici culturali tradizionali, il movimento delle donne ha messo in atto un processo di istituzionalizzazione che, tuttavia, può essere letto con l’immagine dell’outsider within, tipico della metodologia femminista (Hill Collins, 1986): confronto con le istituzioni, non riducibilità ad esse.


Relazioni e conflitti

Il conflitto si situa sin dall’inizio all’interno dei movimenti: le organizzazioni della sinistra extraparlamentare vengono attraversate in maniera dirompente dalla nascita del femminismo, vivendo una serie di contraddizioni legate alle logiche di potere, tipicamente maschili, utilizzate nell’organizzazione. Di fronte alla prospettiva della rivoluzione, le donne scoprono che la loro condizione era immutabile, che il potere maschile si ricomponeva di fronte all’altro sesso, che la sessualità liberata si configura spesso come violenza, che la gravidanza significa solitudine, «ciò che rientrava nella sfera sessuale continuava ad essere «un problema di donne», mentre i maschi, seppure «rivoluzionari», non se ne facevano carico, ritenendosi esonerati dall’assunzione di responsabilità, non diversamente dai loro padri e nonni» (Ribero, 1999: 95-96). Dal 1976 in avanti, con lo scioglimento di quasi tutte le formazioni della sinistra extraparlamentare, emerge per le donne di questi gruppi l’esigenza di dare un significato politico al conflitto con i propri compagni: «si erano occupate per anni della subordinazione dei proletari o dei popoli oppressi di tutto il mondo, ora iniziavano a concentrarsi sulla propria» (Ribero, 1999: 170).


Il Congresso di Lotta Continua [nel 1976] è stato un momento decisivo. E' stata una cosa così...nel senso che c'era il solito gruppo dei dirigenti, che si trovavano nei corridoi, dietro le quinte, per manovrare le cose, fare e disfare, per il primo giorno e poi le donne ci siamo trovate, tutte quelle che eravamo lì, tranne forse due o tre che facevano parte della dirigenza, e non erano considerate donne ma spie; e lì è cominciato un processo sconvolgente, che io mi ricordo come enorme, ma in realtà è durato pochissimo, di crescita pazzesca, perché abbiamo cominciato a dire: “e però, dobbiamo prendere la parola”, “io vorrei dire questo” e un'altra diceva “e io vorrei dire questo”, allora andiamo a dirlo! Si chiedeva la parola e si cominciava un discorso anche molto...è stato proprio un trasformarsi, nel senso che all'inizio era un dire “non è possibile, cari compagni, non tenere presente che c'è una differenza nello stare al mondo delle donne e degli uomini […] C'è stato proprio un crescendo pazzesco di persone che man mano sono andate a raccontare la loro sofferenza nell'organizzazione. Comunque ci sono gli atti, anche se non esprimono a fondo questa cosa. I maschi non hanno più preso la parola, un silenzio assoluto in sala, gente che piangeva, anche maschi che piangevano, è stata una sorta di...emersione, di che cosa ha significato, dentro l'organizzazione, l'oppressione delle donne. E questo è stato straordinario per tutte, secondo me, perché ha proprio fatto venire fuori proprio “il personale è politico”, lì si è toccato con mano che cosa volesse dire questo, perché nelle relazioni personali, nelle tue aspettative individuali (di fare un figlio, di non farlo) […] Sono venute fuori tutte queste dimensioni, anche di oppressione sessuale, che hanno fatto esplodere la situazione a un punto che a un certo punto gli operai di Torino si sono alzati in piedi e sono venuti verso il palco per picchiarci. E lì c'è stato uno sbarramento di altri che si sono messi in mezzo e glielo hanno impedito, ma era una tensione pazzesca […] Insomma, era proprio una rivisitazione di un percorso politico attraverso il fatto che quel percorso lottava per trasformare il mondo e contemporaneamente era una dimensione di dominio totale su una parte del movimento stesso (Donatella Barazzetti)


Il contrasto tra chi voleva un collegamento immediato con la lotta di classe, le relazioni familiari e di coppia che implodono, si accompagnano ai contrasti teorici legati alla dimensione emancipazione/liberazione, alla teorizzazione della differenza sessuale e del rapporto con le altre differenze. Nella provincia di Catanzaro, la teoria della differenza sessuale assume una centralità sempre maggiore, diventando oggetto di dibattito serrato, e ponendosi in netto antagonismo rispetto ai discorsi emancipazionisti degli anni Settanta. A questo si aggiunge il problema delle relazioni tra donne femministe, ma appartenenti alle organizzazioni extra-parlamentari, e le donne del femminismo radicale, con le quali le divergenze si esprimono nel rapporto con la politica, con la militanza, con la necessità di privilegiare aspetti personali o tematiche sociali. Ed ancora, la difficile scelta delle donne impegnate all’interno dei partiti che ne avvertono i limiti e le resistenze, ma che rimangono legate all’organizzazione, a volte rinunciando ad un percorso individuale. Alcune scelgono la doppia militanza come l’unico modo di «garantire l’autonomia delle compagne e quelle del movimento dal pericolo di ricreare da un lato la commissione femminile, il ghetto delle donne, dall’altro l’avanguardia esterna che va nel movimento a portare la linea del partito» (Fraire, 2002: 125-126); altre definiscono la doppia militanza come un falso problema a livello personale, ma vissuto come contraddittorio dall’esterno, da un contesto che non riesce a comprendere la potenzialità dell’equilibrio dentro-fuori:


Quelli sono stati anche gli anni di esplosione delle critiche alla doppia militanza nei confronti di chi, come me, era attiva nel movimento e nel partito. Non mi fu difficile rispondere che io ero sempre la stessa in qualunque luogo, scuola famiglia partito movimento, e che ammorbavo i compagni di sezione con continui interventi sulla ingiusta condizione di noi donne e su quali politiche il partito si dovesse di conseguenza attivare. Non mi era difficile rispondere e però le altre non mi volevano credere, forse confermate nella loro convinzione dal fatto che avevo accettato di essere segretario della sezione del PCI di Soverato, anche se solo per un anno […] Ancora oggi Maria Grazia mi rimprovera quella scelta, di aver lasciato il circolo anche solo per un anno per provare a fare politica nel luogo misto. Un vizietto, o una presunzione, che mi corromperà anche dopo, molti anni dopo […] Avevo deciso di sperimentare nei luoghi istituzionali, i luoghi del potere per eccellenza, quello che avevo imparato nei luoghi separati del movimento delle donne. Volevo vedere se lì poteva funzionare, se era possibile indurre un cambiamento agendo direttamente dentro l’istituzione e contemporaneamente continuando a frequentare il luogo separato per non perdere la bussola (Assunta Di Cunzolo)


Il nodo cruciale, più che la collocazione ‘spaziale’ e organizzativa, è la categoria stessa di politica, la critica esercitata nei confronti della sua concezione tradizionale, lo spostamento dei confini tra politico e personale, privato e pubblicocce si traduce nella necessità di nuove categorie interpretative, anche della stessa idea di militanza.

Per quanto riguarda il femminismo radicale, l’inconscio, il rapporto ambivalente con la madre, costituiscono la nuova frontiera da superare, dalla quale si snodano fili diversi di teorizzazioni e pratiche. In parallelo a questo percorso, conflitti e tensioni interne ai gruppi, ma anche riconoscimento del rapporto tra donne, il posizionarsi entro comuni esperienze, «è un modo di formare la soggettività femminile in primo luogo, con un atto di sottrazione alla dipendenza mentale dall’uomo, un pensarsi non più tramite la coscienza storica maschile, ma pensarsi attraverso quella posizione che si è assunta: donna, da donna a donna» (Boccia, 1990: 18)

I nuovi luoghi di parola, la modificazione di sé e del mondo in cui si vive sono certo momenti di aggregazione e presa di coscienza, ma anche luoghi imprevisti di pratiche e soggettività che possono divergere e opporsi. Sono relazioni spesso incandescenti che si intrecciano: relazioni di singole, relazioni collettive, relazioni a volte attraversate dalla dimensione del conflitto e del potere. Cesure e lutti difficili da elaborare, spesso ancora iscritti nelle esperienze presenti, che tuttavia non ostacolano il lavoro della conoscenza, ma si riflettono nella lucidità dell’analisi.


Intanto mi rendevo conto di una cosa: che quando parlavo con un'altra avevo una lucidità di pensiero sicuramente maggiore di quando pensavo da sola. E quindi già ho capito che, a livello energetico, uno più uno fa tre, e che poi inizia una spirale. E' la Dea in qualche modo che parla, ma non si tratta certo di una nuova religione...parlo di energia, di spirito....ma vedi non abbiamo le parole giuste per definirlo per non farla sembrare una religione! E' l'energia delle altre, perché a me quello che mi viene con le altre, quella risonanza che sento, non mi viene da sola. Io capisco che queste relazioni, che comunque c'erano, le colloco in un certo modo; anche quella con mia madre, con le altre persone, hanno un senso diverso. Sono spendibili, non fanno più parte solo del mio patrimonio personale, ma sono un modello che posso ritrovare. In fondo si tratta di mettere a posto delle cose e poi di darne un idea insieme alle altre. Solo col popolo delle donne io posso fare gruppo, e questa idea allora di uscire fuori dal cerchio e di passare in una relazione più alta più politica. Questo mi dà l'idea della differenza, e questa è la felicità: quando tu esci dal tuo e sai che sei inserita in un fenomeno più grande, che sai che stai facendo mondo, che stai facendo futuro, quel momento bellissimo, a-temporale, in cui sei passato, presente e futuro e in cui rompi questa barriera a cui ci ha abituato questo pensiero logico. E allora lì è stata la felicità. Penso ora di essere una donna serena, e di non preoccuparmi degli anni che passano (Fulvia Geracioti)


