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BIBLIOTECA delle DONNE KORE -FIDAPA

SOVERATO

 

Uno sguardo... ...altro

Cineforum: raccolta di schede critiche

 

Gruppo di progettazione:

Teresa Ciaccio

Mara Gaudioso

Paola Nucciarelli

 

Maria Grazia Riveruzzi

Marisa Rotiroti

Coordinamento:

Maria Grazia Riveruzzi

Casella di testo: Gruppo di progettazione: 	Teresa Ciaccio 
	Mara Gaudioso 
	Paola Nucciarelli 
	Maria Grazia Riveruzzi 
	Marisa Rotiroti 
Coordinamento: 	Maria Grazia Riveruzzi

Realizzazione multimediale: Tina Alvaro

La foto di copertina è tratta dal libro “Jane Campion” (Dino – Audino Editore)

CHI SIAMO

L’idea della Biblioteca delle donne di Soverato è nata come realizzazione del desiderio di un gruppo di donne delle due Associazioni “Progetto donna Kore” e “F.I.D.A.P.A. “, gruppo che gestisce con passione la Biblioteca fin dalla sua istituzione nel 1995. È ubicata nel Palazzo di Città ed è stato possibile realiz­zarla grazie a un rapporto di scambio tra soggetti diversi: le due Associazioni su indicate e le Istituzioni: il Comune che ha concesso i locali e il Progetto Donna della Regione Calabria che l’ha finanziata. Per la diffusione dei saperi femminili ci siamo aperte al territorio con presenta­zione di libri, seminari di discussione e di riflessione sulla diversità dei saperi e del pensiero delle donne che, partendo dalla propria esperienza, ci offrono uno sguardo diverso della vita e della realtà nella quale viviamo. Consapevoli che la Scuola sia una palestra di formazione in cui le ragazze e i ragazzi prendono coscienza della propria identità e valore di genere, fondan­te del proprio esistere e indispensabile per rendere possibile una convivenza, civile e democratica anche fra culture diverse, abbiamo rivolto la nostra atten­zione alle/ai giovani delle scuole superiori. Per loro e per la cittadinanza tutta abbiamo realizzato progetti di Cineforum e Incontri con Scrittrici contemporanee.

Così, attraverso la comunicazione scritta e visiva ci proponiamo di rafforzare l’autorità femminile e di ripensare noi stesse e il mondo per abitarlo con mag­giore agio.

Per il Comitato di Gestione

La Coordinatrice Marisa Rotiroti

PREFAZIONE

Sono ormai quattro anni che la Biblioteca delle Donne di Soverato realizza pro­getti di cineforum per le classi degli istituti superiori e rassegne di film d’essay per la cittadinanza. La Biblioteca ha la finalità di dare visibilità e promuovere la creatività femmini­le in tutti settori della cultura, dalla narrativa alla poesia, dalla scienza all’arte, alla cinematografia. In quest’ottica si colloca la realizzazione dei cineforum che, frutto di un lavo­ro corale, ha visto coinvolte molte di noi in un unico desiderio. Quale desiderio ci univa quando abbiamo scelto di presentare film accuratamente selezionati? Innanzitutto volgere uno sguardo altro, e trovare un modo altro di racconta­re, un punto di vista femminile sul mondo, sulla vita: storie di donne viste dal-l’interno, storie di donne raccontate da altre donne. Rivedere film prodotti in tempi diversi, andare a riscoprire l’universo stesso delle donne e rivivere con loro i nostri sentimenti per trasformarli in storia è stata una meravigliosa avventura. Pensare al cinema e alle donne può riportare la mente alle femmes fatales, alle eroine, alle Giovanne d’Arco, alle comprimarie dell’eroe maschio, a tutte quel­le che hanno acceso i desideri degli uomini e che hanno contribuito a creare un pericoloso stereotipo di figura femminile, oggetto di consumo o sempre in fun­zione di… . Ma rivedere con uno sguardo altro il cinema e le storie delle donne può al tempo stesso mettere nella giusta luce il ruolo determinante di una madre, moglie, amante, amica, di donne non necessariamente legate ad un uomo, dare cioè un senso più fondante a tante esistenze comuni e non, spes-so trascurate o dimenticate, mettere in evidenza il comune sentire delle donne esaltarne la dignità, le frustrazioni, ma soprattutto quei valori che da secoli costituiscono le vere fondamenta della società. Il cinema, ieri come oggi, ha saputo rappresentare forse meglio di ogni altra espressione artistica, l’anima di un’epoca storica, di proiettare sullo schermo le speranze, le gioie e i dolori di una società in fieri e ha saputo influenzare con grande capacità lo spettatore/trice coinvolgendolo/a in questo fluire di senti­menti sempre diversi. Non è difficile immaginare quindi quale potere abbia avuto il cinema sull’im­maginario collettivo, quando l’autorità era essenzialmente maschile (registi) e alle donne erano riservati i ruoli di secondo piano o modi di essere di altri e quando cioè tutto un universo girava intorno agli uomini unici soggetti della “storia” fino a rasentare una quasi misoginia in generi come il Western o i film di guerra. Negli anni ’70 il movimento femminista ha rivoluzionato con le sue teorie i modelli dominanti allora in voga nel mondo cinematografico e ha distrutto lo sguardo patriarcale che irretiva in un gioco di desideri la figura femminile e l’im­maginazione dello spettatore. Ha dimostrato di poter rompere con la narrazio­ne classica e sessuata, di fondare un modo diverso di raccontare. Narrare non è mai asessuato, o neutro, occorreva trovare un linguaggio filmico “di genere”

in cui le donne si autorappresentano e rappresentano le proprie storie senza gli idola theatri. Dare spazio all’immaginazione femminile e al suo desiderio è stata un’opera­zione politica, di politica delle donne, un gesto di autodeterminazione in chia­ve estetica. Il linguaggio simbolico del cinema ha dato legittimità e cittadi­nanza ad un sentire “differente” ma reale che finora non aveva avuto visibi­lità nel gioco prettamente maschile della rappresentazione. Si intuisce come le nostre scelte cinematografiche privilegino il cinema delle donne con le donne, e come attraverso la rappresentazione delle loro storie abbiamo volu­to mettere in circolo i loro saperi, le loro emozioni, le loro gesta, la loro “sto­rica quotidianità”. Affrontando in una attenta sintesi temi diversi dell’universo femminile, que­sto volume raccoglie analisi e riflessioni maturate dalle donne durante gli incontri promossi dalla Biblioteca in occasione dei cineforum. La scelta dei film e le schede di lettura cinematografica sono state riferite alla promozione delle pari opportunità con lo scopo di rimuovere gli stereotipi di ruolo e di creare relazioni e cultura di genere.

Le tematiche più significative, affrontate nei dibattiti e recensite durante que­sto excursus, sono state:

La donna nel cinema e nella letteratura

Una rassegna di film tratti da libri di scrittrici e confronto tra linguaggio scritto e quello visivo:

                      Ragione e sentimento -di Ang Lee

                      Mrs Dalloway -di Marleen Gorris

                      Marianna Ucrìa -di Roberto Faenza

                      La casa degli spiriti -di Bille August

                      D’amore e ombra -di Betty Kaplan

                      Il colore viola -di Steven Spielberg

 

Donne e relazioni fra donne

Ricerca e ri-nascita di un modo nuovo di “fare politica”, intesa anticamente dai Greci come “l’arte del vivere bene insieme”, l’arte di creare relazione genealo­giche al femminile e di scoprire un mondo comune di valori, di sentimenti, di aspirazioni attraverso la trama sottile dei ricordi:

                      Piccole donne -di Gillian Arm Strong

                      Camilla -di Deepa Mehta

                      Gli anni dei ricordi -di Jocelyn Moorhouse

                      Anni di piombo -di Margareth Von Trotta

                      L’albero di Antonia -di Marleen Gorris

                      Relazioni pericolose -di Stephen Friars

 

Donne nel cinema e nella storia

Ricerca e confronto di immagini e ruoli femminili nel cinema e nella storia al fine di ricostruire un’identità femminile attraverso il recupero di genealogie che hanno valorizzato l’esperienza e la soggettività storica delle donne spesso dimenticata tra le pieghe della storiografia ufficiale:

                      Shakespeare in love -di John Madden

                      Storia di una capinera -di Franco Zeffirelli

                      Come eravamo -di Sydney Pollack

                      La scelta di Sophie -di Alan J. Pakula

                      Elisabeth -di Shekhar Kapur

 

Donne e religioni

Analisi dell’alienazione femminile all’interno delle tre religioni monoteistiche e del processo di emancipazione scaturito dal desiderio di autodeterminarsi delle donne, schiacciate dal secolare integralismo religioso presente nelle società di ogni epoca:

                      Il gioco dei rubini -di Boaz Yakin

                      Il cerchio -di Jafar Panahi

                      Agnese di Dio -di Norman Jewison

                      Giovanna d’Arco -di Luc Besson

                      Kadosh -di Amoi Gitai

                      Yentl -di Barbra Streisand

                      Jesus Christ Superstar -di Norman Jewison

                      La settima stanza -di Marta Meszaros

 

Maria Grazia Riveruzzi Paola Nucciarelli

Ragione e Sentimento

Tratto dal romanzo di Jane Austen

Regia: Ang Lee Sceneggiatura: Emma Thompson Fotografia: Michael Coulter Costumi: Jenny Beavan, Jonn Bright Musiche: Patrick Doyle Prodotto: Lindsay Doran

(USA, 1995)

2 Globi d’oro: sceneggiatura e film durata 135’

Personaggi e interpreti Elinor: Emma Thompson Marianne: Kate Winslet Brandon: Alan Rickman Willoughby: Greg Wise Edward: Hugh Grant

* a cura di Marisa Rotiroti

Il Film

Tratto dal romanzo “Sense and Sensibility” scritto con lucida ironia da Jane Austen, s’inserisce nel fertile filone che, da Jo March a Jane Eyre, offre la scena a figure cardine della soggettività femminile moderna.

“Una di quelle fate che vigilano sulle culle deve averle fatto compiere, appena nata, un volo per il mondo. Quando di nuovo fu posta a giacere nella culla, sapeva non solo come era fatto il mondo, ma già aveva scelto il suo regno. Aveva accettato che, se avesse potuto dominare quel territorio, non ne avreb­be desiderato altro”. (Virginia Woolf)

La storia raccontata da Jane Austen e ambientata nella provincia inglese d’inizio ‘800, prima dell’età vittoriana, nasce dal contrasto di carattere tra le due sorelle Dashwod: Elinor e Marianne. Tranquilla, ragionevole, piena di buon senso, pron­ta ad adeguarsi alle ragioni dell’ordine sociale in cui vive la maggiore Elinor (Emma Thompson); appassionata, estroversa, sensibile, incapace di accettare le regole che la società vorrebbe imporre al suo cuore Marianne (Kate Winslet). Alla morte del padre, (a causa delle rigide leggi britanniche che vogliono erede del patrimonio familiare il figlio primogenito), sono costrette a lasciare la casa di Norland, dove sono sempre vissute, al fratellastro Jonn. Si trasferiranno insie­me con la madre e la sorellina Margareth a Barton, nel Devonshire, in un mode­sto cottage, messo a loro disposizione da sir Jonn Middleton, con un appan­naggio di 500 sterline l’anno. Le due ragazze non possono aspettarsi granché dalla vita perché non hanno dote. Come conciliare, quindi, le speranze del cuore con le regole della società? La vita al cottage scorre abbastanza serenamente: le ragazze leggono, dipingo­no, suonano il pianoforte, fanno lunghe passeggiate, sono spesso invitate in

casa dei signori Middleton, che “conducevano un genere di vita in cui l’ospita­lità era pari all’eleganza. La prima era vanto di sir Jonn, l’altra della sua signora”. Sotto l’aspetto gentilizio, le conversazioni brillanti e frivole, le buone maniere della piccola aristocrazia di provincia s’intravede la condizione femminile dell’800, i rituali sociali, le forme esasperate di galateo, la fatica di adeguare buon senso e passioni senza farsi stritolare dalle convenzioni e dai pregiudizi. Elinor è innamorata di Edward Ferrars, cognato del fratellastro, un giovane incapace di dar voce al suo desiderio di abbracciare la vita ecclesiastica, per non contravvenire alle regole della buona società e a quelle della madre, che desi­dera per lui una brillante carriera nell’esercito. Egli, pur amando Elinor, non può mostrarle i suoi sentimenti perché da cinque anni è segretamente fidanzato con Lucy Steele, la quale, quando lui verrà diseredato dalla madre proprio a causa di questo suo fidanzamento segreto con lei (donna senza alcuna possibilità eco­nomica), preferirà sposare Robert, il fratello minore divenuto ricco. Elinor alla fine sposerà il suo Edward che diverrà rettore nella parrocchia di Delaford, di proprietà del colonnello Brandon, amico di sir Jonn e innamorato di Marianne. Il colonnello Brandon è un uomo di 35 anni serio e silenzioso e “quantunque il suo viso non fosse bello, aveva una fisionomia intelligente e modi particolar­mente signorili”. Marianne s’innamorerà del giovane Willoughby, “dotato di molte qualità, pron­ta immaginazione, vivacità di spirito e maniere aperte e cordiali. Era fatto in tutto e per tutto per attirare il cuore di Marianne, perché univa a quelle doti non solo una figura attraente, ma un naturale ardore dell’animo”. Egli, però, era superficiale e privo di scrupoli. Abbandonerà Marianne per sposare una donna ricca. Anche lui vittima di forti condizionamenti sociali, si riscatterà solo alla fine quando sa che Marianne è gravemente ammalata e corre da lei. Non potrà vederla, ma parlerà con la sorella, le confiderà la sua sofferenza, i suoi sensi di colpa e i sentimenti nutriti per Marianne. Nel film questo colloquio è sostituito da una scena molto bella: Marianne e il colonnello Brandon sposi escono dalla chiesa: sullo sfondo, in cima alla collina, un cavaliere su un bian­co destriero osserva commosso la coppia e si allontana al gran galoppo.

Il Principe azzurro non è altro che un cavaliere su di un cavallo!….”

“ Ragione e sentimento ” è la traduzione italiana di “Sense and sensibility” meno bella di quella let­terale “Senno e sensibilità” o, meglio, “Buon senso e sensibilità”. Sense e Sensibility hanno in comune non solo la radice, ma sono due elementi impre­scindibili della conoscenza, che passa attraverso i cinque sensi e ad essi associa un sesto elemento della coscienza che è relazione intellettuale: “l’acquisizione della capacità di ragionare in accordo con le cose” dice Nadia Fusini in “Uomini e donne” (Donzelli). Senno Elinor, sensibilità Marianne sono le due sorelle, personaggi femminili del romanzo. Opposti eppure uguali, sdoppiamento simbiotico della scrittrice, fratture tragiche di identità divise, esse rappresentano, con le sorelle Bronte e

Virginia Woolf, il conflitto di gran parte della letteratura femminile del tempo. La traduzione italiana “Ragione e sentimento” facendo riferimento ai due grandi movimenti culturali del secolo XVIII (Illuminismo -Ragione) e del secolo XIX (Romanticismo -Sentimento), è limitativa rispetto al significato più ampio di sense che, per me, è relazione intellettuale. Marianne, è vero, ama romanticamente, ma non al modo dello Sturm und Drang: ella mostra un modo di stare al mondo con la consapevolezza delle pro­prie fragilità senza arrendersi al desiderio (il desiderio indica una mancanza), vive intensamente le sue emozioni, si mette in gioco e... cresce, matura una nuova consapevolezza di sé, trova la sua misura. Come Ada in “Lezioni di piano” di Jane Campion, abbandona in fondo all’o­ceano il proprio pianoforte divenuto ingombrante e ricomincia a suonare su un nuovo pianoforte con un dito in meno, così Marianne, purificato sotto la piog­gia il suo dolore per l’abbandono di Willoughby , ritorna alla vita. (Questa scena nel film è stata risolta in maniera sbrigativa) Vivere in accordo con la realtà è il matrimonio di Marianne col colonnello Brandon. Il film, che ha guadagnato due globi d’oro per il miglior film e la migliore sce­neggiatura, è ideato da donne (Jane Austen, la scrittrice, Lindsay Doran la pro­duttrice, Emma Thompson la sceneggiatrice e protagonista) e diretto da un uomo, il cinese di Taiwan Ang Lee. Ang Lee riesce a combinare felicemente rigore formale inglese e magiche ispi­razioni d’oriente. Simile, infatti, a quello cinese è il microcosmo familiare e sociale della Austen: i riti fortemente codificati, il rispetto delle forme, la diffi­coltà nella comunicazione emotiva, l’assillo dell’armonia, la ricerca di un equili­brio tra gli opposti. Anche nella sapienza con cui sono inquadrati i paesaggi, i cieli, le piogge inglesi troviamo qualcosa di orientale. Il lavoro di Ang Lee, però, non sarebbe stato possibile se Emma Thompson non avesse sceneggiato, scandito, dialogato, riscritto il romanzo nel modo in cui lo ha fatto, rispettando il genio comico della scrittrice; se Jenny Beavan e Jonn Bright (i costumisti) non avessero mirabilmente ricostruito la moda britannica del tempo; se in definitiva non avesse avuto “gli ingredienti” che lui in qualità di “cuoco” (come si è definito in un’intervista rilasciata dopo la realizzazione di “Mangiare Bere Uomo Donna) ha messo insieme abilmente. In questa commedia, sostenuta dall’ironia e dall’umorismo, in cui il motore centrale è il denaro, la lucidità dello sguardo è conservata nella struttura espositiva agile, favolistica, che non fa sentire i 135 minuti della sua durata. I personaggi, dove “i deboli sono gli uomini (eccetto il colonnello Brandon ­Alan Rickman) e l’unica arpia è una donna (la sorella di Edward), sono inter­pretati da una affiatata squadra di attori inglesi tra i quali sarebbe ingiusto prima che ingeneroso stabilire una gerarchia di bravura. In prima fila Kate Winslet, l’appassionata Marianne... e Emma Thompson, la diciannovenne Elinor così degna nel suo self control”. (Rivista del cinematografo n. 4/96 Morando Morandini , critico cinematografico de “Il Giorno”).

La scrittrice: Jane Austen (1775-1817) e il romanzo

La figura di Jane Austen si staglia nel panorama europeo del XIX secolo come innovatrice nel campo del romanzo di costume al quale diede qualità d’arte. Ella s’inventò uno stile perfettamente naturale ed elegante, adeguato alle sue necessità e al quale rimase sempre fedele. Libertà di pensiero e pienezza d’e­spressione sono l’essenza della sua arte. La sua conoscenza e capacità di pene­trazione dell’animo umano, la sua consapevolezza ironica del conflitto tra spon­taneità e convenzione, tra esigenze della moralità individuale e della conve­nienza sociale ed economica, fanno di lei una grande scrittrice, antesignana del romanzo moderno secondo schemi che verranno poi seguiti senza significative variazioni da tutti gli autori/trici a venire; a lei si ispirarono sia Charles Dickens che Henry James. La straordinaria modernità di Jane Austen in termini di sensi­bilità, è stata riconosciuta tra gli altri da Virginia Woolf che nel bellissimo sag­gio “Una stanza tutta per sé” dice: “Scrisse come scrivono le donne” e poi, riferendosi a lei e alle sorelle Charlotte ed Emily Bronte, “fra le mille donne che scrivevano romanzi in quell’epoca, furono le sole a ignorare completamente i perpetui ammonimenti dell’eterno pedagogo: scrivi questo, pensa quello. Furono le sole a dimostrarsi sorde a quella voce (ora insistente, ora brontolan­te, ora condiscendente, ora ferita, ora dominante, ora scandalizzata, ora fami­liare) che non lascia in pace le donne, ma deve sempre inseguirle come una governante troppo onesta”.

Jane Austen, vissuta a cavallo tra il 700 e l’800, oltre ad aver impersonato le culture che hanno caratterizzato quei due secoli: la cultura illuministica e quel­la romantica, fu partecipe del grande mutamento che avvenne alla fine del 1700 (mutamento più importante delle Crociate e della Guerra delle due Rose): la donna della classe media comincia a scrivere. Questa scrive nella stanza di soggiorno della famiglia perché la famiglia di classe media possedeva sol-tanto una stanza di soggiorno. Jane Austen, figlia di un pastore protestante della contea dello Hampshire e set­tima di otto figli, scriveva in quella stanza di soggiorno dove era soggetta a molte interruzioni, ma dove aveva sempre dinanzi agli occhi lo spettacolo delle relazioni umane. Ebbe un rapporto particolare con la sorella Cassandra, che fu nfidente per tutta la vita. Cominciò a scrivere in età molto giovane esclusiva­mente per la sua cerchia familiare, ma questo non le impedì di fare un’analisi spietata e ironica dell’ambiente sociale del suo tempo; il piccolo mondo aristo­cratico della provincia inglese tra il 1700 e il 1800. La sua istruzione e quella di Cassandra alla Abbay Boarding School a Reading (troviamo qualche rassomiglianza con la scuola di Mrs Goddard in “Emma”) avvenne nella famiglia. Ebbero, come insegnante, oltre al padre, Mrs Cawly, moglie di un loro zio che era vissuta a Oxford. In casa imparavano a dipingere, a suonare il pianoforte, a …leggere anche: dalla biblioteca paterna che già nei 1801 contava 500 libri. Lesse parecchio sia della letteratura seria che popolare, e scrisse che nella sua famiglia erano grandi lettori di romanzi e non si vergognavano di esserlo. Le

furono familiari i romanzi di Fielding e di Richardson, molto meno inibiti di quel­li della successiva epoca vittoriana. Il suo primo romanzo “Ragione e sentimento”, pubblicato nel 1811, risale a una precedente stesura (1795) ora andata perduta, di quando era poco più che ventenne. E’ forse il meno perfetto dei suoi romanzi, ma, come scrisse il

Daiches “la cristallina precisione dello stile, la struttura equilibrata delle frasi e dei paragrafi, il quieto, abile ordine in cui succedono dialoghi e avvenimenti, sono già quelli delle opere maggiori”. La pubblicazione avvenne a suo rischio e fu anonima (By a Lady – da una donna). In seguito pubblicò: “Orgoglio e pregiudizio”, il suo capolavoro, “L’Abbazia di Northanger”, “Mansfield Park”, “Persuasione”, “Emma”. Della lettere (circa 100) scritte alla sorella non rimane quasi nulla, “Sandition”, iniziato nei primi giorni del 1817, non fu mai completato a causa della sua morte (pare, per il morbo di Hadson), avvenuta a Winchester venerdì 18 luglio 1817, dove si era recata per cure mediche. Fu sepolta nella Cattedrale di Winchester il 24 luglio. “Vergine Letteraria”, giace ora nella Cattedrale di Westminster accanto ad altri grandi della storia britannica. Da più di mezzo secolo in Inghilterra esiste un vero culto di Jane Austen e quel culto viene praticato da una piccola, agguerrita setta di lettori chiamati Janeites, che dagli anni ’80 in poi hanno seguito, analizzato e severamente giudicato le riduzioni televisive dei romanzi austeniani prodotti dalla BBC.

Jane Austen tra cinema e letteratura “Orgoglio e Pregiudizio” divenne un film MGM nel 1940, interpretato da Laurence Olivier e rifatto dalla BBC nel 1980 e nel 1995. La BBC Britannica produsse anche negli stessi anni “Sense and Sensibility” “Mansfield Park” fu realizzato nel 1966 e “Northanger Abbey” nel 1987. “Persuasione” ebbe due riduzioni televisive nel 1969 (TV) e nel 1988 (BBC). “Emma” è stato scritto e diretto da Douglas Mc Crath.

Il regista: Ang Lee

Il regista Ang Lee è nato nel 1954 in Taiwan. Dal 1973 al 1976 ha studiato tea­tro e cinema presso l’Accademia delle Arti a Taipei, e ha realizzato i suoi primi film in super 8. Nel 1978 ha lasciato il suo paese per gli U.S.A. dove si è lau­reato in Arte Drammatica all’Università dell’Illinois. In seguito ha fatto un master come regista all’Università di New York. Mentre studiava ha girato diver-si film brevi e anche un film di media lunghezza chiamato Fine Line (1985), che gli ha fatto vincere due premi (miglior film e miglior regista) al festival Universitario del cinema di New York. Ang Lee ha intrapreso una carriera pro­mettente con Pushing Hands (Mani che spingono) mostrato nel 1992 nella sezione “Panorama” a Berlino. “Il Banchetto di nozze”, nominato per un Oscar e per l’Orso d’oro al festival di Berlino nel 1993, è stato un successo di critica e un film popolare. Il tema esplo­

rato in questo film è il tema dell’identità, che fa dichiarare ad Ang Lee: “l’i­dentità per noi taiwanesi è un problema che la nostra breve, contraddittoria storia non può fornire. Nel “Banchetto di nozze” identità culturali, nazionali, familiari e individuali si contraddicono l’un l’altro”.

Il suo terzo lungometraggio “Mangia Bevi Uomo Donna” del 1994 è una com­media melodrammatica sui valori tradizionali cinesi mescolati con la modernità occidentale: i costumi ancestrali si fondono con rituali urbani in cui lo spirito della tradizione evapora lasciando posto solo per bugie e giochi. Quando parla della realizzazione dei suoi film, Ang Lee utilizza una metafora culinaria “essere chiamato regista dà un senso di potere……, ma in realtà non abbiamo alcun reale potere: tutto ciò che facciamo è selezionare gli ingredien­ti, mentre si gira, e metterli insieme durante il montaggio. In fondo il regista è solo un cuoco”. Nel 1995 ha diretto “Ragione e sentimento”, che gli è valso due Globi d’oro: migliore sceneggiatura e miglior film, e sette nomination all’Oscar. Nel 1997 è stato ospite presso l’Università dell’Illinois in occasione della rasse­gna cinematografica dei suoi film, sponsorizzata dal Centro di Studi per l’Asia Orientale e del Pacifico. Lo scopo del centro è coordinare, promuovere, sviluppare e divulgare gli studi dell’area orientale: Pacifico e Asia Orientale.

Gran Bretagna 1997 Regia: Marleen Gorris Soggetto e sceneggiatura: Eilen Atkins Musiche: Ilona Sekacz Direttore Fotografia: Sue Gibson Scenografia: David Richens Costumi: Judy Pepperdine Personaggi e Interpreti: Mrs Dalloway : Vanessa Redgeave Clarissa Dalloway: Natascha McElhone Septimus Warren Smith: Rupert Graves Peter Walsch: Michael Kitchen Richard Dalloway: John Stunding Peter giovane: Alan Cox Sally gio Vane: Lena Headey Lady Burton: Margaret Tyzack Durata: 97’

*a cura di Angiola Alferazzi

Il Film

Tratto dal romanzo omonimo di Virginia Woolf. L’azione è concentrata in un solo giorno. Comincia nel mezzo della vita della protagonista e poi ne comple­ta la parte antecedente e la seguente. Tutto si svolge attraverso le impressioni e i ricordi della mente di Clarissa e di alcuni personaggi. Non c’è trama, ma una successione di immagini che man mano prendono esistenza dinamica e sequenziale. Vi sono due linee intrecciate di sviluppo che si accentrano su due personaggi, Clarissa e Septimus, un reduce colpito da chock: Una linea segue il corso della giornata nello sviluppo lineare del libro, l’altra segue il profondo della coscien­za dei personaggi e porta l’uno verso la morte, l’altra verso il sospeso equilibrio della vita. Le vicende di Clarissa e di Septimus procedono parallelamente, dando l’impressione di una certa attinenza che verrà resa manifesta solo alla fine, quando i temi della vita espressi dal flusso della coscienza di Septimus­angoscia, aggressività, ma anche colori, suoni, uccelli che cantano in greco si raccolgono in lei. Attraverso il suicidio del suo alter ego Clarissa intuisce il signi­ficato della morte come momento di verità e di estasi. La cognizione del dolo-re la porta al riconoscimento del valore inestimabile della vita, alla consapevo­lezza di un nuovo senso dell’esistenza e della solidarietà.

Non c’è dunque trama vera e propria. C’è una situazione che nei fatti dura una giornata, mentre nel tempo interiore abbraccia due esistenze. L’azione è ambientata al centro di Londra ed è scandita dai rintocchi del Big Ben che del tempo rappresentano solo un’illusione. Perché il tempo il vero tempo non appartiene a nessun orologio, ma è il momento, l’attimo in cui un turbamento passa nella coscienza e la spinge a guardare nella sua profondità; è il tempo delle emozioni che segna il fluire di un mondo interiore, e che si ribella al tempo ufficiale perché è falso, perché non tiene conto della vera realtà, quella costi­tuita dal movimento della vita interiore, fatto di una serie di visioni in cui il fisi­co stesso della persona scompare. La protagonista non è descritta mentre progredisce nel tempo, ma è fissata nello spazio di un giorno, è presentata in tutte le sfumature del suo caratte­re,attraverso i continui riferimenti al passato. Se il tempo ufficiale tiene distin­ti passato e presente, nel tempo vero c’è una continua integrazione dei due momenti. Sicché il presente di Mrs Dalloway, moglie di un membro del parla­mento è continuamente mescolato al suo passato, ai suoi giorni a Burton, all’amore per Peter Walsh, al rapporto con Sally, così come il tormento pre­sente di Septimus è frutto dei ricordi che si presentano con insistenti flashback del periodo passato in guerra. Il ricordo, la memoria, movimenti essenziali della vita interiore, riuniscono l’unica realtà che è quella dell’esistenza interiore che avviene nella coscien­za attraverso stadi che avanzano sempre più incalzanti verso la visione fina­le, in cui avviene l’identificazione della realtà. Clarissa riesce a vincere il ter­rore del suicidio e a trovare attimi in cui conosce la gioia di esistere, mentre Septimus, il suo doppi, soccombe al pensiero del passato che gli riporta solo angoscia e morte. Nel libro, e con buoni risultati nel film, i fatti sono resi attraverso una serie di immagini, le sole a poter rendere il movimento della vita interiore. Come osserva il Praz, la tecnica della Woolf “potrebbe accostarsi a quella del pun­tinismo. Essa si sottopone ad una doccia di immagini, così come la vita ci mette sotto una doccia di sensazioni”. Virginia Woolf, lottando contro la limitatezza dei mezzi esressivi, cerca di espri­mere le sue visioni attraverso immagini, talvolta metaforiche; la loro funzione è di allargare ed espandere concetti, approfondire significati, comprendere mag­giormente i personaggi. In Mrs Dalloway troviamo insistenti le immagini del mondo Woolfiano:le onde, fluidità, mobilità delle cose, la stanza che rappresenta il rifugio segreto del pro­prio io, la finestra tempo esterno, il sole, il suono del Big Ben, che assumono tutte valore specifico e sempre diverso a seconda dell’attimo psicologico in cui il personaggio le recepisce. L’immagine che ricorre più frequentemente e con azione coordinatrice e rivelatrice è il Big Ben le cui campane con “suono mar­tellante” non solo forniscono la struttura esterno-temporale della storia, ma con la loro ossessività creano una tensione drammatica nella descrizione del pensiero e della vita dei personaggi.