nell’essere tutte piene di passione, nel senso di qualcosa che ti prende e ti coinvolge, in queste discussioni qui – così come nelle relazioni politiche, nel discorso dell’autorità, che nel pensiero della differenza parte dal riconoscimento dell’autorità materna, nel riconoscere l’autorità di una donna; quanto questo è importante, perché comunque riconoscere l’autorità di una donna ti mette in una relazione dispari, perché comunque l’autorità di una donna è quella donna che ha un di più, e quindi ti svincoli dall’invidia, se sei capace, perché l’invidia distrugge i rapporti tra donne; tutto questo, che detto a parole sembra molto bello…mettere in pratica tutto questo, nei rapporti vicini, non nei rapporti lontani, crea un fermento molto vivo. Quindi io di questi anni qui ho proprio questo ricordo, di un gruppo molto vivo, che poi a un certo punto ha fatto lo spostamento dal pensare a noi e alle relazioni politiche fra noi – anche perché c’erano richieste che venivano dall’esterno di autorizzarci e sentirci punto di riferimento per altre donne…e quindi l’apertura anche all’esterno, con tutta una serie di seminari che abbiamo fatto. E poi anche le trasformazioni che abbiamo cercato di portare nei luoghi in cui ognuna di noi operava. E quindi…perché quello che è importante del pensiero della differenza sessuale è che ti costringe ad ancorarti al luogo in cui sei, alla persona che sei, al momento in cui vivi…ti devi ancorare alla realtà. Il mondo non lo trasformi perché c’è un mondo fuori…no. Come il partito…ci sono gli altri partiti, c’è il governo, c’è sempre qualcun altro che deve fare qualcosa. Tu sei qui, e allora c’è sempre qualcuno con cui te la prendi, con cui discuti, qualcuno che deve fare; invece ci sei tu, e le trasformazioni partono da te. Sei tu che, nella realtà in cui operi, devi essere capace…attraverso le relazioni che riesci a stabilire, la relazione politica con altre donne, a trasformare il luogo e le relazioni in cui sei. Quindi, non hai bisogno che a Roma il governo faccia qualcosa, ma nei luoghi in cui tu vivi e operi, nelle relazioni in cui sei, puoi produrre trasformazione e cambiamento, se solo trovi un’altra donna con cui formi una relazione politica, in cui ti dai reciprocamente libertà (Maria Procopio)


Allo stesso tempo diventano chiari alcuni problemi, alcuni nodi cruciali del rapporto tra donne: il problema dell’essere rappresentata da un’altra, il problema dell’autorità tra donne, del potere, delle differenze, chi parla e chi rimane in silenzio:


La Minghetti ci ha fatto leggere “Note sulla femminilità e le sue incarnazioni” di una psicanalista francese Piera Aulagnier Spairanì, che ho ancora a casa. C'era un’idea molto importante: lei sosteneva che se l'invidia diventa un'invidia positiva, cioè la capacità non di imitare per distruggere l’altra, ma di vedere quello che fa l'altra, e farlo nella propria misura, non per scalzare l'altra o per sminuire l'altra, ma per 'darsi valore' (oggi dico 'darsi valore', allora non l'avrei adoperato, non era ancora il linguaggio) noi stesse cresciamo. Ricordo questa cosa...io per anni ho ricordato questa cosa, che, se vuoi, era quello che poteva essere la sorellanza del movimento femminista, ma era anche qualcosa di più. Io ritengo che queste cose, in un gruppo che comunque aveva anche dei problemi relazionali (diciamolo; perché c'era chi voleva essere leader) avesse la sua importanza a dava e ciascuna la possibilità di prendere le distanze (Delia Fabrizi)


Rifiuto a priori delle istituzioni patriarcali, del potere istituzionale, di regole standardizzate, caratteristiche di un’impostazione e un modo di fare politica descritto come “maschile”. La donna, in questa prospettiva, non deve concorrere alla spartizione del potere, ma rifiutare lo stesso concetto, che storicamente si è affermato come legge maschile del più forte. Non accettare compromessi con le tradizionali modalità gerarchiche del potere significa non accettare formalmente che figure leader si impongano alle altre. In concreto, tuttavia, le figure predominanti esistono, determinando spesso una situazione di crisi. Se da un lato la destrutturazione dei gruppi permette il recupero dell’individualità al loro interno, dall’altro favorisce nei fatti l’affermarsi di leadership di tipo carismatico, legate alle capacità personali di seduzione intellettuale. Seduzione che a volte è criticata in termini politici, a volte è guardata con sospetto. La perfetta identificazione con le altre donne si rivela a volte un’illusione, che svanisce all’emergere delle singole individualità:


[Nel Centro Lilith] anche lì, naturalmente, tensioni e non riconoscimenti fra donne. Tutto questo, purtroppo, è stato segnato anche da conflitti e da relazioni anche dolorose. Questo senza togliere niente ad alcune delle donne che ha dato comunque il loro contributo, però le abbiamo avute le tensioni, anche forti. C'è stato un momento in cui si teorizzava molto questo discorso della relazione fra donne, di riconoscimento in qualche modo della madre simbolica. Questo è stato durissimo, nel senso che si è cadute anche in atteggiamenti un po’ troppo cerebrali, un po’ troppo teorici, non calati realmente. difficili da vivere fino in fondo; non liberi, tutto sommato. Quindi il Centro ha un po’ sofferto di tensioni di questo genere, sempre le problematiche di mancanza di riconoscimenti reciproci, questo è stato reale; una difficoltà grande, soprattutto tra le personalità più forti, a riconoscersi. E poi una difficoltà a dare continuità, a dare costanza, a capire un po' che tipo di destino dovesse avere il Centro, dopo il primo impulso, perché ognuna di noi, presa anche dalle proprie vite personali, probabilmente ha avuto difficoltà a mantenere un impegno all'esterno. (Loredana Rubino)


La cosa che mi è sembrata interessantissima è stata la lettura di “Crinali” di Paola Melchiorri, perché, in un certo senso, mi ha aperto gli occhi su quello che ci era successo a Catanzaro, sul perché questo discorso l'avevamo portato avanti, ma ci aveva poi completamente tirato fuori. Credo che questo fatto derivi dalla poca capacità di relazionarci veramente l'una con l'altra...Affettivamente sì, ma la paura del giudizio...che tante volte c'era ed era pesante; la paura di non essere all'altezza (Delia Fabrizi)


Il Collettivo [di Lamezia Terme]...non ti so dire fino in fondo perché poi non ha fatto più politica: è morto quasi di morte naturale. Un po' le persone sono andate via, hanno preso altre strade, c'è chi si è messa in politica in maniera più diretta, ci sono stati i conflitti naturalmente (perché c'erano anche dei conflitti molto forti). Poi, tra l'altro, era anche facile sconfinare...il privato era politico, però questo privato che diventava politico...a volte si scambiava la critica dei meccanismi che oprano nel privato (che è anche una critica politica) con delle modalità di relazione che poi influivano nella vita stessa del Collettivo. Anche questo è stato fonte di crisi (Rosa Tavella)


C’è invidia tra donne; c’è l’invidia che è il retaggio di quando dovevamo scannarci perché qualcuno ci mantenesse. Poi c’è un’invidia che fa parte proprio dell’animo umano, una è sociale, l’altra e personale, non è che tutte le donne sono perfette, non è quello. Però se avessi avuto il sostegno del mio gruppo, noi saremmo andate ben oltre, e non l’ho avuto. Anche se mi riconoscono molte cose, diversamente non sarei restata lì se non fossi stata accettata, però adesso io non ho interesse a fare le cose. A me manca, e questo me l’hanno tagliata precocemente… l’ambizione. Quando io vedo una persona ambiziosa devo superare una piccola invidia, e superandola mi allargo il cuore, e in qualche modo sublimo (Fulvia Geracioti)


Si rompono alcuni equilibri: all’interno delle famiglie, dei rapporti di coppia. Non solo nodi dei rapporti interpersonali, ma anche la difficoltà del rapporto con le istituzioni, con la ‘Politica’, con il potere, con l’informazione, con il difficile rifiuto dell’ ‘eredità paterna’. Un conflitto fatto di frequentazioni quotidiane, di scontri violenti, di prese di posizione differenti, di avvicinamenti e allontanamenti:


E' un problema storico. Si capisce perché: sono stati gli uomini a crearlo, ad alimentarlo ecc., e poi tutte le espressioni della miseria femminile. Le donne non hanno potere in nessun posto e quindi, naturalmente, su quei poteri interpersonali (o di natura affettiva-sessuale) hanno lottato contro le altre donne. E' fortissimo questo. E' stato in tutta la mia storia, in tutta la mia vita. Puoi immaginare quante ne ho incontrate...tuttavia però, siccome il percorso che io ho fatto è stato un percorso vero, non un percorso di potere o strumentale, ma prima di tutto culturale e politico....Io ho questo forte legame con la politica, è nel mio DNA evidentemente. Quando hai un percorso così alto, non ti scalfiscono gli starli che continuano a mandarti. Io adesso so di essere usata perché la testa politica ce l'ho. Ma, contemporaneamente, il fatto di avere 74 anni, rassicura molto, perché non sono un ostacolo. Allora questa rassicurazione a me va bene, perché vivo tranquilla, non ho ambizioni personali; ho voglia di fare politica per il gusto di farla. In questo senso, tutto è a mio favore. Ho un distacco umano di comprensione. La rivalità è sempre un problema di miseria femminile, quindi sta a me aiutarle. Non posso pretendere da loro (Annamaria Longo).