La scrittrice: Virginia Woolf

Nata a Londra nel 1882, morì suicida a Rodmell nel 1941. È la terza figlia di Leslie e Julia Stephen, ma sia la madre che il padre avevano avuto altri figli da precedenti matrimoni. Il padre era un intellettuale famoso. Alla nascita di Virginia era impegnato nella compilazione del Dictionary of National Bibliography. La madre era bellissima, e come lei la nonna, una delle sette sorel­le Pratile, tutte famose per la loro bellezza. In più la settima, era una fotografa straordinaria. Come dimostrano le foto che farà a Virginia e a sua madre. Nella casa intellettuale e colta le fanciulle ricevettero un’istruzione privata, mentre i figli maschi furono liberi di frequentare l’università di Cambridge. È così che gra­zie al fratello Thoby, che Virginia e sua sorella Vanessa vennero in contatto con giovani uomini, che all’inizio del secolo sfidavano le convenzioni più brutalmen­te repressive della società vittoriana. I fratelli Stehen andarono ad abitare a Bloomsbury, allora un quartiere povero, che dominerà per un ventennio la vita intellettuale londinese. Darà un suo stile a un’epoca. Irriverenti, inquieti, i giova­ni di Bloomsbury volevano riscrivere la politica, l’economia, la letteratura. Fra questi c’è Leonard Woolf che Virginia sposò. Con questo nome, Virginia Woolf, firmò il suo primo romanzo, La crociera nel 1913. Con il marito fondò poi la casa editrice Hogarth Press, dove usciranno alcune opere sperimentali di questo seco­lo e i romanzi di Virginia. Nel 1941, un mese dopo aver terminato Tra un atto e l’altro, atterrita dai segni di un’ennesima crisi depressiva, spaventata dalla guer­ra (Il guerra mondiale), dalle sue promesse di morte, si lasciò morire annegando nel fiume Ouse che scorreva sotto l’amata casa di Rodmell. Le sue opere la confermano come tra le maggiori scrittrici di questo secolo, fra le numerose produzioni ne citiamo:

Notte e giorno – 1919 La stanza di Giacobbe – 1922 La signora Dalloway – 1925 Al faro – 1927 Orlando – 1928 Una stanza tutta per sé – 1929 Le onde – 1931 Le tre ghinee – 1938 Gli anni – 1937 Tra un atto e l’altro – 1941

La regista: Marleen Gorris

Mrs. Dalloway è diretto da Marleen Gorris, una regista olandese nata nel 1950. I suoi primi due films “A question of silence” (1982) e “Broken mirrors” (1984) le hanno guadagnato la definizione da parte della stampa di “eurofemminista arrabbiata”. Una definizione che la stessa Gorris rigetta preferendo considera­re il suo femminismo niente di più che “l’espressione di un punto di vista per­sonale” che poco ha a che vedere con l’ideologia politica o con la propria iden­tificazione con qualsiasi gruppo organizzato.

Dopo quindici anni di “oscurantismo olandese”, la Gorris ha ottenuto il rico­noscimento internazionale guadagnando l’Oscar per il miglior film straniero nel 1997 con “L’Albero di Antonia”. E’ stato questo successo a portare Eileen Atkins e Vanessa Redgrave a proporle la regia di “Mrs Dalloway”. I due films hanno qualche tema in comune. Entrambe le storie ritraggono una giornata nella vita di una donna, e tornano indietro con la memoria, sono ginocentriche col tema del lesbismo. In tutti e due i casi si tratta di un mondo senza Dio, nel quale si può vivere, ma non ci si può salvare. La sceneggiatura del film è di Eileen Atkins e sulla fedeltà o meno della riscrit­tura cinematografica i pareri sono discordi, in qualche caso nettamente negati­

vi. In verità la grandezza del romanzo, col suo linguaggio poetico lascerebbe perplessi sulla possibilità di un trasposizione così esplicita come quella cinema­tografica, ma lo stesso Joyce, la cui “stream of consciousness” è ancora più arcana si diceva in parte ispirato da ciò che allora era il miracolo della tecnica cinematografica. La Atkins ha dimostrato che è possibile il procedimento inver­so. Il film quindi è fedele all’autrice perché segue l’intenzione centrale della sto­ria; l’ambientazione è accurata, “tutto è nitido, levigato, ovattato, contenuto”.

Italia 1996 Regia: Roberto Faenza Soggetto: tratto dal romanzo di Dacia Maraini “La lunga vita di Marianna UcrìaFotografia: Tonino delli Colli Musica: Franco Piersanti Scenografia e costumi: Danilo Donati Personaggi e Interpreti: Marianna: Emmanuel Laborit marito – zio: Roberto Herlitza madre: Laura Morante nonno: Philippe Noiret il precettore: Bernard Girudeau Fila: Selvaggia Quattrini Saro: Lorenzo Crespi Laura Betti, Eva Grieco et altri….. Produzione: Cecchi Gori

*a cura di Francesca Lo Vecchio

Il Film

Il film ambientato a Palermo nella seconda metà del ‘700, racconta la storia di Marianna, giovane aristocratica muta fin dalla tenera infanzia. Il mutismo di Marianna è il tema principale del romanzo in quanto attraverso la negazione della parola la protagonista rappresenta la sua libertà interiore contro le con­venzioni sociali e le imposizioni familiari. Marianna vive nel suo mondo muto e silenzioso, ma ciò non le impedisce di vedere le grandi ingiustizie del mondo. All’età di 13 anni, ancora bambina è costretta, nonostante il suo netto e deciso rifiuto a sposare un vecchio zio. Marianna comincia la sua vita da donna coltivando comunque i suoi interessi e dedicandosi alla pittura. Metterà alla luce tre femmine e un maschio e da Palermo, contro la volontà del marito, si trasferirà in una villa di campagna isolata, ma piena di libri. C’è uno strano sodalizio fatto di complicità tra lei e il nonno che intuisce la sen­sibilità e l’intelligenza di Marianna alla quale lascia tutti i suoi averi scandaliz­zando l’intera famiglia. Marianna resta vedova molto giovane e manda avanti con caparbietà e decisione le sue proprietà, destando la meraviglia dei suoi lavoranti, che la consideravano una povera donna incapace. Soltanto Saro, il fratello della sua domestica le dichiara il suo amore, ma Marianna anche se attratta da lui, non riesce ancora a vivere liberamente e senza freni i suoi senti­menti e fa in modo che Saro si sposi, per poter così interrompere ogni loro rap­porto. Dopo tanto tempo, anche perché nel frattempo Saro perde la moglie in

modo tragico, Marianna si concederà delle ore d’amore con Saro, assaporando per la prima volta le gioie della passione. Nello stesso tempo scoprirà che il suo handicap non era congenito, ma che era insorto in seguito allo stupro subito a cinque anni proprio da parte dello zio-marito. Questa sconvolgente verità la porterà a riflettere sulla sua esistenza e a partire, allontanandosi dalla Sicilia, alla scoperta del mondo e di se stessa. Il suo mutismo è la rappresentazione simbolica del suo profondo dissenso e del suo rifiuto a comunicare con un mondo incapace di comprendere i sentimenti, gli ideali e le speranze di una giovane donna. Marianna può ritenersi una donna libera a tutti gli effetti, in quanto riesce a mantenere intatto il suo mondo inte­riore e a scegliere in prima persona: fare l’amore con Saro e poi decidere di abbandonarlo alla ricerca della libertà. Si affida alla lettura e alla scrittura e diventa così una donna colta e intelligente riuscendo a comprendere anche il marito con il quale non c’è mai stata un’intesa affetiva e sessuale; si rivolgerà a una solitudine voluta, non imposta, cercata con saggezza. L’altro tema del romanzo è la critica a un’aristocrazia immobile, oziosa e pigra. La figura di Marianna Ucrìa è stata ispirata all’autrice durante un viaggio a Bagheria, dove si era recata alla ricerca delle sue radici. La visita a Villa Valguarnera, casa nobiliare dei nonni materni, costruita nel ‘700 e la visione del ritratto di una sua antenata che vedeva fin da bambina, le ispireranno la prota­gonista del romanzo. Il libro, oltre a essere tra i più amati dal pubblico femminile, è stato stampato in più di 300.000 copie ed è stato tradotto in 19 lingue. Il film di Roberto Faenza resta più o meno fedele al testo letterario, ma sosti­tuisce la figura paterna con quella del nonno e mantiene il senso omertoso e ipocrita che unisce tutti i membri della famiglia in una complicità e in un silen­zio che è più forte di quello di Marianna. La metafora del silenzio è parte della cultura femminile tanto nella tradizione classica quanto nel presente cinematografico. “Non è che le donne non parli­no, o non siano capaci di esprimere il loro vissuto -afferma Maraini -ma spes-so la loro parola è sorda, non arriva da nessuna parte. È priva di prestigio e di potere. Per questo la storia di Marianna è molto sentita e condivisa. Perché è condiviso il suo silenzio”. Il romanzo “La lunga vita di Marianna Ucrìa”, pub­blicato nel 1990, ha ricevuto, in quello stesso anno il Premio Campiello.

La scrittrice : Dacia Maraini

È nata a Firenze nel 1936 da una coppia giovane, bella e contestatrice, il padre Fosco seducente e avventuroso e la madre Topazia Valguarnera di illustre nobiltà siciliana. Da questo matrimonio, oltre a Dacia nacquero Vuki e Toni. Abitavano a Fiesole, ma durante le vacanze tornavano nella villa di Bagheria, scontrandosi con la mentalità ristretta e schiava di pregiudizi dei parenti sicilia­ni. Bagherìa sarà dapprima oggetto di un rifiuto totale da parte dell’adolescen­te , solo più tardi diverrà il fulcro di un ritorno sia fisico che narrativo di Dacia.

La sua infanzia si svolgeva tra luci e ombre, c’era il contatto con la natura, c’e­rano le letture appassionate e c’era un rapporto con il padre, intenso, ma insi­diato da dolorose consapevolezze. Quando il padre abbandonò la famiglia Dacia soffrì moltissimo e scrive così: “Per tutta la mia infanzia l’ho amato senza esserne ricambiata”. Questa figura paterna la ritroviamo poi nelle sue scelte sentimentali (pensiamo a Moravia amato come un padre -bambino) “mi piac­ciono gli uomini molto vecchi che ritornano infantili” così lei scrive. Viene bocciata alla maturità e in attesa di pubblicare qualcosa, pensa a un impiego come segretaria e in questo periodo incontra Moravia. Nel 1962 Dacia diventa la compagna di Alberto Moravia che in quell’anno si separa dalla moglie Elsa Morante. In questo periodo pubblica il suo primo romanzo “Le vacanze” in cui c’è la rap­presentazione di una Bagherìa molle e corrotta. Lo stesso quadro di miseria fisi­ca e morale, la stessa Bagherìa meschina , senza ideali, la stessa solitudine di un’adolescente tornavano nel romanzo successivo “L’età del malessere” che viene pubblicato nel 1963. Nel 1967 pubblica un volume di racconti dal titolo “Mio marito” dove Dacia Maraini denuncia il costume maschilista, ipocrita e interessato che relegherebbe la donna al ruolo di angelo del focolare, dolce e sottomesso, privo di personalità e di autonomia. Da una sua inchiesta sul carcere di Rebibbia uscirà “Memorie di una ladra” nel 1972 e successivamente nel 1974 la poesia “Donne mie”, considerato da molti il manifesto del femminismo. La poesia è un’esortazione alle donne a ritrovare la propria dignità e libertà, responsabili loro stesse del loro stato perché non si oppongono alla volontà maschile. Ecco allora l’invito a dichiarare guerra non all’uomo ma a un certo modo di essere donna, che spinge alla rivalità tra donne. Nel 1975 pubblica “Donne in guerra”, Ma dopo questo periodo assu­merà un atteggiamento più meditato e comprensivo sulla realtà. C’è la consa­pevolezza maturata lentamente di un destino doloroso comune a tutti gli uomi­ni e donne, di una solitudine che è alla radice di ogni persona, indipendente­mente dal seso e dalle condizioni storiche. Nel 1986 Ha pubblicato “Il bambi­no Alberto”, intervista con Moravia. Nel 1993 Bagherìa e nel 1994 “Voci”. Bagherìa è un lungo racconto autobiografico che dipinge la Sicilia nel fluire dei ricordi, con i suoi colori, i sapori e le luci di una terra antica e sorprendente, ancorata a vecchi pregiudizi e a una mentalità chiusa. Ha scritto inoltre “Lettere a Marina” 1981, “Il treno per Helsinki 1984, “Lezioni d’amore” 1982, “Stravaganze” 1987. Ha pubblicato anche una raccolta di poesie dal titolo “Viaggiando con passo di volpe” 1991. Dacia Maraini può considerarsi senza dubbio la figura più rappresentativa del nostro panorama letterario attuale.

Il regista: Roberto Faenza

Oltre ad essere un bravo regista è scrittore e docente universitario ( dal 1970 presso il Federal College di Washington, dal 1977 presso l’Università di Pisa).

Ha iniziato la sua carriera cinematografica nel 1968 con Escalation interpretato da Lino Capolicchio e Gabriele Ferzetti. Nel 1978 ha realizzato il film di montaggio Forza Italia. Ha diretto “Si salvi chi può” “Iona che visse nella balena”, “Sostiene Pereira”. Ha diretto in maniera brillante “Marianna Ucrìa” che vuole essere una storia di libertà e di emancipazione. La vita di Marianna è dominata dalla sottomis­sione e dal silenzio, ma la sua mente e la sua immaginazione sono piene di voci, prima fra tutte la voce dell’amore che una società e una famiglia spa­ventosamente repressive le hanno negato. Tra le ragioni dell’interesse di Roberto Faenza per la vicenda di Marianna c’è il tema della memoria: una sto­ria che racconta il passato, ma che in realtà riguarda il presente. Del resto la straordinari unicità del grande schermo, dice Faenza; consiste nel poter ripor­tare a galla ciò che il tempo ha confinato all’oblio, poter dare alla memoria perenne continuità. Il cinema, egli dice, deve differenziarsi dalla televisione, ormai relegata a registrare solo cronaca e attualità, proprio per la sua incapa­cità a rielaborare memoria.

Soggetto:

Tratto dal romanzo omonimo di Isabel Allende Regia: Bille August Sceneggiatura: Bille August Fotografia: Jorgen Persson Scenografia: Anna Asp Musica: Hans Zimmer Montaggio: Janus Billeskov Jansen Costumi: Barbara Baum Trucchi speciali: Horst Stadlinger Co-Prodotto: Martin Moszkowicz Prodotto: Bernd Eichinger Personaggi e Interpreti: Esteban Trueba: Jeremy Irons Clara: Meryl Streep

Ferula: Glenn Close Blanca: Winona Ryder Pedro: Antonio Banderas

Transito: Maria Concita Alonso

*a cura di Giusi Verbaro

Esteban Garcia: Vincent Gallo Satigny: Jan Nicklas Segundo: Joaquin Martinez Pancha: Sarita Choudhury Rosa: Teri Polo Nana: Miriam Colon Germania / Danimarca / Portogallo / USA , 1993. 158’

Il Film

È frequente che da libri famosi -è il caso de “La casa degli spiriti di Isabel Allende -vengano realizzati dei film altrettanto noti che, in alcuni casi contri­buiscono ad accrescere il successo e la diffusione del libro stesso. Ma qual è il rapporto tra le due opere? È possibile una precisa trascrizione del-l’una nell’altra? E un libro tradotto in linguaggio cinematografico è sempre rico­noscibile? Conserva ancora tutti i suoi caratteri, i suoi tratti, le caratteristiche che ne hanno decretato il successo e che soprattutto lo hanno fatto amare dalle sue lettrici e dai suoi lettori. È il problema consueto delle traduzioni. (E nel caso specifico, di traduzione si tratta da un linguaggio, quello scritto che permette percezioni del tutto personali e squisitamente interiorizzate, a un linguaggio diverso, che s’avvale di tecniche, di mezzi espressivi, di tensioni emozionali diverse, qual è il linguaggio visivo, il linguaggio per immagini che raggiunge e opera la percezione emozionale attraverso il mezzo diretto e immediato dello sguardo). È molto difficile, a mio avviso, che ciò avvenga con assoluta fedeltà traspositiva e non perché un regista di vaglia non sia in grado di riportare in immagini ciò che la parola di un libro detta e regala, ma perché un’opera d’ar­te, un’opera compiuta, qualunque sia il suo linguaggio, di parola o di immagi­

ne, cinematografico o teatrale, non può essere una “copia”, non può limitarsi a “trascrivere”, da una forma all’altra. Deve necessariamente “ricreare”. E nel ricreare, necessariamente pecca d’infedeltà. È altro. È diversa opera d’arte. Un’opera compiuta, altra, non più quella. Più bella o più brutta a volte può veri­ficarsi che l’opera cinematografica, tratta da un grande libro, sia addirittura più intensa, più bella, più compiuta del libro stesso (un caso potrebbe essere “La casa degli spiriti” di Bille August, che ricostruendo la saga familiare creata da Isabel Allende, la accende di luce nuova, la arricchisce, dà spessore alle situa­zioni, alla trama narrativa ai paesaggi, alle atmosfere e soprattutto ai perso­naggi facendo di Esteban, di Clara, di Nivea, di Blanca, di Pedro, figure indi­menticabili tali che altri non potrebbero essere e che, in ultima analisi, arricchi­scono il libro da cui sono stati tratti e generati, di tale intensità e tale spessore, che è l’opera letteraria a divenire debitrice di misura di emozione e di intensità e a trovare, quindi, una consacrazione definitiva. È quanto avviene, quanto è avvenuto per altri film famosi tratti da famosi libri: Parlo de “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa tradotto in linguaggio filmi­co da Luchino Visconti, o de “Il Postino” di Skarmeta, interpretato magistral-mente da Troisi, o de “Il Giardino dei Finzi Contini” di Bassani, divenuto notis­simo grazie al film di De Sica. Ma perché un miracolo di tal genere avvenga, qual è la misteriosa alchimia che lega le due opere d’arte? Il regista del film deve calarsi profondamente nel libro, intenderlo, amarlo e poi guardarlo con gli occhi dell’anima e regalargli la “visi­bilità” che ne ricrea non tanto i fatti narrati, quanto le atmosfere, il fascino le percezioni emotive, le suggestioni. È quanto ha fatto il regista Bille August nel film in esame. “La Casa degli spiriti” di Isabel Allende e di Bille August, sono non più la stes­sa opera realizzata con due linguaggi diversi, ma due opere egualmente riusci­te e pienamente realizzate, con reciproco scambio. D’altra parte per chi avrà letto il libro e poi visto il film sarà chiaro che il regista si è liberamente ispirato al testo, che molti episodi del libro sono spariti, che, addirittura i tempi si sono, come suol dirsi, accorciati, che alcuni personaggi sono stati cancellati (vedi lo zio Marcos o i due fratelli di Blanca), tutto ciò per esigenza di concretezza nel racconto essendo la saga familiare dell’Allende assai estesa nel tempo, come d’altra parte avviene per molti libri latino-americani a cui il racconto di Isabel Allende si avvicina per climi ed atmosfere. Mi riferisco soprattutto a “Cent’anni di solitudine” di Garcia Marquez, uno dei libri più fascinosi e misteriosi e ricchi e debordanti e intensi che io abbia mai letto, o ai libri di Adolfo Bioy Casares, grande scrittore argentino, scomparso da pochi giorni Da Marquez, la Allende ha certamente tratto l’idea della lunga saga familiare, ma soprattutto ha tratto le atmosfere misteriche che danno suggestione al libro.

 

“La Casa degli spiriti” è il bellissimo affresco di una famiglia che si allarga ad affresco di una storia, di una terra, di un popolo, di una tradizione. Atmosfere e tradizioni per noi molto lontane e come tali intrise di fascinazioni. Il lungo rac­

conto a gola spiegata dell’Allende è reso in un linguaggio piano, diretto, che va ai particolari delle cose e si sofferma sull’emozione del dettaglio (pensate ai lun­ghi capelli verdi di Rosa che scivolano come un’onda verde dal tavolo di cucina dove i medici operano sul suo corpo l’autopsia. Il libro si basa sul fascino del para­normale e sui climi misteriosi, basti ricordare le capacità divinatorie di Clara, i grandi e piccoli eventi, le sue strabilianti interpretazioni dei sogni, il suo mutismo che, chiudendola alle piccole cose, amplia i suoi orizzonti e le sue percezioni divi­natorie. E poi, tutto lo strano e affascinante rapporto con la morte e coi defunti. Nel libro dell’Allende vive e ha senso la poesia del soprannaturale e del fanta­stico, ma senza caratteri orrifici. È l’intero clima del libro a essere intriso di magia, così come avvolti in un alone di magia o di misteriosa diversità sono i personaggi piccoli e grandi che lo popolano -non solo Clara ed Esteban, o Blanca o Pedro, ma anche i personaggi secondari, pensate a Ferula, a Nivea (e alla sua strana morte agghiacciante per certi versi, ma consona al clima del libro, che Clara aveva previsto) e alla tata Nana -le sue tenerezze, le sue intui­zioni, il largo e tenero abbraccio di cui è capace. La storia della famiglia Trueba (e del Valle) via via che scorre la narrazione, diventa storia di un popolo, e l’ultima parte del libro, si sposta dai climi stupe­facenti e magici verso eventi e vicende storiche del Cile a noi note, cariche di tutti gli orrori che una testimone diretta, quale è stata Isabel Allende, può rife­rire nella loro drammatica verità. Nell’ultima parte il romanzo dell’Allende perde parte della sua fascinazione misterica, ma si carica di riflessioni e considerazioni sulla libertà di un popolo e la drammaticità di una dittatura militare. Ma, affidando la lettura del libro alle coscienze delle nuove generazioni, sono tre gli elementi primari del romanzo che vorrei mettere a fuoco per confrontarle poi con l’esito artistico del film che dal libro è stato tratto e che porta lo stesso titolo. La morte. Presente in tutta la letteratura ispano -americana (basti pensare a Garcia Marquez o a poeti come Neruda -“io me ne rido della morte -sempli­cemente che io non ho paura di morire tra uccelli e alberi -e Cesar Vallejo, per i quali morte e vita fanno parte dello stesso ciclo e si danno senso reciproca­mente), la morte perde, in questo libro, come in altri testi della letteratura lati­no-americana, gli aloni orrifici per caricarsi di suggestioni e di misteri (pensiamo alla morte di Rosa, di Ferula, di Nivea, della stessa Clara). La morte arriva quasi consolatoria e necessaria (Clara si stacca lentamente dalla vita, con serenità, pianificando le sue memorie per i posteri, ma con lei vi muore tutto lo spirito della casa che è come se improvvisamente si spogliasse dell’energia vitale: muoiono i fiori del giardino, le piante, non cantano più gli uccelli. I silenzi diven­tano pesanti. La pagina della morte di Clara è tra le più belle del libro. La morte è dunque accettata come la vita. Fa parte della vita. È il più naturale degli even-ti. È un ciclo che si compie, ma non si interrompe perché i morti comunicano con i vivi, fanno sentire la loro presenza, sono compagni. In un certo senso con­tinuano a vivere. La morte, dunque, non sorprende e non turba, anche se a volte si carica di particolari macabri che la leggera ironia dell’autrice stempera

in un sorriso (ricordiamo la testa mozzata di Nivea conservata nella cappelliera). Gli spiriti dei morti, continuando ad agitarsi attorno ai vivi, fanno parte del grande affresco della vita e della storia e come tali non spariscono, ma danno senso alle cose passate come a quelle a venire. Il Tempo. Il tempo, nel romanzo della Allende (ma così in tutta la letteratura latino-americana: basti pensare a “Cent’anni di solitudine”) appare dilatato. La lunga storia che passa per 4 generazioni allarga il tempo. Lo allunga a dismisu­ra, dà il senso dell’evento lungo in cui ogni avvenimento è concatenato all’al­tro in un’armonica disposizione di tempi e di cose, quasi un evento non potes­se esistere senza l’altro e certi accadimenti anche minimi, ne preparassero altri che danno senso all’intera storia. Per cui non è più la vita o la vicenda del sin­golo a contare, ma la sua vicenda inserita in una storia più lunga. L’intera sto­ria in cui ogni individuo è calato, ne è partecipe e ne diventa parte integrante. Parlerei perciò di un tempo circolare che dà senso agli eventi piccoli o grandi che siano, solo circolarmente in una definizione più ampia e più larga delle cose. Tale concetto del tempo e del lungo svolgersi delle vicende, affascinante e misterioso come ogni cosa ne “La Casa degli Spiriti”, non è contemplato nelle saghe familiari della letteratura italiana dei nostri giorni (pensiamo a “Le strade di polvere” di Rosetta Loy o a “Il catino di zinco” di Margaret Mazzantini). Le Donne. Nel romanzo della Allende sono l’elemento forte, vitale, essenzia­le negli eventi così come nella vita e nella morte. Basti pensare a tutti i perso­naggi del libro, a tutte le figure femminili, anche secondarie, a un personag­gio come Nana che pare secondario, ma ha in sé intero l’humus, lo spirito della terra in cui vive. E’ grembo caldo e protettivo, quasi l’angelo tutelare della famiglia. Le donne del libro, oltre a determinare la storia, ad esserne il perno ne sono il fulcro, il senso stesso. Basti pensare alla fragilità di Esteban, con le sue collere e la sua violenza messa a confronto con la forza silenziosa di Clara,

o con la costruttiva capacità di opporsi al mondo e alle cose di Blanca prima e di Alba dopo. E il film, che porta lo stesso titolo del libro, riesce a realizzare il fascino, il miste­ro, la magia lieve e ironica de “La Casa degli spiriti”? Sì, il miracolo della tra­sposizione avviene pienamente anche se il regista riscrive la storia modificando tempi ed eventi (in effetti salta una generazione dei Trueba ed è Blanca e non Alba a vivere la vicenda drammatica della prigione e della violenza). Ma tutto ciò risulta positivo perché concentra nel film eventi essenziali; nel libro sminuz­zati in una serie di piccoli accadimenti e d’infiniti personaggi necessari a creare l’affresco familiare e storico, nonché l’intreccio, il “mitos”, che realizza la gran­dezza del romanzo. Il film riesce a centrare pienamente i personaggi, i paesaggi, gli ambienti, i costumi, i colori, ma anche le atmosfere, rispettando pienamente quelle carat­teristiche che ho evidenziato nel libro: L’idea della morte come evento naturale non orrifico e come transito non defi­nitivo nell’unità tra la vita e la morte; La convivenza con i morti e il loro sopravvivere tra i vivi;

La circolarità del tempo che dispone gli eventi come in un preordinato rappor­to di vicende mai fine a se stesse, La ricchezza e la pienezza delle figure femminili realizzate in tutto il loro fasci­no e, assieme, in tutta la loro forza. Tutto ciò fa sì che la trascrizione cinematografica de “La Casa degli spiriti” rea­lizzi e concretizzi il valore estetico ed emozionale del libro stesso, affidandolo a una lunga durata e a una lunga messe di emozioni.

La scrittrice: Isabel Allende

È nata a Lima nel 1942 ed è vissuta in Cile fino al 1973 svolgendo la professio­ne di giornalista. Dopo il colpo di stato di Pinochet, che ha instaurato in Cile una dittatura militare, concludendo drammaticamente l’esperienza del governo socialista del presidente Salvator Allende, la scrittrice si è trasferita prima in Venezuela e poi negli Stati Uniti. Il suo primo romanzo “La casa degli spiriti”, pubblicato nel 1983, ha ottenu­to uno strepitoso successo in tutto il mondo e Isabel Allende si è imposta come una delle voci più significative della letteratura sudamericana. Il suo romanzo in cui s’intrecciano fantasia e realtà, è stato avvicinato a “Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcìa Marchez. Anche i romanzi successivi sono stati accolti dal pubblico con grande favore e Isabel Allende è diventata una “Grande” della letteratura. Da “La casa degli spiriti” è stato anche tratto un film di grande successo. Altre opere di Isabel Allende: “D’amore e ombra” (1985); “Eva Luna” (1988); “Eva Luna racconta” (1990); “Il piano infinito” (1992); “Paula” (1994); “Afrodita” (1997)

Il regista: Bille August

È nato in Danimarca nel 1948. Dirigendo il suo film “Pelle alla conquista del mondo”, premio al Festival di Cannes, aveva fatto credere in una rinascita del cinema danese. Il secondo film “Con le migliori intenzioni” rifletteva un’attenta lettura delle opere di Bergman e la critica era in attesa di una conferma definitiva di que­sto autore. “La casa degli spiriti”, secondo alcuni critici, non si è dimostrato all’altezza delle aspettative.