Politicamente noi non abbiamo avuto difficoltà, i problemi sono sorti sul piano interpersonale, nel momento in cui abbiamo cominciato a scavare sulle nostre identità, lì sorse il problema; perché fino a quando ci fu la struttura andava tutto come una macchina, e poi appena abbiamo cominciato a vedere chi eravamo, cosa volevamo, quali erano le cose che avevamo accumulato, che non mi garbavano ma che avevo fatto lo stesso per un senso di disciplina, di appartenenza e quant’altro, e poi lì…la bolla di sapone. Il problema era la visone gerarchica del gruppo (Adriana Papaleo)


Ogni tappa della presa di coscienza genera contraddizioni e sofferenze. Quando non si riesce a mediare, e la riflessione impone decisioni, queste investono in primo luogo il rapporto con i mariti, i fidanzati, i compagni. La riscoperta della soggettività femminile significa necessariamente la messa in discussione dei tradizionali valori maschili. E’ proprio nel privato che si evidenziano i nodi della subordinazione che si formano nel pubblico. Le donne iniziano guardare se stesse in maniera differente, dando vita ad un nuovo e differente movimento rispetto a quello del ’68: è il “problema senza nome” che si vuole risolvere, il desiderio di qualcosa di più e diverso dal marito, di figli, dalla casa (Friedan, 1964).


Nel 1976 ho fatto parte dell'UDI. Mi sono avvicinata alle donne dell'UDI in modo più ideologico che operativo. Condividevo il loro pensiero, le loro idee e le ammiravo molto perché riuscivano, in un contesto sociale alquanto chiuso e maschilista (io allora facevo il confronto con Monza dove prima insegnavo perché mi ero trasferita da poco tempo, e allora era opprimente...ne sono passati di anni...le cose sono cambiate) riuscivano ad operare e fare tanto per appoggiare le donne nella rivendicazione dei propri diritti. Con loro nasce a Soverato il consultorio, gli asili nido...Partecipavo con interesse alle loro riunioni, facevo di tutto per esserci ma, avendo una figlia di pochi mesi, non sempre lo potevo fare, anche perché dovevo ricorrere alla baby sitter non avendo qui alcun parente. Ricordo quel periodo in cui ero totalmente oberata di lavoro, tra casa, scuola, figlie per cui mi autoescludevo da tante attività che avrei voluto fare, ero imprigionata dai ruoli di moglie, madre, casalinga, insegnante. Troppe cose insieme. Ho cercato di gestire il tutto con un certo equilibrio, ma con tanta fatica. L'UDI rappresentava per me molto, confidavo molto in queste associazioni di donne che cercavano di sradicare certi pregiudizi maschilisti e che si sforzavano di rendere ad ogni donna il lavoro dignitoso e meno arduo. Con loro spiccavo il volo dalla realtà che vivevo e ne uscivo fuori rincuorata e convinta che un giorno le cose per le donne sarebbero cambiate (Francesca Lovecchio)


La partecipazione richiede un investimento complessivo, perché attraversa tutta la vita, sia pubblica, sia privata; mette in crisi le sicurezze dell’identità femminile tradizionale. Si impongono quindi i temi del rapporto di coppia, della divisione dei ruoli, della famiglia:


Ho avuto delle lenti in più, degli strumenti in più, per analizzare la realtà e non sentirmi schiacciata, perché nell'ambito domestico – per quanto riguarda me, ma penso possa riguardare anche le donne della mia generazione – si sono pagati dei prezzi abbastanza pesanti, abbastanza duri, nel senso che, per quanto mi riguarda, io ho vissuto nell'ambiguità di essere la donna nuova, libera, quindi capace di assumersi delle responsabilità lavorative e di famiglia però, nello stesso tempo, di avere anche i vantaggi della donna tradizionale che ha il marito che è lì. Quindi un po' un'ambiguità, nel senso che questi rapporti poi sono stati inficiati di vecchio e di nuovo, e quindi ti sei ritrovata tante volte con un compagno che è cambiato soltanto quando è stato costretto a cambiare, perché, altrimenti, tranquillamente condivideva tutto, ma continuava a fare la sua vita di sempre; anche perché c'è una donna efficiente, una donna che organizza, che gestisce, che mette tutto insieme, gestisce le relazioni dei figli col mondo esterno...Su questo ci sarebbe da riflettere molto, perché soltanto grazie ad una tenacia ed una volontà, mia e di altre donne, siamo riuscite a non soccombere in un discorso di isolamento, di solitudine, perché il rischio è che ti ritrovi – fra sfacchinate e tutto – senza costruirti delle relazioni umane e sociali, perché cominci a buttarti sul discorso del lavoro e della famiglia, e non ci sono altri spazi. Questo aspetto qui è stato particolarmente impegnativo, e però il pensiero della differenza mi ha dato la possibilità sempre di capire. Poi magari non sono sempre riuscita ad essere tranquilla e serena, evitare il conflitto – perché tante volte il conflitto c'è stato – però mi ha dato gli elementi per dire, magari anche forzandomi - “Loredana, dopo sera esci, vai ad incontrarti con le altre donne; lascia, stacca, impuntati”. Un sottrarsi anche agli impegni tradizionali, di moglie; ci sono degli spazi diversi che possono essere anche...che so, vedere la telenovela, perché lo decido io, perché è una cosa che riguarda me, preferisco così. E' stato significativo poter dare valore a ciò che tu riconosci per te come valore, uscendo totalmente fuori dai parametri. (Loredana Rubino)


Nel '78 mi sono laureata, sono ritornata a Lamezia, mi sono sposata un mese dopo; ho fatto tutto...ho chiuso il conto, come si suol dire. Io ho sempre tenuto dentro tradizione e innovazione, non so se chiamarla così. Ho avuto un rapporto con il mio attuale e unico marito da quando avevo 17 anni, quindi storia classica. Nove anni siamo stati fidanzati, poi ci siamo sposati ed è stata anche un'educazione sentimentale e politica, perché insieme abbiamo fatto anche il percorso politico. Ne abbiamo vissuto di tutti i colori, nel bene e nel male, perché era inevitabile che fosse così. C'è stata una grossa crisi, perché all'inizio – anche se non c'era una grande differenza di età fra noi (4 anni), noi ci siamo messi insieme che io avevo 17 anni e lui 21, lui era già all'università, io facevo il liceo, quindi pendevo dalle sue labbra. Per tutta una prima fase io sono stata una sorta di discepola, perché lui aveva fatto il '68, era stato in carcere con il movimento dei giovani della nuova sinistra di Firenze, tutta una storia molto affascinante che mi aveva preso; imparavo molto perché a Firenze lui andava a teatro, c'era questa educazione intellettuale, questo trasferimento in questo vaso che ero io. Poi sono andata all'università e ho cominciato le mie prime esperienze, anche se la politica l'avevo iniziata a Lamezia, e col femminismo nel '75 c'è stata una sorta di capovolgimento della situazione, e anche una crisi del rapporto, una crisi di crescita, perché io non ero più la persona che imparava, ma in qualche modo rivendicavo una mia autonomia, una mia soggettività. Quindi il rapporto diventava differente anche insieme alla crescita politica (Rosa Tavella)


Con il mio compagno eravamo cresciuti insieme all’Università e poi professionalmente nella scuola - entrambi insegnanti di matematica- e contemporaneamente nel PCI. Con lui condividevo tutto: figli, professione, ideali e anche il lavoro in casa. Non era il maschio che si spacciava per femminista, rispettava le mie scelte/esigenze di spazi politici separati e, forse, ne aveva anche compreso razionalmente la necessità. Insomma una famiglia tranquilla come tante, con l’unico problema della mia insoddisfazione nel vivere in questo mondo com’era e come è e la mia caparbietà a volerlo cambiare per rendermelo più accettabile.(Assunta Di Cunzolo)


All'interno delle organizzazioni io vedevo una sudditanza sottile nei confronti dei compagni, nelle scelte, o comunque nel desiderio di approvazione, nel raccontare loro quello che facevano...Io devo dire che non ho mai raccontato niente a mio marito, non mi ha mai chiesto niente, ma perché io non mi mettevo proprio nelle condizioni di dovergli spiegare...lui lo vedeva che non era contro di lui, si percepisce questo. Quindi capisci che a me non piaceva questa radicalizzazione di uno scontro che...allo stesso modo del maschile, secondo me, che poi alla fine ci fosse un vincitore e un vinto (Fulvia Geracioti).


Emerge il problema che accomuna l’esperienza calabrese a quella nazionale: la difficoltà di gestire le differenze all’interno dei gruppi. Riemerge con forza, inoltre, il problema del potere: se la ricerca di una differenza femminile si traduce nella ricerca di un linguaggio, di una cultura, di una genealogia proprie, il rischio della perdita di tensione politica, di rifugio nel privato, l’accettazione dei rapporti sociali esistenti (e quindi delle logiche di potere tradizionali) è sempre dietro l’angolo.