“Il rapporto tra il libro e il film va cercato proprio in questa dialettica degli oppo­sti: circolare il primo, lineare il secondo; allusivo, trasparente, inafferrabile il primo; concreto, ridondante, eccessivo, il secondo. Ciò nonostante il peso non sgretola il film, la dissoluzione del romanzo non lo fa smarrire, l’epopea di un Sud America mai così assente (e mai così presente nella sua diversità non lette­raria) alla fine coinvolge. Quando lasci le sue donne sbattute da un vento da romanzo, tra foglie ingiallite e polvere inventata, sei comunque prigioniero di una doppia illusione di verità. Quante Alba, Nivea, Clara, Blanca, si porteranno via altre notti fantastiche e violente?” Paolo Taggi,“Segnocinema”, marzo -aprile 1994

Dal Romanzo omonimo di Isabel Allende Regia: Betty Kaplan Personaggi e Interpreti: Irene: Jennifer O’ Connelly Francisco: Antonio Banderas Beatrix: Stefania Sandrelli Gustavo: Camillo Gallardo Sceneggiatura: Donald Feed Musica: Josè Nieto Copodruzione Cinematografica:

Argentina – Spagna 1994

Drammatico – Colore Durata: 106 minuti

* a cura di Maria Grazia Riveruzzi

Il Film

La storia è più o meno quella di una ragazza di buona famiglia che ai tempi della dittatura di Pinochet vive in una villa (trasformata dalla madre in una lus­suosa residenza per vecchi) in attesa di convolare a nozze con il fidanzato Gustavo, promettente ufficiale dell’esercito, che si rivelerà alla fine ufficiale – gentiluomo. Malgrado la censura sulla stampa, malgrado l’atmosfera di terro­rismo, Irene trascorre le sue giornate libera e spensierata, come ovattata nel suo distacco da tutto (Isabel Allende e i primi mesi dopo il golpe in “Paula”). Apparentemente emancipata e intraprendente nel suo lavoro di giornalista di moda, Irene sembra esprimere il proprio anticonformismo attraverso il modo strano di abbigliarsi, folkloristico e spesso poco curato, in netto contrasto col perbenismo fatuo e civettuolo della madre Beatrix filofascista, che nutre per la figlia grandi speranze e ambizioni borghesi. L’indipendenza della figlia Irene, la noncuranza delle apparenze stizziscono ed irritano l’effimera madre che lancia contro di lei sospiri, gridolini, gesti sospesi e artificiosi. Beatrix è il simbolo della dissoluta leggerezza della borghesia che permetteva e ha sempre permesso l’avvento dei regimi totalitari i loro genocidi, le torture, gli stermini; rappresenta il veicolo degli effimeri e vuoti valori di un sistema patriar­cale – autoritario. Il conflitto tra madre e figlia si acuisce quando arriva Francisco, il fotografo ed Irene ne sposa la causa. È Francisco che apre gli occhi ad Irene: seguendo le tracce di Angelina una “santa” di campagna finita nelle liste dei “desaparecidos”, la giornalista, quasi per caso, comincia a svegliarsi e nel frattempo s’innamora di Francisco che collabora con la Resistenza per sve­lare al mondo gli orrori del regime.

Il passaggio di Irene dall’adolescenza all’età adulta subisce una drastica accele­razione: il cartello che chiude la vecchia miniera abbandonata e che reca due parole “Prohibido pasar”, le svela di colpo gli orrori del regime. Le vittime, poveri resti che il regime addebita al terrorismo, sono, invece, l’ulti­mo palpito della bandiera della libertà. Irene è sconvolta, ma determinata: lascia il fidanzato e rischia seriamente di lasciarci la vita nella lotta clandestina contro la dittatura militare. Con molte pal­lottole in pancia e con l’innamorato al fianco Irene alla fine passa il confine con­dannandosi all’esilio.

Ancora una volta dobbiamo constatare che l’emancipazione e la consapevolez­za politica, l’adesione ideologica, la militanza della donna – protagonista avven­gono per opera di un uomo: l’amore è l’organo di rivelazione, è lo strumento della presa di coscienza di Irene che ha sposato la causa dell’uomo amato. Non è un atto di autocoscienza né il risultato di un graduale e autonomo processo di emancipazione e di liberazione, ma è una scelta suggerita dall’amore per l’altro. È, infine, degna di nota la contrizione di mamma Beatrix, quando intuisce appieno il sacrificio della figlia che voleva immolare al sistema patriarcale. Le incertezze e i conflitti di un tempo si sciolgono in un’accorata solidarietà. Falsa o vera che sia, tocca al lettore/trice e allo spettatore/trice giudicare.

Il cinema continua a corteggiare i romanzi di Isabelle Allende e questo non stu­pisce se si pensa che sono stati apparentati alla narrativa di Marquez, e sono diventati uno a uno dei best-seller internazionali.

Allende è la nipote di Salvador Allende presidente di un governo socialista del Cile. Nata in Perù, ma cresciuta in Cile fino alla cacciata della famiglia, ordina­ta nel 1973 da Pinochet, dopo il colpo di Stato, Isabella Allende si trasferì in Venezuela e poi negli Stati Uniti. I suoi romanzi “La casa degli spiriti”, “Paula”, “Eva Luna”, “Piano infinito”, hanno fatto di Isabelle Alliende una star della letteratura latino-americana. Lei stessa non immaginava che i periodi più difficili del terrore in Cile e di soli­tudine in esilio sarebbero stati gli anni più importanti della sua vita, perché die­dero slancio, forza e materiale per la sua scrittura. Aveva conosciuto in quei ter­ribili giorni, per esempio, Francisco uno psicologo senza lavoro, una persona dolce e un po’ ingenua con cui Isabelle collaborò per fare espatriare tanti pove­ri derelitti, donne e bambine. Nove anni dopo Francisco servì da modello per il protagonista del suo roman­zo “D’amore e Ombra”. Al cinema sembrò fin troppo invitante la prospettiva di sfruttare il successo rilanciandolo sugli schermi. Invece non è sempre così automatico prevedere l’esito di questa facile opera­zione di calcolo: l’adattamento cinematografico de “La casa degli Spiriti”, rea­lizzato da Bill August due anni fa, e “D’amore e Ombra” di Betty Kaplan, ha lasciato generalmente perplessi i lettori conquistati dai romanzi di I. Allende:

d’altra parte le storie della scrittrice si prestano ad essere interpretate in chiave banalmente sentimentale sullo sfondo del Cile e della dittatura militare. D’amore e Ombra” è un’altra esposizione dei temi cari alla scrittrice. Alla storia d’amore s’intreccia la presenza tragica dell’ombra: le torture, le sparizioni, i morti del regime, i desaparecidos. L’amore mescolato alla politica, agli orrori della dittatura visti come atroce con­trappunto alla passione bruciante che nasce tra i due protagonisti; il mito intrecciato a momenti e personaggi magici( Evangelina giovane con doti media-niche). Seguendo la trama del romanzo, l’esordiente regista Betty Keplan di ori­gini statunitensi, ma cresciuta in America Latina, esperta nella fiction televisiva, tenta un mix tra i temi mitici dell’Allende, e il ritmo narrativo di scuola ameri­cana. Così la generosità stilistica dell’Allende, le accensioni fantastiche della sua scrittura, la sua capacità di appassionare con ricordi tormentati e personaggi nevrotici, l’approccio col mondo paranormale e magico così caro e familiare….. tutto ciò si stempera in una melodrammatica love-story da fotoromanzo. Le belle pagine del romanzo smarriscono, nella riduzione cinematografica, gran parte della loro suggestione a favore della pura azione ( la fuga rocambolesca degli innamorati dal Cile nella formula auto-cavallo) Di fronte a un film come “ D’amore e Ombra” sono possibili – dice la giornali­sta della Stampa Alessandra Levantesi -due punti di vista assolutamente con­trastanti: deplorare che la sanguinante vicenda dei “desaparecidos” cileni sia presa a pretesto di uno scadente melodramma; oppure rallegrarsi che temi di grande rilevanza civile siano convogliati in un prodotto che vorrebbe essere popolare”. Sappiamo che l’Allende ha dichiarato di apprezzare molto i film della Betty Kaplan, ma i due melodrammi, quello letterario e quello cinemato­grafico, differiscono parecchio: nel senso che l’appassionata descrizione della crescita sentimentale ed etica dei due giovani dietro cui si cela una vicenda col­lettiva dura e drammatica si tinge e si appiattisce sullo schermo secondo modu­li stereotipi della cinematografia hollywoodiana. Isabelle Allende, nipote del celebre caduto vittima del golpe di Pinochet, ha il pregio di trattare con sobrietà ed equilibrio un argomento d’indubbio valore civi­le e politico. ”D’amore e Ombra” è un documento letterario che scruta tra le pieghe della Storia, ne coglie i palpiti e le emozioni più recondite e consegna alla memoria collettiva la tragedia di un popolo, la morte della democrazia. Accade che la forza delle idee, la denuncia, l’invettiva contro l’ingiustizia e i diritti umani, tutto ciò che traspare nella scrittura dell’Allende, non si traducono nel film in emozioni, non toccano le nostre visceri, perché tutto nel film viene banalizzato sul nascere. Ho detto tutto, ma sarebbe più corretto dire quasi tutto; perché si vorrebbe conoscere il nome dell’attrice di secondo piano che confida a Francisco gli orrori della tortura; infatti è l’unica a mostrare di sapere come va interpreta­ta una pagina così drammatica del copione e della storia umana. “D’amore e Ombra” doveva essere un film politico. La ricostruzione dei delitti della dittatura di Pinochet, la vicenda dei desaparecidos sono, nel film, un’oc­casione mancata di ricordare la tragedia cilena.

Titolo orig. The color purple Usa 1985 Regia: Steven Spielberg Soggetto: tratto dal romanzo di Alice Walker Sceneggiatura: Menno Meyjes Fotografia: Allen Daviau Musica: Quincy Jones Scenografia: Robert w. Walch – Linda Descenna Costumi: Aggie Guerard Rodgers Personaggi e Interpreti: Celie: Woopi Goldberg Mister: Danny Glover vecchio Mr: Adolph Caesar Shug: Margaret Avery Sofia: Oprah Winfrey Squeak: Rae Dawn Chong Harpo: Willard Pugh Nettie: Akosua Busia Celie giovane: Desreta Jacson Grady: Bennet Guillory Miss Millie: Dana Ivey Produzione: Steven Spielberg, Katleen Kennedy, Frank Marshall, Quincy Jones / Warner Bros. Prod.

Durata: 152’

* a cura di Paola Nucciarelli

Il Film

Il film racconta la vita di Celie, una donna, negra, brutta e povera nello stato della Georgia nei primi del ‘900.

Violentata da colui che credeva essere suo padre, privata dei figli, sposata a un uomo che la tratta da schiava, allontanata dall’unica cosa bella della sua vita, la sorella Nettie, che sfugge ad un destino analogo, Celie riesce a sopravvivere con la speranza di riabbracciarla. Celie parla con Dio, perché non può raccontare a nessun’altro gli orrori della sua vita, rimette a Dio tutti i suoi problemi, non ha futuro sulla Terra, solo la morte la renderà libera. Quando la moglie del figlia­stro, Sofia, le dice che non si sarebbe aspettata di dover combattere con una donna, segnata dal suo stesso destino, Celie, rassegnata alla sua condizione di schiava e non riuscendo a concepire altro che la morte quale fuga verso la libertà, conforta Sofia: -La vita finisce presto…il paradiso è eterno… L’eroina del film vuole magnetizzare tutta la pietà e la compassione dello spet­tatore: Celie è l’apoteosi della svantaggiata. È quasi un dovere amarla, ma la sua maledetta passività, la sua espressione stramba, il suo chiudersi in se stes­sa, il suo raggomitolarsi, la sua paura, il suo disappunto, ci rendono esauste e impazienti. Alla fine Celie si riscatta grazie alla relazione con una bella figura di donna, Shug Avery, l’amante del marito.

Il romanzo è in forma epistolare, un racconto a due voci attraverso una corri­spondenza che non arriva a destinazione. Nelle lettere di Nettie il linguaggio è più fluido e descrittivo, viene raccontata l’Africa conosciuta dalla Walker, i riti sanguinosi della tribù Olinka. I testi di Celie sono scritti in uno stle più sempli­ce, elementare, immediato e crudo. Scarno nelle descrizioni, ma denso di significati e di spessore, il romanzo scorre forse più velocemente del film. La versione cinematografica risulta abbastanza fedele al testo sia nei nomi dei personaggi, nei dialoghi, che nella storia, sebbene nel romanzo venga analiz­zato più profondamente il rapporto fra Harpo e Sofia, la redenzione di Mr, l’i­naspettato amore per l’ex moglie, Celie. Da sottolineare la relazione amoro­sa fra Celie e Shug che nel libro risulta molto più esplicita e dettagliata: Shug può amare indifferentemente uomini e donne perché la sua morale le dice che Dio si arrabbia se non si amano le cose belle, come un campo di fiori di colore viola; Celie ama Shug perché gli uomini le hanno sempre fatto paura con il loro potere fallocratico, con le loro violenze e sopraffazioni. Celie è vis­suta senza amore e senza affetto. Con Shug, Celie diventa persona, riacqui­sta considerazione e rispetto, trova la pace e la serenità, sente la dolcezza del ventre materno, il gonfiore del seno: è come dormire con la mamma con la quale non ha mai dormito. Il loro rapporto è una relazione psicologica-senti­mentale, non sessuale.

Il romanzo è anche una denuncia contro i retaggi culturali che generano l’op­pressione: Il vecchio Mr. comanda Harpo e Celie, Harpo vuole comandare, tra­mite i vecchi luoghi comuni, l’energica Sofia che non ne vuole sapere e l’a­mante Squeak che alla fine lo lascia. I bianchi, ancora, vogliono sopraffare i negri. Nessuno è soddisfatto della propria vita, né gli oppressori, né gli oppres­si, solo la relazione amicale, fra le più “reiette della terra”, le donne-negre­povere produrrà qualcosa di positivo per le generazioni che verranno, alla fine una speranza per il futuro.

Il dolore è il tema dominante del romanzo e del film. Esso pervade in modo assoluto il corpo, la mente e il cuore. Noi donne ci conviviamo più o meno con­sapevoli come delle predestinate, (il dolore fisico come palestra preparatoria al dolore psicologico). La vita di Celie è dolore. Celie vive in una dimensione di assoluto dolore e lo accetta con assoluta abne­gazione: sua madre ha vissuto dolorosamente e così farà anche lei. AMEN. Il dolore è visto come purificazione. Trova il suo Dio nella sofferenza, nella ras­segnazione, nell’accettazione, nell’immolazione. La sua povera esistenza acco­glie con rassegnazione e con esaltazione il martirio delle vergini cristiane. L’ostentazione di Shug nel godere delle gioie della vita è l’altro modo di supe­rare la tragicità della vita e di interpretare la volontà di Dio che esorta ad amare e a gioire per le cose belle del creato. Shug incarna la secolare contraddizione della donna che aspira alla libertà nutrendo in un tempo sensi di colpa.