Lle teorie poi vanno a confrontarsi con quelli che sono i fatti personali, le relazioni anche emotive. E allora, non per tutte questo discorso è stato facile, il fatto cioè che l’autorizzazione alla libertà, la mediazione col mondo, te la dà tua madre e che puoi avere relazioni con altre donne, ed essere in un ordine simbolico femminile, perché comunque riconosci l’autorità che è in primo luogo della madre. Non era facile per nessuna di noi calarlo nella propria vita e nel rapporto con la propria madre, e quindi qualcuna diceva: sì, è vero, nostra madre è la prima che ci ha messe al mondo anche in senso simbolico, però, riferendosi al discorso delle madri simboliche, sottolineavano che l’autorizzazione alla libertà, nelle genealogia femminile, la dà la madre simbolica. Quindi c’è stato un grande fermento, una grande passione nel discutere e nel riportare il pensiero alle pratiche. Perché affermare che il riconoscere l’autorità di una donna parte dal riconoscimento dell’autorità materna, e che la relazione politica con un'altra donna ti pone in una relazione dispari, perché comunque riconoscere l’autorità di una donna significa riconoscerle un di più, e per farlo bisogna essere capaci di svincolarsi dall’invidia, perché l’invidia distrugge i rapporti tra donne, a parole sembra molto bello ma metterlo in pratica, nei rapporti vicini non nei rapporti lontani, crea un fermento molto vivo. Normalmente le donne erano per me amiche, persone con cui condividere esperienze, quello che succede normalmente nelle relazioni di amicizia. Però con le donne di Kore abbiamo avviato un cammino che è stato di tipo diverso del semplice stare tra donne e che ci ha portato ad un grande riconoscimento di valore; l’importanza che dai a quello che una donna dice senza squalificarlo e porre attenzione a ciò che dice ( per me questa cosa è diventata automatica in qualche modo). Non sto parlando di buonismo, anzi, però hai la possibilità di diventare più consapevole dei meccanismi che stanno alla base delle relazioni, di quei meccanismi che hanno a che fare con l’invidia, con la rivalità, non solo con sentimenti buoni. Sei un po’ più consapevole, e per quanto è possibile cerchi di fare in modo che i sentimenti non siano distruttivi. Quindi il dar valore a quello che una donna dice e fa, il metterti in relazione non distruttiva, permette di muovere dei passi nel mondo, di operare delle trasformazioni perché ci sono delle relazioni che ti danno la forza e l’autorità. E la tua forza non viene dall’alleanza che crei col mondo maschile, ma viene anche dalla capacità che hai di creare relazioni col mondo delle donne, è da lì che prendi forza; perché comunque rimani dentro la tua differenza sessuale, e da lì incontri il mondo maschile. Sono esperienza di vita che sei costretta a dire con delle parole così, che sembrano solo teorizzazioni e però nella vita possono diventare pratiche reali. Non voglio dire che questo ti mette al riparo dall’invidia, anche come sentimento che tu provi verso altre donne, però ti dà gli strumenti di consapevolezza e di chiavi di lettura, per cui è possibile agire in un modo piuttosto che in un altro, anche se, torno a sottolineare, senza il mio percorso di formazione personale, non so quanto sarei riuscita a comprendere ed a fare esperienza di queste teorie (Maria Procopio).


Ci vedevamo nella sede del centro Lilith e leggevamo gli interventi di Luisa Muraro. Per poi leggere tutti i libri, rileggerli e commentarli. Questo è stato un passaggio decisivo e importantissimo per quanto mi riguarda. Anche lì, naturalmente, tensioni e non riconoscimenti fra donne. Tutto questo, purtroppo, è stato segnato anche da conflitti e da relazioni anche dolorose. Questo senza togliere niente ad alcune delle donne che ha dato comunque il suo contributo, però le abbiamo avute le tensioni, anche forti. C'è stato un momento in cui si teorizzava molto questo discorso della relazione fra donne, di riconoscimento in qualche modo della madre simbolica. Questo è stato durissimo, nel senso che si è cadute anche in atteggiamenti un po’ troppo cerebrali, un po’ troppo teorici, non calati realmente....difficili da vivere fino in fondo; non liberi, tutto sommato. Quindi il centro ha un po’ sofferto di tensioni di questo genere, sempre le problematiche di mancanza di riconoscimenti reciproci, questo è stato reale; una difficoltà grande, soprattutto tra le personalità più forti, a riconoscersi. E poi una difficoltà a dare continuità, a dare costanza, a capire un po' che tipo di destino dovesse avere il Centro, dopo il primo impulso, perché ognuna di noi, presa anche dalle proprie vite personali, probabilmente ha avuto difficoltà a mantenere un impegno all'esterno […] Secondo me il conflitto nasce anche da un bisogno personale di ogni donna di esserci, dal problema dell'invisibilità. Molti conflitti nascono dalle insicurezze di ognuna che, nell'ambito della relazione, deve comunque essere vista per forza. Il problema nostro è stato sempre quello di essere escluse, dal maschile, dal mondo. Il conflitto nasce se io ho paura di non essere vista, di non essere abbastanza importante, essere considerata, come se riconoscere quello che ha da dire quell'altra mi togliesse qualcosa. Io nella mia esperienza ho visto questa fragilità alla base del conflitto; quindi le personalità più forti che dovevano, in qualche modo...dovevamo, ci mettiamo tutte, perché non è che sono cose che hanno riguardato una singola persona, forse hanno riguardato tutte. Di volta in volta bisognava forse conquistare credibilità e autorevolezza nei confronti delle altre. E poi una difficoltà a bilanciare il concetto della parità con il concetto del riconoscimento di quel di più. Giustamente non siamo tutte uguali, però era necessario inventarsi un modo diverso del riconoscimento dell'autorità, che non deve essere il potere, la gerarchia. E poi, comunque, non siamo abituate...è qualcosa di ancora molto nuovo, quello del riconoscersi, del valore, non sentirsi minacciate da un'altra donna. Credo non ci sia la sicurezza; non siamo state abbastanza forti all'epoca, non eravamo padrone di noi stesse tanto da poter dire: “va bene, io mi sottraggo su questa cosa, non dico niente perché un'altra ne sa più di me”. Forse non eravamo abbastanza forti, abbastanza sicure. Io vedo la fragilità dietro i conflitti, e poi molta rabbia, molta frustrazione, molti bisogni che non c'entravano niente: il bisogno affettivo, tutto un miscuglio di sentimenti, di cose....E poi il desiderio di metterle in ordine – il discorso dell'ordine simbolico della madre; cose un po' forzate, perché questi sono rapporti che devono venire fuori nella libertà, nella naturalezza più assoluta, nella scelta, ma senza neppure codificarle queste cose. Invece c'è stato un momento in cui si sono anche codificate queste cose (Loredana Rubino).


Uno spostamento di sguardo

Per alcune delle intervistate, inoltre, il femminismo rappresenta un’opportunità non colta fino in fondo, oppure semplicemente sfiorata, se non ignorata come irrimediabilmente lontano dalle proprie esperienze e convinzioni. Tuttavia, la ricerca ha voluto descrivere e raccontare l’esperienza di questi gruppi come parte di un «generale processo di assorbimento da parte della popolazione femminile di alcuni dei contenuti espressi dal femminismo. Un assorbimento che, a partire dal Movimento, coinvolge poi come per osmosi le situazioni sociali, culturali, lavorative e politiche in cui agiscono e vivono le donne; si tratta di un processo che possiamo indicare col termine femminismo diffuso, intendendo con ciò la penetrazione in una pluralità di strati e situazioni sociali di tematiche quali, per citarne alcune, il diritto dell’esistenza della donna come persona in quanto persona, la rivendicazione di spazi di autonomia, una maggiore consapevolezza di sé» (Calabrò e Grasso, 1985: 145-146).

Queste esperienze ci raccontano di come sia stato complesso e non univoco il rapporto tra il movimento femminista e gli altri gruppi di donne presenti sulla scena politica. Ciò che è importante sottolineare è la grande circolazione di idee e di pratiche che hanno caratterizzato questi anni, pur in una contrapposizione a volte dura fra donne e fra gruppi. Sono le fonti della memoria che ci restituiscono questa storia, a volte effervescente, a volte dolorosa, sempre carica di significati e di passione e pratica politica. Si percepisce, nella maggior parte delle intervistate, il senso della scoperta di sé e della percezione della differenza come momento cruciale e fondativo della propria esperienza. In molte narrazioni è presente una sorta di “movimento dell’esperienza”: allontanamento dalle modalità tradizionali della politica, dai gruppi di appartenenza (gerarchici, istituzionali, misti) per approdare ai gruppi di donne, diverse per formazione e appartenenze precedenti, ma unite dall’esperienza del ritrovarsi. Rispetto agli altri movimenti, i gruppi di donne hanno una propria forma, una propria pratica politica. Gli anni Settanta e Ottanta sono gli anni del movimento largo (Rossi-Doria, 2005), coinvolgendo donne differenti attraverso occasioni e incontri diffusi; ma anche gli anni del movimento molecolare: tanti diversi gruppi si confrontano nello spazio pubblico, costruiscono spazi di incontro, cambiano singolarmente e collettivamente le loro vite quotidiane, progettano nuove forme di politica. In definitiva, si costituiscono come soggetto politico. Gli anni Novanta sono gli anni della disgregazione e della ricostruzione: in modalità diverse, che rispecchiano una rinnovata attenzione al personale, ma anche alla costruzione di una sfera pubblica differente, nella quale lo sguardo della differenza sia presente e capace di innovazione sociale.