Sofia è una figura di donna che incarna l’emancipazione: è forte, libera, sicura, sim­patica, ma non viene capita dall’ambiente in cui vive che la schiaccia e l’annulla. Nettie che ha imparato a leggere e a scrivere, trasferisce il suo sapere a Celie, ma poi deve scappare da quel mondo per trovare la libertà. Il ritmo lento del film rispecchia il tipo di vita che conducono Celie e le altre. Siamo nei primi del ‘900 in uno Stato, la Georgia, che risente ancora della men­talità schiavista. La Walker vuole anche denunciare la condizione psicologica delle donne, l’ele­mento più debole, oppresse e represse da quella organizzazione patriarcale.

La scrittrice: Alice Walker

Nata il 9 febbraio 1944 a Eatonton in Georgia, ultima di otto figli di una fami­glia di poveri agricoltori, ricchi di amore e spirito, è universalmente riconosciu­ta come una delle più grandi scrittrici di questo secolo. Un’antenata del padre, Mary Poole, era una schiava che fu costretta ad attra­versare a piedi la Virginia fino ad arrivare in Georgia con un bambino in brac­cio. La bisnonna materna dell’autrice era una pellerossa Cherokee. La Walker è profondamente orgogliosa delle proprie eredità culturali. Diplomatasi nel 1961, si iscrive allo Spelman College di Atlanta, ma prima di partire la madre le dona tre cose speciali: una macchina da cucire per la sua autosufficienza, una valigia per la sua indipendenza e una macchina da scrivere per dare spazio alla sua creatività. In seguito alla sua partecipazione a varie dimostrazioni per i diritti civili, nel ’62 è ospite di Martin Luther King jr. Partecipa al festival mondiale della pace ad Helsinky in Finlandia. In questo periodo viaggia molto in Europa conoscendo popoli e culture diverse che contribuiranno alla sua formazione. A Washington nel ’63 prende parte alla marcia per il lavoro e per la libertà e ascol­ta il discorso < I have a dream > di Martin Luther King. A soli 21 anni pubblica il suo primo romanzo breve e si laurea nel 1965 al Sarah Lawrence College di New York. Tornata in Georgia, continua il suo lavoro nel movimento dei diritti civili e conosce un giovane studente di legge, ebreo, Mel Leventhal, con il quale si sposa. La Walker scrive un saggio sui diritti civili che vince il primo premio sulla American Scholar magazine. Vince una borsa di studio presso la prestigio­sa MacDowell Colony nel New Hampshire per i suoi scritti, mentre procede alla stesura del suo primo romanzo. Nonostante i problemi razziali che la coppia suscita, continua a lavorare nella difesa dei diritti civili e presenzia al funerale del suo eroe, Martin Luther King ad Atlanta. Alice Walker pubblica il suo primo volume di poesia, Once, mentre insegna all’università di Jackson State. Le nasce una figlia, Rebecca e pubblica il suo primo romanzo, La terza vita di Grange Copeland che riceve plausi, ma anche aspre critiche dagli African-Americans perché tratta troppo duramente i maschi negri del suo libro. La Walker riceve molte proposte da varie università, finchè accetta la cattedra al Wellesley College dove dà inizio al primo corso sulla letteratura femminile degli stati uniti, soprattutto sulle scrittrici African-American e cura un’antologia dell’antropologa nera Zora Neale Hurston. Dal

’73 al ’76 lavora intensamente, ispirata dalla sua nuova eroina e pubblica la sua prima collezione di racconti brevi, Amori & Guai: Storie di donne nere. Eil suo secondo volume di poesie, Revolutionary Petunias & Other Poems e diviene editrice nonché firma di punta della rivista MS. Vince numerosi premi e pubblica il suo secondo romanzo, Meridian. Finito il suo matrimonio con Leventhal, si trasferisce in California, dove incontra Robert Allen, editore di “Black Scholar” e dove attualmente risiede nella cittadina di Mendocito, vicino a San Francisco. I lavori della Walker continuano a proliferare; pubblica il suo secondo volume di racconti, Non puoi tenere sottomessa una donna in gamba e nel 1982 pubblica Il colore viola che vince il premio Pulizer e l’American Book Award che la innalzano a fama mondiale, nonostante le critiche degli scrittori neri americani che continuano a condannarle i ritratti troppo duri degli uomini neri del romanzo. Amareggiata da tali critiche, la Walker pubblica un saggio sulla sua ideologia femminista intitolato Alla ricerca del giardino di mia madre. Dalla sorella Ruth è stata creata una fondazione chiamata Il colore viola con lo scopo fornire istruzione tramite lavoro di volontariato. Nel 1984 pubblica il terzo volume di poesie, “I cavalli rendono più bello il paesaggio” e nell’88 scrive un saggio, “Living by the word”. L’anno dopo pubblica un romanzo epico, “Il tempio del mio spirito”. Scrive anche racconti per bambini e il romanzo “Conoscere il segreto della gioia”, una cronaca del dramma psicologico della vita di una giovane donna dopo la mutilazione forzata dei genitali. Di questo argomento si è interessata intensamente durante i suoi viaggi in Africa, lavorando a documentari e scri­vendo un manuale Warrior Marks, in cui racconta sotto forma di cronaca le sue esperienze. Nel ’96 pubblica The Same River Twice: Honoring the Difficult in cui descri­ve con saggi e articoli, la sua lotta contro la malattia e la depressione e la sua versione della sceneggiatura de Il colore viola. Successivamente pubblica un altro saggio ispirato dal suo attivismo politico, sui diritti civili, sul movimento nucleare, sul movimento delle donne, sulla protezione verso la cultura e l’am­biente delle popolazioni indigene, sulle vittime del razzismo, del sessismo, delle armi nucleari e sulla conservazione delle ricchezze naturali. A settembre 1988 aveva pubblicato anche una serie di racconti dove esamina le connessioni fra spiritualità e sessualità, tramite le storie narrate da generazioni che esplorano le relazioni fra padri e figlie, By the Light of my Father’s Smile.

Il regista: Steven Spielberg

È nato nel 1947 a Cincinnati nell’Ohio, USA. Sin dall’infanzia, Spielberg figlio di un ingegnere esperto di computer, sviluppa la sua passione per il cinema. Munito di una semplice cinepresa super8, gira filmetti ispirati a generi hol­lywoodiani. A 13 anni vince un concorso cinematografico con il film bellico Escape to Nowhere, ma a 16 la sua carriera inizia nel vero senso della parola con un film fantascientifico di oltre due ore, Firelight. Trasferitosi in California,

si laurea in Inglese alla Long Beach University, nonostante passi tutto il suo tempo negli ‘studios’ della Universal. Nel 1969 gira un cortometraggio di 24’, Amblin, con il quale vince premi ai Festival di Venice e di Atlanta. La Universal gli propone un contratto di 7 anni per la MCA-TV. Si guadagna in fretta la fama di specialista dirigendo numerosi pilot (primi telefilm di una serie) e episodi di serials di successo fra cui Colombo. Nel 1971 gli vengono commis­sionati tre film per la televisione, fra cui Duel, che arrivato in Europa, vince il il premio al Festival del cinema fantastico in Francia, un altro premio in Germania, a Taormina, una menzione al festival televisivo di Montecarlo. Il film incassa 6 milioni di dollari. Nel 1974 gira Sugarland Express, un mezzo flop, ma nel ’75, con grande acume commerciale, talento e fortuna gira Lo squalo che lo porta a concretizzare un suo sogno: Incontri ravvicinati del terzo tipo. Nel 1979 gira poi un cocktail demenziale postmoderno un po’ trascurato come 1941: allarme ad Hollywood. Nello stesso periodo inizia la sua carriera anche di pro­duttore con due opere che lo inseriscono fra gli illusionisti immortali del cine­ma: I predatori dell’arca perduta, nel 1981 e E.T. nell’82, che si affermaro­no nel mondo intero come campioni d’incassi di una spettacolarità adeguata ai tempi, un ritorno alla meraviglia secondo un punto di vista consapevolmente infantile e ad un ritmo di racconto consono al gusto popolare. Entrato ormai nell’Olimpo dei grandi, Spielberg fonda una propria casa di pro­duzione, producendo, nel campo fanta-favolistico, film con temi e prospettive spielberghiani come Ritorno al futuro di Bob Zemechis. Nel 1984 gira Indiana Jones e il tempio maledetto, nell’85 firma Il colore viola, per il quale è candidato a 11 oscar, non vincendone nessuno. Spielberg, appartenente alla comunità ebraica americana, nonostante abbia sempre attaccato tutte le forme di oppressione, non venne accettato favorevolmente da una parte della comunità nera americana, con il motto “la questione nera è nostra e non si tocca”. L’impero del sole è del 1987, Always e Indiana Jones e l’ultima crociata vengono girati nel 1989, successivamente firma uno dei suoi peggiori film. Hook e nel 1993 si riscatta con Jurassic park, un film mozzafiato che ha bat­tuto il record d’incassi di tutti i tempi. Nel 1994 Spielberg vince l’Academy Award per la regia del film che merita di essere inserito fra le cento migliori opere cinematografiche della storia del cinema : Schindler’s list. Nel 1995 produce Casper, nel ’96 Twister e Men in Black, tutti film del genere fantastico. Nel 1997 ha prodotto e firmato Amistad con Antony Hopkins (Il silenzio degli innocenti) e con Morgan Freeman ( A spasso con Daisy) che pro-segue il discorso iniziato con Il colore viola sulla questione nera. Ha prodotto la continuazione di Jurassic Park, The lost World . L’ultimo lavoro come produttore e regista è del 1998, Salvate il Soldato Ryan con Tom Hanks (Forrest Gamp).

Regia: Gillian Armstrong Sceneggiatura: Robin Swicord Fotografia: Geoffrey Simpson Musica: Thomas Newman Personaggi e Interpreti: mamma March: Susan Sarandon Meg: Trini Alvarado Jo: Winona Ryder Beth: Claire Danes Amy: Samantha Matis Friedrich Bhaer: Gabriel Byrne Laurie: Christian Bale Durata: 115’ Origine: USA 1994 Il film è stato candidato a tre premi Oscar

* a cura di Marisa Rotiroti

Il Film

Tratto dall’omonimo romanzo di Louisa May Alcott del 1868, le “Piccole donne” hanno vissuto nei nostri cuori per intere generazioni..

Piccole donne, è il terzo film sonoro (due versioni mute: 1917 di Alexander Butler e 1918 di Harley Knoles sono andate perdute) tratto dall’omonimo romanzo della Alcott, che, dopo cento anni, ha ancora qualcosa da dirci. Nel 1933 Hollywood ne ricavava un film con Katherine Hepburn e nel 1949 con Liz Taylor e June Allison; nel 1979 in Italia veniva tratto un “musical” ironico, nel 1994 ha ispirato il film di Gillian Armstrong, (australiana) primo film a regia femminile. In realtà la determinazione di Winona Ryder a voler interpretare Jo e le pressioni della produttrice e della sceneggiatrice Robin Swicord hanno convinto la regista a realizzare un altro film su una scrittrice, come già aveva fatto con “La mia brillante carriera”. Il libro è troppo noto per richiamarne la trama e il film è molto aderente, anche se approfondisce meglio il contesto storico, culturale e sociale degli Alcott consentendoci di capire meglio la diver­sità della famiglia March. Il film, ambientato in America, racconta un anno della vita di una famiglia ame­ricana durante la guerra civile che, tra il 1861 e il 1865, vede gli Stati del Nord contro gli Stati del Sud e la loro politica schiavistica di cui si coglie solo un’eco indiretta. La regista pone l’accento sulla vita quotidiana delle quattro ragazze March, sulle giornate nere e su quelle gaie, sul lavoro e sui divertimenti e soprattutto sulla realizzazione dei loro desideri. Traccia in definitiva l’itinerario psicologico e di esperienza attraverso la quale elle crescono e maturano la loro personalità. Il film è stato molto apprezzato all’estero, in Italia è piaciuto soprat­

tutto alle donne. I critici, qui, lo hanno giudicato zuccheroso, noioso, fuori moda, non adatto ai maschi. Il tentativo di inficiare l’opera arriva a servirsi dell’affermazione della Alcott “non mi piacciono le ragazze”: in realtà non le piaceva lo stereotipo che le ragazze del suo ambiente sociale erano costrette a incarnare. Significativi, nel film, gli episodi delle due proposte di matrimonio: non solo Jo, ma anche la più convenzionale Amy, sostenute dall’insegnamento mater-no, rifiutano il matrimonio finalizzato a qualcos’ altro che non sia il recipro­co desiderio. È stata anche disapprovata la scelta di Winona Ryder come interprete di Jo per­ché “troppo bella”, e una monellaccia… non può esserlo…, naturalmente... secondo lo stereotipo della percezione maschile, come ebbe a rispondere la stessa regista in un’intervista. In realtà la Jo di oggi è molto più vicina all’im­maginario di molte di noi che vogliamo costruire il bene attraverso la responsabilità, di quanto non lo sia la Hepburn che lotta per l’emancipazione e la distruzione del male. Leggo in tali giudizi l’incapacità dei critici di entrare in un mondo di relazioni femminili qual è quello della famiglia March. Le figure maschili sono sbiadite: il padre, un pastore protestante rigoroso fino al fanatismo e all’irresponsabilità verso la famiglia, è assente nel film come nel romanzo (assente per scelta dell’autrice); Laurie, nipote del vecchio sir Laurence divenuto ricco con il commercio nelle Indie, osserva a lungo dietro i vetri e desi­dera entrare in questa comunità femminile: ci riesce ma solo accettando le regole e riconoscendo l’autorità femminile. Ogni volta che cerca di reintro­durre le regole convenzionali ne viene espulso. Bella è la figura di Friedrich che riesce a comprendere pienamente il cuore di Jo “leggere il tuo libro è stato come aprire una finestra sul tuo cuore”.

L’interpretazione di Susan Sarandon è superba: ella è la madre che avremmo voluto avere e che vorremmo essere: punto di riferimento, capace di dare sostegno affettivo, di autorizzare le figlie e i figli ad andare libere/i nel mondo a scegliere ed inventarsi la propria vita. “Va’, corri incontro alla libertà e sco­pri quali cose meravigliose ha in serbo per te” dice la madre a Jo. Il film si conclude con la scena della pioggia purificatrice e ci richiama alla memoria le parole di Friedrich sulla definizione di Trascendentalismo (filosofia romantica tedesca): “gettando via tutte le costrizioni arriviamo a conoscerci attraverso l’introspezione e l’esperienza”, insegnamento di cui ancora oggi pos­siamo far tesoro.

La scrittrice: Louisa May Alcott

Figlia del pedagogista e filosofo Amos Bronson Alcott, nasce a Germantowon in Pennsylvania il 29 novembre 1832. Ha tre sorelle, una delle quali muore a 22 anni di scarlattina, come la Beth del romanzo autobiografico “Piccole Donne”. Dolce, coraggiosa, esuberante e profondamente umana, attraverso il padre, riformista sociale e ideatore della comunità utopica di Fruitlands, Louisa entra

in contatto con trascendentalisti e intellettuali eminenti quali Ralph Waldo Emerson, Henry David Thoreau e Nathaniel Hawthorne. Comincia a scrivere in età molto giovane e a 19 anni pubblica “Sunlight”, una raccolta di poesie, sotto lo pseudonimo di Flora Fairfield. Si dedica per molti anni all’insegnamento e nel 1862, durante la guerra civile americana, si trasferisce a Washington dove lavora come infermiera volontaria nell’ospedale militare di Georgetown. La Alcott s’impegna anche socialmente soprattutto per i diritti delle donne. Diventa famosa con “Piccole Donne”, pubblicato negli anni 1868/69, che è l’i­nizio di una saga autobiografica andata avanti con “Piccole donne crescono”, “Piccoli Uomini” e “I ragazzi di Jo”. Nei suoi libri racconta le proprie esperienze personali, il che li rende moderni perché contengono gli elementi, sempre attuali, della ricerca della propria identità e della realizzazione di sé sulla base di scelte personali e responsabili. Muore il 6 marzo 1888, all’età di 56 anni senza essersi mai sposata.

Regia: Deepa Mehta Scenografia: Sandra Kybartas Fotografia: Guy Dufaux Costumi: Milena Canonero e Elisabetta Beraldo Musiche: John Altman e Daniel Lanois

Personaggi e Interpreti: Camilla: Jessica Tandy Freda: Bridget Fonda Elias Koteas, Maury Chaykin, Graham Green, Hume Cronyn Produttori: Christina Jennings e Simon Relph

Durata: 95’, colore 1994

* a cura di Maria Grazia Riveruzzi

Il Film

Liberamente tratto dal romanzo “Camilla” di Christopher Davis edito in Italia da Sonzogno

Freda and Vincent Lopez (Bridget Fonda alias Elias Koteas) sono in vacanza in Georgia. Lui è un disegnatore grafico, lei una compositrice musicale. Durante una passeggiata nei dintorni della loro abitazione, Freda viene attrat­ta dalle note musicali di un violino e, rincorrendole, incontra, nel villino accan­to, Camilla Carp (Jessica Tandy), un’anziana ma energica signora ex concerti­sta, che vive col figlio Harold proprietario della casa e produttore cinemato­grafico, dalla madre stessa definito “ladro e buffone”. Vincent e Harold sim­patizzano e in breve tempo il futuro di Vincent viene segnato dall’offerta di lavoro di Harold e dalla partenza immediata per Toronto dove l’attende un luminoso futuro: sono in ballo soldi e carriera. I sogni ed i progetti condivisi con Freda possono essere messi nel cassetto e Freda, delusa, rifiuta di parti-re. Rimasta sola, Freda intreccia un’amicizia con Camilla con cui condivide la passione musicale. L’amore per la musica supera la barriera generazionale e spinge entrambe ad avventurarsi, con una ritrovata incoscienza adolescenziale, a Toronto dove al Winter Gardens si svolgerà un concerto per violino di Brahms, un brano musi­cale particolarmente impegnativo e complesso che Camilla aveva, da giovane, tentato di suonare senza successo. Durante il viaggio, ricco di sorprese e impre­visti, Camilla realizza i suoi sogni: vedere le cascate del Niagara e ritrovare l’a­more “perduto”; Freda corre dietro ai suoi con rinnovata fiducia in se stessa e nel suo compagno Vincent che è tornato più innamorato di prima.

Due donne, due generazioni, due storie in un certo senso simili s’incontrano e s’intrecciano con complicità e con delicatezza: L’una ha un passato, l’altra ha un futuro; entrambe hanno un grande amore: la musica che le fa volare in alto ...in alto verso la libertà. La differenza d’età è magistralmente superata, sparisce d’incanto in una sim­biosi di sogni e di illusioni, di fantasia e di speranze ancora vive nella giovane donna e apparentemente spente nella “vecchia” signora. La relazione femmi­nile crea sinergie e rafforza il desiderio muliebre; genera impulsi e dà valore. Camilla racconta a Freda con grande fantasia il suo passato d’artista, ricco di fama e di bellezza e la ragazza ne trae nutrimento per recuperare la fiducia in sé e per provare e riprovare concretamente le sue doti musicali. Ma anche per Camilla è arrivato il momento di ritrovare il coraggio e di ripren­dersi il suo “tempo”, la libertà di vivere. “È solo un piccolo fosso” le sussurra Freda e Camilla trova il coraggio di saltar­lo per correre incontro all’uomo che aveva amato tanto...tanto tempo fa e a cui aveva rinunciato per amore del figlio. Era diventata una dolce e tenera donna, un’incorreggibile sognatrice, ma non una grande artista come avrebbe desiderato: non era mai riuscita ad eseguire il brano di Brahms. Al concerto di Toronto con grande emozione e ammirazione Camilla assiste alla mirabile esecuzione di una giovane donna: un’altra, dopo di lei, sta suonando con solenne maestria il brano di Brahms e altre ancora ver­ranno e realizzeranno i sogni di Camilla in una linea di simbolica continuità. La relazione di Freda e Camilla, fondata sul desiderio di essere libere, produce una catarsi anche nel mondo maschile: Vincent e Harold, rispettivamente mari­to e figlio, figure sbiadite e stereotipate, opacizzate dalla logica del rampanti­smo e del profitto, si riarmonizzano e riconquistano nitidezza e dignità nel momento in cui riconoscono alle loro donne il diritto di sognare, di amare e anche...di sbagliare...il diritto di ricominciare a correre non per capire il senso...ma per sentire l’ebbrezza del vento nei capelli.

La regista: Deepa Mehta

Nata in India, laureatasi in filosofia all’Università di New Delphi, è emigrata in Canada nel 1975. Ha cominciato la sua carriera cinematografica scrivendo testi per film per bam­bini e ha partecipato come regista a molti programmi televisivi. Nel 1987 ha prodotto e diretto il film televisivo “Martha Ruth e Edie” presentato successi­vamente al festival cinematografico di Cannes nel 1988. Un premio di ricono­scimento le è stato attribuito al festival internazionale cinematografico delle donne a Firenze. Nel 1988 il dramma “Inside stories” ha ricevuto la nomination per la migliore performance dell’attrice protagonista. Un altro film “Sam and me” del 1991 ha ottenuto lusinghieri riconoscimenti al festival di Cannes. Nel 1994 Metha ha diretto la regia della delicata e affascinante storia di “Camilla”, seguito a breve distanza di tempo dal film “Fire” che, negli Stati Uniti, ha ricevuto grossi plausi al festival di New York.

La prima parola che viene in mente quando si tenta di descrivere Camilla è “straordinaria”. “Camilla è un genere di film che rende vivace e moderno un certo tipo di letteratura romantica e sentimentale: non a caso la musica si presenta come elemento di sublimazione umana, che trascende e purifica ogni meschino impulso. Storie di sogni retroattivi e di speranze future creano un’atmosfera onirica e stravagante, talvolta irreale. Bisogna ammettere che tutti questi elementi sono stati combinati con abilità e la mancanza, voluta, di effetti speciali, supportata dalla “naturalità” della scena rende “Camilla” un’esperienza significativa ed esortativa per chi crede che ormai “tutto è perduto”.

Cast Tecnico Artistico Regia: Jocelyn Moorhouse Sceneggiatura: Jane Anderson Dall’omonimo romanzo di Whitney Otto Fotografia: Janus Kaminski, A.S.C. Montaggio: Jill Bilock Musica: Thomas Newman Scenografia: Ed Verreaux Costumi: Ruth Myers Produttore: Sarah Pilsbury, Midge Sanford USA 1996 Durata: 120’ Distribuzione cinematografica:

UIP -CIC video

Personaggi e interpreti: Finn: Winona Ryder Anna: Maya Angelou Glady Joe: Anne Bancroft Hy: Ellen Burstyn Sophia da giovane: Samantha Mathis

Costance: Kate Nelligan Em: Jean Simmons Sophia: Lois Smith

* a cura di Paola Nucciarelli

Marianna: Alfre Woodard

Il Film Gli anni dei Ricordi, della regista di origini australiane Jocelyn Moorhouse, prende spunto da un romanzo di Whitney Otto, ’Come fare una trapunta ame­ricana’, che crea un singolare parallelo tra l’arte di realizzare una trapunta e l’a­more, gli ostacoli che si incontrano e la ricerca di un’armonia. Finn, una delica­ta e sensibile Winona Ryder è venuta a passare l’estate a casa della nonna e della prozia. Circondata da aranceti, la casa è un tranquillo rifugio che Finn ha scelto per portare a termine la sua tesi di laurea sui riti dell’artigianato femmi­nile nelle culture tribali e per pensare alla proposta di matrimonio che ha rice­vuto dal suo ragazzo. La casa ospita da molti anni anche la ‘Quilting Bee’ , una piccola associazione di donne che si riunisce una volta all’anno per tessere una trapunta da esibire ad un concorso. Ciascuna delle otto donne racconterà a Finn la storia d’amore che ha plasmato la propria vita. Ogni storia affronterà un aspetto differente del­l’amore, e quando la trapunta avrà assunto un aspetto unico, Finn possiederà una visione complessiva di questo sentimento e potrà essere padrona dei suoi pensieri e delle sue decisioni. Il film, girato con delicatezza ed eleganza dalla Moorhouse, è un insieme di sto­rie evocate, flash backs che si accumulano con regolare misura, racconti nel rac­

conto, brandelli di comprensione e di messa in gioco: la vita è un ‘quilt’, una trapunta fatta di pezzi, cui bisogna dare un ordine e un disegno, un’armonia e un senso, dove i pezzi di porcellane rotte durante una vita di litigi formano un murale di ricordi dolorosi.

Il tema dominante potrebbe essere individuato nell’amore per gli uomini, ma è anche quello per loro stesse, per le loro radici, per l’acquisizione di competen­ze tramandate da una genealogia di relazioni fra donne, che non è solo uno squallido scambio di miserie, ma una crescita personale. L’insicurezza della pro­tagonista viene via via a scomparire grazie all’influenza positiva che esercitano su di lei le storie delle altre donne.

La regista: Jocelyn Moorhouse

È una giovane australiana di Melbourne. Nata nel 1960, già nel 1991 aveva diretto un lungometraggio drammatico a sfondo psicologico ‘Proof’ passato in Italia con il titolo ‘Istantanee’, per il quale ha ricevuto molti premi e la men­zione speciale a Cannes. Il film, interpretato fra gli altri da Russel Crowe, l’attuale compagno di Meg Ryan e interprete del ‘Il Gladiatore’ racconta di Martin, cieco dalla nascita, che trascorre il tempo a scattare istantanee per convincersi che la realtà esiste: Julio Carrera, nel suo saggio ‘Da Aristotele a Spielberg. Capire la filosofia attraverso i film’ ed. Mondatori, Milano, spiega il dubbio cartesiano attraverso film come Blow up di Antonioni e lo splendido Istantanee di J. Moorhouse. La Moorhouse ha coprodotto e sceneggiato nel 1994 un altro film di ottimo livello, ‘Le nozze di Muriel’ diretto dal marito P.J. Hogan e ha curato la regia di ‘Segreti’ con Michelle Pfeiffer e Jessica Lange tratto dal romanzo ‘A thou­sand acres’ vincitore del premio Pulitzer.

Regia Soggetto e sceneggiatura

Margarethe Von Trotta Fotografia: Franz Rath Montaggio: Dagmar Hirtz Scenografia: Georg Von Kieseritzky, Barbara Kloth Musica: Nicolas Economou; “Lucretiadi Georg Friedrich Händel

Personaggi e Interpreti: Juliane Klein: Jutta Lampe Marianne: Barbara Sukova Wolfgang: Rudiger Vogler Sabine: Verenice Rudolph Werner: Luc Bondy la madre: Doris Schade Produzione: Bioskop -film München Durata: 103’ RFT -1981

* a cura di Marisa Rotiroti

Il Film

Il film “Anni di piombo” è ambientato nella Germania della fine degli anni ‘70 e tratto da un fatto realmente accaduto durante il periodo del terrorismo, in cui si distinse il gruppo Baader -Meinhof. Protagoniste nella realtà due sorelle: Christiane e Gudrun Ensslin, due donne impegnate politicamente, che riescono a restare profondamente legate nono­stante nette divergenze ideologiche e diverse scelte di vita: Gudrun, entrata in clandestinità, viene arrestata e trovata impiccata in carcere; Christiane, fem­minista e giornalista, dopo la morte della sorella, ha sempre cercato di dimo­strare l’assurdità della tesi del suicidio.