Come far convivere, ancora oggi, il raggiungimento della parità dei diritti, la dimensione delle pari opportunità, con la prospettiva della differenza? Quali compromessi accettare, attraverso la decisione di entrare – o condividere percorsi – nelle istituzioni, la cui logica non si condivide fino in fondo. Su queste scelte, molti gruppi si sono confrontati nel corso degli anni, scegliendo via via la strada del coinvolgimento, del privato, della diversificazione degli interessi


Abbiamo anche abbiamo cercato di portare delle trasformazioni nei luoghi in cui ognuna di noi operava, perché quello che è importante del pensiero della differenza sessuale è che ti costringe ad ancorarti al luogo in cui sei, alla persona che sei, al momento in cui vivi, ti devi ancorare alla realtà. Il mondo non si trasforma perché c'è qualcun altro che deve sempre far qualcosa, invece ci sei tu, e le trasformazioni partono da te. Sei tu che, nella realtà in cui operi, devi essere capace, attraverso le

relazioni che riesci a stabilire, soprattutto le relazione politiche con altre donne, a trasformare il luogo e le relazioni in cui sei. Quindi, nei luoghi in cui tu vivi e operi puoi produrre trasformazione e cambiamento, se solo trovi un’altra donna con cui stabilire una relazione politica, a partire dalla quale riconoscere autorità e libertà. Dunque, sono stati anche anni importanti che ci hanno visto operare nelle nostre realtà. Ad esempio, Assunta è entrata nell’amministrazione comunale di Soverato, Fulvia è diventata sindaco di Cenadi; io, anche nel luogo di lavoro, ho organizzato, insieme con la Responsabile delle Risorse Umane ed una operatrice (anche lei nel pensiero della differenza sessuale), una serie di seminari per tutte le donne della Fondazione. Sono stati dei momenti e delle occasioni importanti, perché praticamente tutte le donne di questo ente (oltre 400 dipendenti, la stragrande maggioranza all’epoca erano tutte donne) sono state coinvolte in questo percorso (Maria Procopio)


Oggi, la variegata mappa dei gruppi di donne è caratterizzata da una diversificazione e istituzionalizzazione che alcuni promuovono come ricchezza, altri come dispersione e isolamento. Si istituzionalizzano i luoghi delle donne, con vocazioni anche molto diverse fra loro; luoghi che segnano sempre lo spazio pubblico, se non in maniera diffusa, in modalità estremamente visibili di elaborazione politica, di iniziativa culturale, di diffusione dei saperi femminili, di accoglienza e di supporto ad altre donne. Un tentativo dalla grande portata innovativa: ritessere l’esperienza degli anni Settanta (portare al centro della politica il corpo, la sessualità, il desiderio) per estendere questo modello al di fuori del piccolo gruppo (che pur rimane tale, senza proselitismi, nel rispetto e nella curiosità per le differenze), senza delegare ad altri la pratica nelle istituzioni. Quello che unisce questi diversi periodi storici è questa continua modificazione delle forme e dei contenuti della politica delle donne, da cui derivano scelte individuali o nuove pratiche di aggregazione. La stessa categoria di femminismo si rivela troppo parziale per descrivere le specificità e le differenze che attraversano il territorio di Catanzaro dagli anni Sessanta ai giorni nostri: rischia da un lato di sottacere le conflittualità e le ambivalenze fra i vari gruppi e all’interno dei gruppi stessi, e d’altro lato rischia di confondere esperienze individuali e collettive in una dimensione totale e totalizzante. I gruppi di donne presi in esame, al contrario, mostrano una diversificazione di pratiche e di percorsi, e di elaborazioni che hanno attraversato territori di esperienze estremamente ricche e sedimentato saperi dai quali attingere nuova linfa di idee e di forza. Guardare a quali opportunità e limiti le donne organizzate hanno riscontrato nella loro esperienza, quali strategie hanno sviluppato, rappresenta una fonte di idee per elaborare strategie ancora oggi, ed è anche un bagaglio di esperienza che alimenta la percezione delle possibilità attuali, e di cui è quindi importante avere consapevolezza.


Nel 1990 ho costituito la sezione Fidapa a Soverato, nel momento in cui io, e un gruppo di amiche, abbiamo sentito il bisogno di ritrovarci in un'associazione che favorisse l'espressione del nostro impegno culturale, della nostra sensibilità verso ogni problematica femminile, per potere così affrontare e risolvere, per quanto possibile, i problemi che riguardano la collettività, in modo da incidere nell'organizzazione delle strutture sociali e politiche presenti nel territorio. Ho voluto costituire un gruppo di donne, cosa che allora fu criticata e ostacolata col dire che oggi l'avrei aperta questa sezione e domani l'avrei chiusa (...figurati, un circolo di donne!) perché la coesione è una forza, una forza che si fa potere quando nasce dalle idee e dal comportamento consapevole di ognuna di noi. Ho sempre rilevato, nell'esistenza delle donne, un certo divario tra ciò che sanno e possono fare, e le possibilità loro concesse di poterlo attuare. Ho sempre visto in loro un sapere profondo, un patrimonio (anche nelle persone meno istruite) di innumerevoli generazioni, una capacità di vedere, di intuire, laddove gli uomini non riescono neppure a guardare. Ecco perché ho costituito il gruppo, perché credo nelle capacità, nella tenacia e nella forza morale delle donne, anche se ancora dobbiamo acquisire maggiore fede in noi stesse. E in questo un gruppo di amiche (a volte anche una sola amica) può aiutarci molto, per raggiungere la liberazione da ogni pregiudizio, liberazione intesa come crescita, avente come condizione anche la libertà di sbagliare (Francesca Lovecchio)


Un problema che rimane quanto mai aperto e attuale, in questa prospettiva, è proprio la difficoltà del passaggio generazionale, il pericolo che dopo la moltiplicazione dei luoghi delle donne negli anni Ottanta e Novanta venga meno la trasmissione delle radici di un’esperienza che ha difficoltà a raccontarsi ma che desidera accogliere la sfida del futuro:


No, non c'è stato. Nel senso che poi è finito, si è chiuso. Noi ci siamo collegate dopo con la casa di Mago Merlino, che è collegata con l'Oasi Bartolomea, quindi il materiale che avevamo lo abbiamo dato a questa associazione che sostiene delle ragazze madri. Per quanto riguarda il discorso del centro Lilith e del pensiero della differenza, per me è stato importantissimo perché ha segnato un ulteriore passo in questo senso: che comunque puoi cambiare a partire da te stessa, che il lavoro è molto su di te, le relazioni attorno a te, quindi sulla consapevolezza che non c'è un meglio di te – che può essere il maschile – ma ci sei tu e ti devi riconoscere in quello che tu sei, con riferimento al fatto che sei donna, che è una differenza di fondo, sostanziale, e che quindi i parametri non sono quelli che passano per oggettivi – che poi sono quelli maschili – ma possono essere altro. Questa è stata una svolta molto liberatoria, anche per quanto riguarda il rapporto con l'esterno, con il contesto professionale, con il contesto domestico, per quanto riguarda i rapporti con l'altro sesso, con il marito. C'è stata una presa di coscienza del fatto che non ti devi parametrare a questo altro (Loredana Rubino)


Io non ho un rapporto con le ventenni, non so come si collocano; naturalmente hanno una vita molto diversa da quella che abbiamo vissuto noi, in cui noi abbiamo lavorato e operato. Tuttavia continuo a pensare che c'è una subalternità ai maschi molto forte; non so se se ne accorgono, se ne sono consapevoli. Non vedo il delinearsi di un'organizzazione propria della donna, cioè, vedo una sciatteria delle donne, magari disposte a utilizzare gli uomini, che però non lavorano sull'accrescimento della propria dignità, della propria autonomia, della propria consapevolezza di soggetto compiuto, completo, capace di misurarsi ad alto livello. Non c'è questo (Annamaria Longo)


Dopo il periodo di riflusso credo che ci sentiamo, parlando fra di noi, in grado di essere noi, adesso, le madri di quelle che si aprono alle altre. Io sono stata ad un convegno dell'UDI l'anno scorso, ed ho sentito parlare delle giovani. Avevano dei problemi diversissimi da noi. Intanto sono stata contenta perché, uno, le battaglie che abbiamo fatto hanno avuto dei risultati; due, perché il tipo di femminismo che volete, il tipo di libertà che volete, è il vostro...E' la vostra libertà, non può essere più la mia. Però che vi possiamo insegnare come sostenere questo desiderio, delle pratiche, ve le possiamo pure passare; con il rischio di essere poi rifiutate come succede alle madri. Noi l'abbiamo passato con le nostre figlie! Mi pare normale. Adesso credo che siamo capaci, perché vedo che è un desiderio che serpeggia, di aprirci, ascoltarvi e, in qualche modo...la tecnica è un po’ quella della terapia...siete voi, la risonanza, che dona senso. Possiamo fornirvi il luogo, farci luogo noi, ma voi avete la vostra vita, questo lo sappiamo bene, perché noi siamo quelle la cui vita è stata già scritta (Fulvia Geracioti)


Negli anni Settanta il movimento delle donne si è ritratto progressivamente dal confronto con le istituzioni, anche se un rapporto tra femminismo e sistema politico ha continuato ad esistere, assumendo connotati più locali, moltiplicano iniziative specifiche – quali quelle riguardanti la violenza sessuale – spesso a raggio territoriale limitato. Questo sostegno ad un femminismo più “culturale” e meno esplicitamente politico rivestirà particolare importanza per il femminismo degli anni Ottanta. Quello che i gruppi di donne continuano a rivendicare, tuttavia, non è solo una presenza quantitativa nelle istituzioni, quanto una partecipazione autorevole, senza precisi confini tra pubblico e privato, ma che all’interno i questi confini potesse muoversi liberamente. Nota Anna Rossi-Doria che le elaborazioni del pensiero della differenza hanno trasmesso una visione per cui «proprio il femminismo italiano, che aveva avuto un carattere di massa superiore a quello di ogni altro paese, è stato rappresentato come un percorso teorico di piccoli gruppi o singole pensatrici, sia pure grandi. Negli anni Settanta, a differenza di quel che avvenne in seguito, il femminismo italiano era stato invece prima di tutto una pratica politica che aveva profondamente trasformato la coscienza e la vita di molte migliaia di donne, in tutte le regioni italiane, in città grandi e piccole, anche in moltissimi paesi» (Rossi-Doria, 2005: 3). Le differenze tra il modo di sentire e vivere il femminismo dopo gli anni Ottanta hanno a che fare con un diverso modo di rispondere alla domanda su che cosa sia la politica. L’oggetto della politica, in molte testimonianze, non è più un gioco per pochi eletti, ma una realtà costituita concretamente dai vissuti delle persone. Una realtà in cui non si può continuare a giocare, ma in cui occorre mettersi in gioco, percepirsi come eticamente responsabili del cambiamento. L’obiettivo è la realizzazione del cambiamento, nonostante le sconfitte le battute di arresto. Un cambiamento che deve affrontare, ancora una volta, la sfida delle istituzioni, del dilemma dentro-fuori:


Per ora sono ‘tornata a casa’, nel luogo più sicuro della Biblioteca delle Donne. Uno scacco? Forse, ma credo di avere imparato molto dall’ esperienza in Comune e anche dallo scacco, perciò non me ne pento, anzi. E, in ogni caso, non posso non essere contenta della gratitudine che mi dimostra ancora oggi la gente per come il lavoro è stato svolto; se non hanno dimenticato, anche per loro deve essere stata un’esperienza particolare (Assunta Di Cunzolo)


Non faccio un discorso generale, non so fare previsioni universali. Parto da me e dalla mia esperienza. Qui in Calabria non la vedo tanto bene. Ci sono singole esperienze che continuano ad essere significative, forti, e a rappresentare dei momenti anche importanti per le donne in Calabria, però manca il collegamento, forse un progetto politico che – anche al di là delle singole appartenenze – riesca a ricostruire degli obiettivi – all'interno delle istituzioni, fuori...Se penso che in Consiglio regionale, dal '90 ad oggi, in fondo che cosa è cambiato? Io sono stata unica consigliera regionale per 5 anni, poi siamo state in 4, poi nessuna, ora due. Insomma c'è ancora una distanza enorme dalle istituzioni. Questo significa ancora molta strada da fare all'interno delle istituzioni politiche, nonostante tutto, e c'è secondo me in Calabria – nonostante esperienze che io so essere significative, penso ad Emily, le donne di Soverato, dell'Università, del Lanzino, alcune donne dell'Unione che so si stanno muovendo in questi mesi per costruire una forma di collegamento – però vedo ancora molta improvvisazione (Rosa Tavella)


L’associazione [Federcasalinghe], di recente, ha assunto tra le sue funzioni quella di istituire dei Patronati. Siamo in procinto di aprire il patronato provinciale , che sarà ubicato a Catanzaro, affiancato da altre sedi zonali. L’associazione, in questi ultimi tempi, è cresciuta notevolmente, e si è trasformata in Holding sociale (che non si rivolge solamente alla casalinga, ma alla famiglia) con numerosi settori di intervento, dando vita ad una formula che possa coniugare il concetto di holding economica vera e propria con quella di economia sociale, attraverso un gruppo di tredici organismi che interagendo tra di loro possano offrire una migliore qualità di vita. Tra questi ci sono: Informafamiglia per informare ed essere di servizio; Fondo pensione famiglia per rappresentare una certezza per il futuro; Incontro S.p.A. Lavoro interinale per i servizi alla famiglia; Domina – sindacato della famiglia; Progetto salute per il benessere della famiglia (Anna Parrello)


Sono tornata con le donne adesso, nell'ultima campagna elettorale, quando ho fatto questo coordinamento regionale delle donne dell'Unione, e c'è stata una risposta immediata. Su questo lavorerò adesso, dovrò preparare uno Statuto, insieme ad un'altra, per dare un taglio giuridico a questo coordinamento...Adesso io sento che la politica si deve fare in altro modo: non si può prescindere dal disertare i luoghi maschili della politica, bisogna essere lì, altrimenti non incidi. Bisogna essere lì e avere idee chiare e obiettivi precisi: questo è il mutamento di fondo.[…] Con tutti i dispiaceri che mi sono presa, e i conflitti più cocenti, tuttavia tu devi imparare a nuotare in quel mare, con la consapevolezza del tuo percorso, di cosa tu vedi che gli altri non vedono. Ma misurarti con la politica: questi gruppi sono una voce nel deserto, non hanno un impatto con la politica; non si può tornare a fare le conventicole, i convegni delle donne con le donne solo. Ormai bisogna fare i conti con questi Moloch maschili che sono i partiti, che sono in via di disfacimento, ma in cui noi non siamo entrate.[…] A me non vanno più le Commissioni femminili nei partiti. Non mi va più questa figura ibrida: la portavoce delle donne. Che vuol dire? Che senso ha? A me va di misurarmi ex aequo, consapevole della mia differenza di genere - e tutta la mia cultura e la mia storia diversa – in tutte le attività della politica, negli organismi dei partiti, nelle cariche elettive, nella politica nelle sedi dove si fa. Questo dovrebbe essere. Allora le elucubrazioni di riformare l'UDI sono elucubrazioni che appartengono al passato che non esiste più. E' un ritagliarsi una specie di orto dove lavori tu e basta. Non è che dobbiamo continuare...I campi di esplorazione li abbiamo esplorati tutti; l'elaborazione era arrivata ad un punto alto. Anche la Luisa Muraro ci aveva dato una serie di indicazioni: il rapporto madre-figlia, il riconoscere un'altra donna come fatto fondamentale della politica...abbiamo detto tutto quello che si poteva dire. Quello che ci è mancato è stato il fare, il misurarci nelle sedi, nei luoghi della politica; avere uno scontro, dove esci perdente, esci forse anche perdente perché sei sola, perché continui a trovare le donne che sono subalterne agli uomini. A me interessa fare politica a questi livelli, del resto non mi interessa più niente. Non voglio fare la portavoce delle donne (Annamaria Longo)


Dove siamo, dove stiamo andando? Mi piace concludere questa narrazione ripercorrendo a ritroso una genealogia femminile, per come narrata da alcune intervistate:


Sono cresciuta in un’enorme famiglia di donne; ero la prima nipote e le mie sette zie, le sorelle di mia madre, hanno curato insieme a lei la mia prima educazione. L’immagine successiva della mia adolescenza, che ho recuperato solo molto tempo dopo, è l’incontro domenicale di mia nonna con le figlie sul terrazzo della casa materna. Godevano della loro compagnia in quelle poche ore pomeridiane concesse dall’assenza di lavoro e dei mariti dedicati al tifo allo stadio. Abbastanza acculturate per l’epoca – diplomate, frequentanti l’Università o laureate tranne una zia disabile e mia madre che aveva dovuto abbandonare per vicende legate alla guerra che, a Battipaglia, dove sono nata, era stata sofferta molto; anche mia nonna aveva frequentato il ginnasio in collegio e dava molta importanza all’istruzione. In quella famiglia veniva riconosciuta intelligenza e valore a ciascuna, anche alla zia disabile che aveva il compito della gestione della famiglia e della casa. Perciò, tutte e tutti –mio padre, particolarmente, che aveva dovuto interrompere gli studi per lavorare e poi arruolarsi volontario per la sciagurata guerra d’Africa- mi avevano spinto a studiare, a coltivare ambizioni non necessariamente legate ai ruoli allora rigidamente assegnati alle donne. Ma non avevo la libertà di movimento e di relazioni dei miei fratelli, anzi non avevo nessuna libertà se non quella di studiare: non potevo uscire di casa se non accompagnata da qualche parente, né potevo avere amici e tantomeno frequentare i compagni di classe al di fuori della scuola, nella quale eravamo rigidamente separati tra file di banchi per ragazze e quelle, più numerose, di ragazzi, quando non eravamo in classi esclusivamente femminili. Tra diffidenze e conflitti potevo frequentare, a casa mia, l’amica del cuore [… Non dimenticherò mai la severa maestra Bonanno delle scuole elementari o la dolce Wanda che insegnava italiano alle medie e le docenti delle superiori, Cino di filosofia e Gambino di matematica che insegnavano le materie da me preferite. Non ricordo più i nomi dei professori maschi, tranne uno, Guerriero, che al ginnasio insegnava italiano e greco. Avevo già acquisito allora la piena consapevolezza che intelligenza e capacità delle donne non fossero affatto inferiori a quelle dell’altro sesso, anzi. Piuttosto ero piena di rabbia per come venisse limitata la nostra libertà e non ne comprendevo il motivo reale (Assunta Di Cunzolo)


Ero sempre vissuta con le donne: ho studiato dalle suore salesiane che hanno contribuito molto alla mia formazione culturale e morale. In particolare, recupero nel mio ricordo, Suor Nicoletta – anziana - e Suor Clemenza – giovane - che, comprendendo il mio carattere ribelle alle convenzioni e alle ipocrisie, mi hanno aiutata a capire e a mediare nei rapporti con le altre/i. Sono state le mie Maestre insieme con mia madre, prima di sei figli (tre sorelle e tre fratelli) in una famiglia, con tanti problemi, che lei ha governato fin da giovanissima (a Soverato, allora, c’era solo l’Istituto Magistrale “Maria Ausiliatrice” per le donne e il Liceo Classico “Don Bosco” per i maschi). Ho fatto l’Università al Suor Orsola Benincasa di Napoli, Magistero solo femminile soggiornando al pensionato delle suore, sempre salesiane (Marisa Rotiroti)


Avevo questa idea di separatezza...Io sono stata cresciuta in un gineceo. La cucina di casa mia era una cucina rurale, grande. In fondo c'era il caminetto, mio padre; qui c'era il braciere e c'era mia madre. Non erano mondi contrastanti, erano mondi separati. Io mi sono cresciuta con questa idea, che possiamo stare nella stessa stanza, abbiamo dei momenti insieme, però...le risate, l'apprendimento, quello avveniva qui; lì ne avveniva un altro, venivano delle persone a chiedere dei pareri, a farsi scrivere delle lettere. Parlo degli anni '50. Lì venivano per un motivo, qui venivano per un altro. Secondo me quella è la misura del mondo (Fulvia Geracioti)


Questo mio pensiero positivo sulle donne è da ricondurre al mio vissuto durante l'infanzia e la giovinezza. Durante l'infanzia sono stata educata con amorevole cura da mia madre e da alcune mie zie che non erano sposate, che per me hanno rappresentato il prototipo dell'intelligenza, dell'intuizione, della comprensione, dell'amore e della capacità di proiettare le loro idee in un futuro lontano. Ho avuto la fortuna anche nella mia giovinezza di avere un gruppo di amiche splendide, alle quali ho dato tanto affetto sincero e tanta disponibilità, ma dalle quali ho ricevuto anche tanto affetto che dura ancora adesso...quando ci rivediamo, anche per poco, sembra che ci vediamo ogni giorno! Da loro ho ricevuto tanto affetto, stima e considerazione di me, mi hanno sempre dimostrato tutto questo. Questo mi ha sempre spinto a fare di tutto, infatti con loro facevo teatro, organizzavo concerti, insomma...ci divertivamo tanto, però io ero l'anima della compagnia...avendo sempre il loro incondizionato appoggio morale e materiale. Il loro supporto non mi è venuto a mancare mai, anche se da 35 anni manco dal mio paese natale, Palmi. Ecco perché io credo nei gruppi e nelle relazioni tra donne, anche se a volte ci sono delle divergenze, ma c'è sempre un arricchimento tra donne, anche quando si scontrano (Francesca Lovecchio)






Postfazione. Utopia della memoria

Percorsi di gruppi di donne nella provincia di Catanzaro


[…questa per me è un’occasione tanto fortunata

quanto difficile per ripensare ad anni per molti versi

straordinari che hanno segnato tutto il resto della

mia vita, ma il cui senso unitario non so ancora cogliere.

Fortunata per la luce di nostalgia che porta con sé

la rievocazione di una rarissima stagione di

felicità pubblica”; difficile perché quello che cominciò

allora, per me come per tante più giovani di me,

non è finito, il che ostacola la necessaria distanza critica

(Anna Rossi - Doria)


Come eravamo, vent’anni fa, trent’anni fa, ieri? E come rimane viva in noi, donne del femminismo, donne dei “gruppi organizzati”, la memoria del nostro essere diventate donne adulte in una fase storica di effervescenza collettiva? Che cosa è rimasto, e che cosa, magari avremmo voluto dimenticare, rimuovere? A partire da oggi appare sorprendente fino a che punto fossimo state parte, anche a nostra insaputa, di processi culturali e sociali più vasti. Amelia Paparazzo, nella sua introduzione, rimanda a connessioni di tipo verticale: le donne del Sud, le antenate, le “madri” reali e simboliche, segnate dai destini di quella emigrazione che profondamente ha strutturato, sovvertito, ma anche arricchito le traiettorie biografiche di gran parte dei calabresi e delle donne calabresi in modo particolare.

Io invece vorrei soffermarmi sulle connessioni di tipo orizzontale. Vale a dire i fermenti di movimento che ci hanno attraversato in questi decenni e che fanno sì che siamo diventate, pur con grandi diversità rispetto alle singole strategie politiche e culturali delle varie espressioni del femminismo, tutte parte di quel “popolo delle donne “ di cui parla Luce Irigaray.

Ho letto le interviste, i documenti e le analisi di questo testo con piacere e con una certa emozione. Ho riconosciuto e ricordato incontri ai quali ho partecipato, ma, di più ancora, questa lettura mi ha fatto rivedere situazioni analoghe in altri contesti. E questo è ciò che intendo con connessioni orizzontali: lee mie esperienze concrete si riferiscono a contesti diversi come Milano, Cosenza, Cagliari, infine anche un pezzo di California e di New York. Eppure la vivacità della discussione, le tematiche, il tipo di conflitti fra donne presentano molti tratti comuni. Eravamo in movimento, letteralmente. Partecipanti di una rete molto vasta e articolata. Credo che si possa dire che la ricostruzione non sistematica dei gruppi di donne in un raggio territoriale piuttosto ristretto (Catanzaro, Soverato, Lamezia) ci offre, tuttavia, uno spaccato ampio delle questioni in discussione, dal rapporto con i partiti alla doppia militanza, dalle inquietudini della sessualità al rapporto con la salute e con le istituzioni della “mala sanità”. Dal lavoro femminile tra produzione e riproduzione all’intellettualità diffusa, al desiderio e ai conflitti tra donne. Dall’uguaglianza alla differenza. Darsi valore (finalmente), prendere la parola, gestire il proprio corpo….osare.

Più che una ricostruzione sistematica questo testo rappresenta un esercizio della memoria: guardarsi dentro e guardare indietro per lanciare in avanti. Ma verso chi, con chi e per mettersi in relazione con chi? Sotto questo profilo, implicitamente – ma in alcune testimonianze anche in modo esplicito – le donne che incontriamo in questo testo pongono la questione della trasmissione generazionale. La difficoltà di trasmettere alle giovani generazioni, alle figlie, l’esperienza e lo spirito di creatività che ha connotato quegli anni è stata variamente tematizzata. Senza peraltro ricevere risposte esaurienti. Risposte forse impossibili, perché la domanda potrebbe essere stata posta male. Intendo dire che, magari, dovremmo renderci conto che loro, le figlie, sono persone autonome che hanno bisogno di fare le loro proprie esperienze. Sono ragazze che crescono in un mondo diverso dal nostro di allora, partono da presupposti oggi “ovvi” che sono anche risultato delle nostre lotte, ma che, tuttavia, ormai sono parte integrante del contesto sociale. Le nostre “conquiste” in termini di libertà, autonomia, accesso ad una serie di servizi, garanzie legislative ecc., a loro sembrano scontate, fanno parte del senso comune. Oggi altre appaiono le priorità, altre le mete da conquistare: la convivenza interculturale, le sfide della globalizzazione, il disastro ecologico e così via. Strada facendo incontreremo sempre di nuovo alcuni nodi che erano anche problemi prioritari per noi, come la sessualità, il potere, l’oppressione patriarcale. In modi analoghi e, insieme, diversi. E allora, forse si ricorderanno o scopriranno i nessi tra la loro e la nostra esperienza. Ho fiducia che di volta in volta capiranno, compiendo un proprio percorso, analogie e dissonanze. In un certo senso è significativo che questo testo si appoggi ad un rapporto intergenerazionale: due giovani donne, Maria Marino e Giovanna Vingelli, che interloquiscono con le protagoniste e le testimoni del movimento. Le “figlie” che interrogano le madri, semplicemente.

Ma torniamo alle protagoniste. Si ha l’impressione che tutte rispondano con interesse e piacere alle sollecitazioni della memoria. Alcune sottolineano che volentieri colgono l’occasione di uscire dal silenzio. Vale a dire da una fase, parte degli anni ’90, che da molte è stata vissuta come un periodo stagnante. Ci sono alcuni filoni che attraversano queste testimonianze, come la questione del potere, il rapporti con la politica e i partiti, il dentro e il fuori dalle istituzioni e la relazione fra donne. Parità o disparità? Uguaglianza o differenza?

Possiamo dire che le interviste, i racconti, i ricordi ci svelano una doppia realtà: da una parte una cronaca di avvenimenti, lotte politiche e vicende italiane di quegli anni, dall’altra una storia nascosta, quella in un certo senso intrecciata e parallela del femminismo, tutta ancora da scrivere. Prendiamo ad esempio la storia dell’UDI, organizzazione nata durante la Resistenza dai Gruppi di difesa della donna, che si era impegnata nel corso degli anni ’50 e ’60 in innumerevoli battaglie per l’affermazione dei diritti delle lavoratrici madri, nel solco della tradizione egualitaria ed emancipazionista. Nel corso delle battaglie attorno alla legge 194 l’UDI si avvicina al Movimento femminista e, dopo un ricco dibattito interno, l’associazione approderà al proprio autoscioglimento nel Movimento nel corso dell’XI congresso. I racconti delle protagoniste ci portano nella realtà di una città di provincia meridionale come Catanzaro dove l’UDI rappresenta un punto di riferimento importante. Diversamente dal Centro - Nord, qui le militanti sono in gran parte donne della media borghesia, colte, illuminate e assai combattive. Capaci di toccare temi, come la sessualità e la riproduzione largamente ancora tabù. Forse è proprio tale retroscena sociale che permette loro di mettersi contro l’ospedale, la sanità e la burocrazia - e parte dei propri compagi. Sono battaglie su almeno due fronti, verso il proprio partito di riferimento, il PCI, o il PSI, da una parte, e verso i collettivi femministi dall’altro.

L’eterogeneità delle appartenenze politiche e culturali degli anni ’70 sembra essere attraversata da una comune e dolorosa tensione, quella tra lo stile e i contenuti della politica tradizionale o maschile dei partiti e dei gruppi extraparlamentari da una parte, e la rivendicazione del Movimento delle donne di prendere la parola e di considerare il personale politico. “Partire da sé” è, contemporaneamente, una questione politica e una questione metodologica. Due contesti che si sovrappongono: il rapporto con i partiti della sinistra storica e con i gruppi politici nati nel ’68 e il rapporto con “le altre”, le altre donne dentro e fuori dai partiti e dai gruppi. Perché donne e basta.

Nel passaggio dagli anni ’80 e ’90, come per incanto, la situazione cambia sostanzialmente. Gli anni Ottanta registrano, in tempi un poco sfasati, il crollo di tutti questi contesti, abitati dai corpi politici dei fratelli, dei padri e delle sorelle. Da questa tragedia familiare si salverà fortunosamente la madre, già emersa in carne e ossa nei collettivi (e precipitosamente sepolta), e resuscitata simbolicamente dal femminismo della differenza (Baeri, 2005:25). Chi in un modo, chi nell’altro entra in contatto con il “Sottosopra Verde”, con l’elaborazione della “differenza sessuale”, proposta da Libreria delle Donne di Milano e rappresentata da Luisa Muraro, figura carismatica, in particolare.

Siamo negli anni “craxiani”, quelli dei nuovi modelli manageriali, competitivi, paritari ed economicisti, che elogiano il modello della donna in carriera e del manager rampante.

Quasi una fuga inconsapevole da quel sé centrato sui corpi del desiderio che aveva riempito i luoghi politici degli anni precedenti: nessi da individuare, forzature da evitare”, avverte Emma Baeri, e prosegue: “Eppure, come non cogliere tra le righe del lessico del “Sottosopra” verde del 1983, una certa assonanza con quel clima ? curiosamente, infatti a rileggere quel testo importante che affermava a chiare lettere la necessità di uscire dalle secche del femminismo dei conflitti – diritti (quello che aveva portato all’approvazione della legge 194 sull’autodeterminazione della maternità e che aveva raccolto le firme per presentare una proposta di legge contro la violenza sessuale), si colgono parole inusitate alle nostre orecchie di allora: relazione significativa duale, dispari perché modulata sulla relazione madre – figlia, e sulla messa a punto di una voglia di vincere nei commerci sociali attraverso la conquista di un agio visibile, di cui l’affidamento, imprevedibile parola feudale, era strumento e fine. La tradizione egualitaria, che il femminismo storico aveva più o meno esplicitamente mutuato dalle sue origini libertarie-la sorellanza tra uguali - veniva liquidata assieme al suo retroterra teorico e alle sue risorse politiche, non ultima quella legata al nesso tra femminismo e democrazia, che veniva d’un colpo cancellato dalla riflessione politica di quella parte del movimento. (Baeri 2001:26).

Ho voluto riportare in modo esteso le parole di Emma Baeri perché segnano con pregnanza un punto centrale del dibattito di quegli anni che ha visto protagoniste le donne del movimento, indipendentemente dalla collocazione geografica, al nord, al sud, al centro. E perché di questa discussione troviamo ampia traccia nelle testimonianze di questo libro. La fascinazione del pensiero della differenza colpì un po’ tutte, ma poi le storie ed esperienze delle singole donne portarono a modulazioni diverse. Chi aveva alle spalle una formazione laica temette l’alone sacrale di quel pensiero; chi aveva fatto autocoscienza o attraversato un’analisi diffidava della seduzione della madre simbolica; chi cercava certezze e soluzioni abbracciava con entusiasmo il nuovo amore. Ciò che è certo, il pensiero della differenza non lasciò indifferente nessuna e fu- qualunque fossero i singoli percorsi- uno stimolo forte per andare avanti. Nel caso specifico delle nostre testimoni, il “salto” nella differenza generò gioiose esperienze collettive, associative, creative e letterarie, per alcune. Per altre incentivò un ritorno alla politica, alle istituzioni e alla società civile in modo diverso da prima; e per altre ancora portò verso nuove forme di spiritualità e di impegno nel volontariato.


Renate Siebert



































INDICE



INTRODUZIONE...........................................................................................................4


  1. PRIME FORME ORGANIZZATIVE:

L’UDI ACCANTO ALLE LAVORATRICI DELLE CAMPAGNE....................................9

1.1 L’UDI di Badolato................................................................................................10

1.2 La lotta affianco alle raccoglitrici di olive.............................................................14

1.3 La Fidapa di Catanzaro.......................................................................................19


  1. LA SVOLTA DEGLI ANNI SETTANTA:

LE POLITICHE SOCIALI E I COLLETTIVI.................................................................22

2.1 UDI: Circolo di Catanzaro...................................................................................26

2.2 UDI: Circolo di Soverato.....................................................................................38

2.3 UDI: Circolo di Lamezia Terme ..........................................................................46

2.4 Collettivo femminista Via Casa Arse...................................................................51

2.5 Collettivo Femminista di Lamezia Terme.............................................................55

    1. Fidapa di Lamezia Terme...................................................................................62


  1. GLI ANNI OTTANTA E NOVANTA.

ORGANIZZAZIONI FEMMINILI: IMPOSTAZIONE E ATTIVITA’................................63

3.1 Kore, Tempo di Marea..........................................................................................64

3.2 Centro Lilith, Le Lune...........................................................................................68

3.3 Federcasalinghe, Fidapa di Soverato...................................................................73

3.4 La Biblioteca delle Donne Kore - Fidapa...............................................................77


  1. IL RACCONTO............................................................................................................81

Parole e silenzi............................................................................................................81

Desiderio e scelta: i luoghi delle donne......................................................................86

Relazioni e conflitti....................................................................................................120

Uno spostamento di sguardo....................................................................................130


BIBLIOGRAFIA .............................................................................................................

1 A. Rossi Doria, Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia, Giunti, Prato 1996, p. 94

2 Brano tratto dall’intervista ad Assunta Di Cunzolo

3 Raccolta da Giovanna Vingelli in un’intervista.

4 Ibidem

5 Brano tratto dall’intervista a Rina Trovato

6 «L’Unità», Le raccoglitrici di olive lottano per mutare le strutture nel Sud, 14 novembre 1961

7 «Noi Donne», Il tramonto dei caporali e dei fattori, dicembre 1961

8 L’Unione Donne Italiane per le raccoglitrici di olive, U, Documento approvato nell’incontro con le raccoglitrici di olive della Calabria e del Mezzogiorno svoltosi il 12 novembre 1961, Archivio Centrale UDI, DoCam 61.1\ 10

9 Ibidem

10 «Noi Donne», Il tramonto dei “caporali” e dei” fattori”, dicembre 1961

11 Ibidem

12 Dal “Decalogo” della Presidente Nazionale

13 Brano tratto dall’intervista a d Anna Maria Longo

14 Il Giornale di Calabria, Dare alle donne assistenza e asili nido, 13 gennaio 1973

15 Relazione di Anna Maria Longo, Archivio Centrale UDI, 8 74.8\20

16 Documento del comitato provinciale UDI, Catanzaro, 18 febbraio 1975

17 Ibidem

18 Il Giornale di Calabria, Una lettera aperta dell’UDI, 27 novembre 1979

19 P. Melchiori, Crinali. Le zone oscure del femminismo, La Tartaruga edizioni, Milano 1995, pag 39

20 Ivi, pag 41

21 Brano tratto dall’intervista a Fulvia Geracioti

22 Vedi documento del Collettivo femminista di Lamezia Terme

23 Tra i testi di Emmanuelle Marie: Un Dio del quotidiano, Riflessioni sui vangeli B, Messaggero, Padova 2002

24 Testimonianza raccolta durante il mio incontro a Lamezia con alcune donne del Centro Lilith. In questo caso a parlare è Gabriella De Pascale

25 Non a caso le ricerche privilegiano l’utilizzo della fonte orale per le vicende personali e dei gruppi delle femministe (Passerini, 1982)


26 Questa situazione dovrebbe mettere in parte al riparo dal rischio che paventa Lea Meandri, «quando si diventa ‘testimone’ o ‘memoria storica’ di un fenomeno collettivo […] si corrono inevitabilmente dei rischi. Si può essere portate, quasi senza accorgersene, a mettere in primo piano ciò che è stato più vicino alla propria esperienza, e a isolare gli aspetti ritenuti più originali di quell’evento. Si finisce così per lasciare in ombra, non solo il contesto generale in cui il femminismo si è mosso, ma anche le spinte più interne che lo hanno attraversato» (Melandri, 2005: 82). Eludere il rischio di un coinvolgimento eccessivo e di riprodurre momenti di identificazione, che avrebbero rischiato di impedire una ‘presa di distanza’ dal fenomeno che si stava studiando. Il distacco emotivo ed esperienziale, tuttavia, non ha impedito di affrontare le interviste con partecipe curiosità, unita ad un atteggiamento, tuttavia, potenzialmente più critico.


27 Questa scelta metodologica presenta anche alcuni aspetti critici, come evidenziato, fra le altre, da Fossati: «La fonte audio-video, fra l’altro oggi così ampiamente usata, così manipolabile e manipolata, da un lato esalta le possibilità di autopresentazione di un soggetto, dall’altro come mezzo che sollecita un protagonismo e contemporaneamente intimidisce, con lo scorrere inesorabile della registrazione stimola a coprire i silenzi, ad accelerare i discorsi, colmare i vuoti; crea un’esigenza di teatralizzazione che può influire sui ritmi della narrazione, forse anche sul flusso della memoria, che è sollecitata a frammentare/narrare in tempi rapidi. Un secondo aspetto riguarda la leggibilità/fruibilità della fonte. Nell’utilizzo delle fonti orali la trascrizione costituisce una fase molto importante e problematica: è veramente “fedele” quando rende con efficacia ciò che è stato detto, e quando chi trascrive esplicita i criteri con cui ha effettuato la trascrizione. In altre parole, esiste un’estetica della trascrizione che consiste in una leggibilità godibile, che sappia unire fedeltà documentaria ed efficacia comunicativa. Ma, qualora si consideri la cassetta trascritta un materiale di indagine storica, anche le lungaggini, le ripetizioni, la stessa ripetitività dello stesso corpus di testimonianze risultano accettabili; in un certo senso, prima di tutto è importante salvare tutta l’informazione rilevante (la cassetta, ascoltata più volte, è pazientemente trascritta salvando lo stile narrativo, i modi del raccontare dell’intervistato/a)». (1994: 5)

28 La dimensione della perifericità è essa stessa argomento di possibile riflessione: è una connotazione certamente geografica, ma anche un invito a rivedere una nozione statica di centralità.


29 Veramente imparavi tutto…il discorso politico, lo stile di un volantino, il manifesto, le parole usate, l’ordine dei temi, l’agenda, tutto costituiva oggetto di attenzione e, a volte, di discussione; persino il colore, per esempio, di un manifesto. E quindi diventava una sorta di laboratorio di politica, in cui tutto convergeva a far arrivare delle motivazioni, delle letture, delle chiavi di interpretazione della realtà, in maniera assolutamente puntuale (Annalisa Marino)

30 Come puntualmente nota Ida Dominjanni, la contrapposizione uguaglianza/differenza è stata più apparente che reale, in quanto l’obiettivo polemico del femminismo degli anni Settanta non era stata “l’uguaglianza come istanza di giustizia sociale né come istanza di reale universalità (ovvero di bisessuazione) dei diritti politici, ma l’uguaglianza come neutralizzazione e omologazione” (Dominjanni, 1988: 120)

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