Il quadro si apre sulla vita privata di Juliane una donna indipendente che si batte per i diritti femminili, come l’aborto, e scrive su un giornale femminista. Un giorno Verner, il marito di sua sorella Marianne, che lei ha lasciato per Karl col quale è impegnata a piazzare bombe in giro per il paese, le affida il loro bam­bino Jan prima di suicidarsi. Juliane rifiuta inizialmente il ruolo di madre, perché impegnata nel lavoro, ma poi se ne fa carico. La storia si alterna a squarci sull’adolescenza delle due giovani donne che mostrano Juliane sempre fortemente ribelle e Marianne mediatrice tra il padre e la sorella maggiore. Nel corso del film i piani temporali si fondano di continuo evidenziando le diversità tra passato e presente. Quando Marianne viene arre­stata, si accentuano le profonde differenze di posizione politica fra le due

donne, ma un affetto profondissimo le tiene unite fino alla fine e, pur nella loro modalità di vita così fortemente inconciliabile, sono inseparabili. Nel corso delle visite in carcere, Juliane, vittima anche delle brusche maniere dei sorveglianti, fugge sconvolta dalle richieste di Marianne di continuare la sua opera sovversi­va, ma non perde occasione per tornare a parlare con lei. Mentre è in viaggio di piacere in Italia, dalla televisione apprende la notizia della morte di Marianne, ma non crede alla tesi del suicidio e fa di tutto per dimo­strare la responsabilità di politici e polizia nel nascondere la verità: un omicidio collettivo di cui non si saprà mai niente

Margarethe von Trotta col suo film sulla società tedesca degli anni plumbei lan­cia un messaggio di grande forza morale analizzando la complessa storia per­sonale di due sorelle di fronte alle grandi scelte politiche del 68 e del post ‘68. Attraverso l’analisi sottile e “realistica” dei comportamenti umani delle due donne, i cui dialoghi sono carichi di emotività, la regista si interroga sulle com­plesse motivazioni che hanno provocato il dramma del terrorismo, analizza le caratteristiche della sinistra tedesca di quegli anni e sembra proporre l’afferma­zione di una cultura democratica che tenta di tener viva l’ansia di libertà e di giustizia. “È necessario non dimenticare e rivedere le nostre certezze”. Nel film e nella realtà Margarethe von Trotta si identifica con Juliane e, parten­do dalla propria esperienza, ne racconta la storia assumendo il suo punto di vista di aperta condanna della violenza come metodo di lotta. Propone anche elementi di riflessione sui meccanismi psicologici e culturali, messi in atto da un’educazione protestante autoritaria, sulle esistenze speculari di due sorelle egualmente insofferenti e desiderose di cambiamento. L’ansia di ideali non ipocriti stimolata dal rigore morale paterno suscita in Juliane un precoce anticonformismo che la porterà a collaborare stabilmente con i movimenti femministi e a scrivere, partendo dalla sua personale esperien­za, in un’atmosfera da “caccia alle streghe”. Juliane esprime così la forza e la costanza di chi crede ai lenti, ma sicuri cam­biamenti delle coscienze. Marianne interiorizza invece l’educazione religiosa in modo del tutto idealistico, nell’attesa di una ricomposizione tra fede e vita sociale, accettando in un primo momento le “regole della vita borghese”. Solo quando appare chiara l’impossi­bilità della conciliazione (“Tutto e subito!”) Marianne rompe ogni precedente legame e regola di vita sociale (abbandona il marito e il figlioletto) e sceglie emo­tivamente la strada della lotta clandestina e della violenza organizzata. Per molti/e all’epoca fu così. I flash backs sono costruiti su analogie spazio -temporali che sottolineano la cultura di una società oppressiva, di una società pronta a dimenticare e tenace nel rimuovere il passato. La macchina da presa fruga dentro il cuore delle due sorelle, penetra nella loro affettività tanto ricca quanto differente e offre solu­zioni visive che propongono evidenti rapporti simbolici:

le due sorelle lottano contro l’oblio e l’occultamento dei problemi sociali pur realizzando a livello personale e politico il loro impegno, impegno scaturito da un comune “sentire”, dalla stessa “voglia di fare del bene”. Entrambe, nella diversità, denotano l’inestricabilità dei loro destini e richiedono una compresenza nella storia. La sovrapposizione sul vetro del parlatorio tra il volto di Juliane e quello di Marianne: immagine unica… e dissociata della stessa esistenza. L’immagine sfocata e il ricordo vivo delle due sorelle bambine che, dimentican­do i litigi, si aiutano ad abbottonarsi la maglietta. Il rifiuto iniziale di accogliere il bambino come rifiuto della maternità imposta. Il bambino strappa la foto della madre: il gesto interpreta simbolicamente la cancellazione della madre terrorista, che ha indotto comportamenti violenti nei suoi confronti, e la volontà di oblio del popolo tedesco di fronte alle proprie tra­gedie storiche. Il film si conclude con le parole di Juliane “tua madre era una donna straordi­naria. Non mi credi? Ti racconterò di lei”. “Devo sapere tutto…….. parla! Parla”.

Il bambino Jan, futuro della Germania, vuole sapere per …..ricostruire.

La regista: Margarethe Von Trotta

Nasce a Berlino nel 1942. A Parigi compie le prime esperienze in campo cine­matografico, tornata in Germania intraprende gli studi di filologia e frequenta corsi di recitazione. Come attrice teatrale recita negli anni ‘60 a Stoccarda e a Francoforte. Comunista mai tesserata, è attiva nel movimento studentesco degli anni Sessanta da fiancheggiatrice intellettuale. Dal 1968 lavora anche per il cinema e la televisione recitando, tra l’altro, nei film di Fassbinder: “Gli dei della peste” (1969), “Il soldato americano” (1970), e Attenzione alla puttana santa” (1970). Sposatasi in seconde nozze con il regi­sta Volker Schlondorff, lavora al suo fianco sia come attrice che come sceneg­giatrice: in entrambi i ruoli collabora a “L’improvvisa ricchezza della povera gente” di Kombach (1971), “Fuoco di paglia” (1972) e “Colpo di grazia” (1976). Assieme al marito firma la regia di “Il caso Katharina Blum” (1975). Qualche anno dopo comincia a realizzare film da sola mettendo a fuoco -attra­verso la testimonianza di esperienze e problematiche femminili -molteplici aspetti della realtà socio -politica tedesca. Con “Anni di piombo” (1981), vin­citore del Leone d’oro alla mostra di Venezia s’impone di colpo all’attenzione internazionale. Negli anni successivi realizza: “Lucida follia” (1982), “Il lungo silenzio” (1993), “La promessa” (1995) e “Rosa Luxemburg”.

Titolo originale: Antonia’s line Regia: Marleen Gorris Sceneggiatura: Marleen Gorris Fotografia: Willy Stassen Scenografia: Harry Ammerlaan Musica: Ilona Sekasz Montaggio: Michiel Reihwein Win Louwrier Produzione: Hans De Weers, Antonino Lombardo, Judy Countihan

Olanda: 1995 Durata: 93’ Distribuzione: Lucky Red Personaggi e interpreti Antonia: Willeke Van Ammelrooy Danielle: Els Dottermans Bas: Jan Decleir Deedee: Marina De Graaf Dito Storto: Mil Seghers Janne: Michael Pas

* a cura di Paola Nucciarelli

Thérése: Verlee Van Overloop Lara: Elsie De Brauw

Il Film

Grottesca, surreale visione di una famiglia di donne in un paesino rurale olan­dese. Uno splendido affresco sulle genealogie femminili, un messaggio di spe­ranza che supera la morte.

La storia inizia dal momento in cui Antonia, la protagonista principale, si riap­propria della sua vita: è vedova, ha una figlia di 16 anni e si trasferisce nella fattoria dove è nata. Antonia è una donna vigorosa, indipendente, coraggiosa, che non ha un minimo imbarazzo fisico del suo corpo femminile, lo porta avanti con orgo­glio, con forza. L’ALBERO DI ANTONIA, ovvero della sua stirpe, della Genesi: Antonia generò Danielle, che generò Therese, che generò Sarah.... In questo film troviamo donne capaci di autodefinire la propria identità a pre­scindere dal potere e dal volere dell’uomo. Queste donne sono tutt’altro che ostili verso l’altro sesso, prendono dall’uomo il buono che può dare e lo fanno serenamente. Antonia e le sue compagne non si lasciano sottomettere dal senso comune di un villaggio bigotto dell’Olanda cattolica del dopoguerra, sono donne che superano certe ipocrisie religiose, non si lasciano imbrigliare, vanno oltre.

Può sembrare irreale che queste donne particolari riescano poi a vivere con agio in un paese che dimostra in fondo di non avere pregiudizi, dove i buoni trion­fano e i cattivi vengono puniti...se ben ricordiamo per molto tempo le vedove, le donne sole o venivano costrette in monasteri con l’imposizione della clausu­ra o, se dimostravano autonomia di pensiero, diventavano pericolose e veniva­no mandate al rogo dopo terribili torture per cui erano costrette a dichiararsi streghe o eretiche. Perchè abbiamo scelto questo film così diverso dai precedenti, senza la bella patina stile Hollywood, per certi aspetti dissacrante? Perchè L’ALBERO DI ANTONIA celebra la vita e la felicità di donne diventate forti attraverso la politica delle relazioni di genere. In questa storia il tempo e la vita si evolvono ciclicamente in modo onesto, cru­dele, divertente e in certi momenti surreale. Attraverso lo scorrere del tempo, il lungo tavolo, al centro dell’aia, diventa più popolato, più abbondante di cibo e di vivacità. Il motivo della circolarità del tempo, del rincorrersi delle stagioni è sempre pre­sente; madre natura fa nascere, crescere e morire secondo un disegno che va oltre la nostra semplice esistenza e quando la vita di Antonia ha compiuto il suo cerchio, i banchetti gioiosi diventano depositari del suo testamento che va ben oltre il suo albero biologico. Se c’è qualcosa che può disturbare in questo film, è forse la difficoltà per alcu­ni di entrare nella dimensione del ridicolo, dell’autocritica, in un regno della sin­cerità, e della verità. Secondo la critica del mensile NOI DONNE, “il film ha una straordinaria e sin-cera forza di pacificazione, una proposta di armistizio nella interminabile e non conclusa guerra tra i sessi.” Ci piace infine sottolineare che proprio la forza delle relazioni è il motore che ha creato in questo film un modello utopico di armonia, una sorta di comu­nità dove si lavora con gioia e con amore, dove non c’è lotta per il potere, il dominio, la supremazia, dove con gioia si ama e si mettono al mondo i figli, dove il diverso non viene emarginato, non è visto come castigo di Dio, ma come essere umano facente parte del disegno divino, di madre natura, pro­prio da quelle donne che hanno avuto una storia differenziata dall’uomo a causa del loro sesso.

La regista: Marleen Gorris

È una regista olandese nata nel 1950 che ha voluto fortemente questo film e che ha impiegato 6 anni a trovare i finanziamenti per realizzarlo. Nel 1995 L’ALBERO DI ANTONIA ha vinto l’Oscar come miglior film straniero all’Accademy Awards. È stato inoltre premiato per la migliore fotografia al festival di Toronto e al festival di Hampton. Una consacrazione per la regista olandese, che all’epoca era già al suo quarto film. Eppure, per molto tempo, la sua figura era stata relegata nella categoria “registe femministe”. Forse a causa della sua opera “A Question of Silence, un’indagine sulla disparità tra

i sessi: protagonista, un gruppo di donne di tutti i giorni che uccidono un uomo senza ragioni apparenti. Una trama che fa scoppiare un focolaio di polemiche nel mondo del cinema. Con “L’albero di Antonia” , cronaca fami­gliare dai toni bucolici, Marleen Gorris riesce a scrollarsi un po’ di dosso l’eti­chetta che le era stata assegnata. Ex studentessa di inglese e arte drammati­ca in Olanda e diplomata presso l’Università di Birmingham in Inghilterra, viene ora considerata una specialista nel raccontare storie di donne moderne. Il suo ultimo film è “The Luzhin Defence”, con John Turturro e Emily Watson con co-produzione francese.

Regia: Stephen Friars Sceneggiatura: Cristopher Hampton Fotografia: Philippe Rouselot Montaggio: Mich Ausdley Scenografia: Stuart Graig Costumi: Jaames Acheson Musica: George Fenton Personaggi e Interpreti marchesa di Marteuil: Glenn Close Valmont: John Malkovich madame de Tourvel: Michelle Pfeifer Cecile de Volanges: Uma Thurman cavaliere Dangeny: Keanu Reeves Mildred Natwuic -Swoosie Kurtz Peter Capaldi -Valerie Cogan Produzione: Norma Heeiman Hank Moonjean Distribuzione: Warner Bross Durata: 121 Minuti Origine: U.S.A: * a cura di Vanna Peronace

Il Film

La storia è ambientata nella Parigi di fine Settecento dove la perfida marchesa di Marteuil (Glenn Close), per vendicarsi di un suo amante che sta per sposare Cecile de Volanges (Uma Turrman), ordisce un intrigo perché la giovanetta non arrivi pura alle nozze. Il seduttore perfetto è, per la marchesa, il visconte di Valmont, il libertino più amato e temuto dai salotti del tempo. Questi ha, però, in mente qualcosa di più intrigante: sedurre madame de Tourvel (Michelle Pfeiffer) donna conosciuta per il rigore morale, il fervore religioso, la fedeltà al marito. La posta in gioco si fa quindi più alta. I due intriganti suggellano un patto: se Valmont (John Malkowich) porterà una prova scritta per attestare la seduzione di madame de Tourvel, la marchesa gli concederà una notte d’amore. La stessa, intanto, trova nell’ignaro cavaliere Dangeny (Keanu Reeves) l’iniziato­re ai piaceri del sesso della giovane Cecile. Le vicende si complicano e le trame s’infittiscono: Valmont fa cadere nella sua rete sia la de Tourvel che Cecile. Dangeny si innamora di Cecile, ma stringe rapporti intimi con la marchesa. ”Ognuno intesse relazioni forti” con gli altri creando una rete inestricabile. Solo il finale tragico riesce a rompere tutti i legami: muore la de Tourvel caduta, suo malgrado, nelle trame degli aristocratici, muore anche Valmont dongiovanni di testa ma non di cuore, Cecile finisce in convento, la perfida marchesa rimane vittima tragica perché, pur vincendo, perde se stessa.

Ne ”Le Relazioni Pericolose” cinema e teatro vanno piacevolmente a braccet­to Il film teatralizza gli scenari, la recitazione, gli oggetti e ne fa strumenti alta­

mente significativi. Anche gli attori testimoniano contaminazioni profonde con il teatro: Glenn Close e John Malkowich nascono come attori di teatro; a loro è dato di rappresentare il ceto aristocratico con il suo commovente decadere, la loro è una recitazione più misurata, più contenuta. A Michelle Pfeiffer, attri­ce cinematografica per eccellenza, è affidato il ruolo della borghese; a lei è concessa la possibilità di una recitazione più spontanea, meno vincolata, più immediata. Negli interni, ricostruiti senza risparmio, si materializzano trame furtive: porte e specchi lasciano velocemente intravedere il piacere, l’attesa, il sospetto. Lo spettatore si trova di fronte al sorprendente comporsi di un puzz­le dove ogni tassello ha un movimento proprio che si inserisce, senza forzatu­re, in un quadro d’insieme armonioso. Del resto il romanzo epistolare, rac­conto fatto a pezzi dai suoi stessi protagonisti, si offre alla messa in scena. Sullo sfondo il mondo settecentesco appare come terreno neutro per conflit­ti, giochi pericolosi e alleanze portate alle estreme conseguenze. Nel film la partita è tutta a carte scoperte: il gioco consiste in una gara di menzogne notificate con una fitta rete di prove scritte ed è permesso mentire anche a se stessi. La finalità consiste nell’affermare la volontà di potenza attraverso la conquista amorosa: vietato nominare i sentimenti. L’azione di questa brillan­te partita a cinque parte su toni di commedia sofisticata per volgere rapida­mente al dramma, non appena gli ingranaggi del meccanismo cominciano ad incepparsi. In questo gioco all’annullamento prevale l’esigenza ultima di riaf­fermare la centralità del sentimento, la sua forza, la sua fondamentale giusti­zia: il bene e il male sembrano appartenergli. Il sesso scompare dietro la forza e la potenza del cuore, è un momento intrinseco al sentimento. Fuggire dai sentimenti significa annullarsi. Accanto a personaggi virili, forti, intensi (Valmont, la marchesa, madame de Tourvel) ci sono “anime grigie” (Cecile, Dangeny) o troppo sciocche o troppo sensibili. Sullo sfondo ci sono i servi “anime nere, col prezzo del tradimento stampato sulla faccia”. Madame de Tourvel è il solo personaggio positivo. È una donna che, malgrado la rigidità dei costumi, l’ossequio alla morale e alle ipocrisie della società contempora­nea, riesce ad essere una donna libera quando cede all’amore. Gli altri pro­tagonisti principali, la cui immoralità nasce per scandalizzare, non sono privi di certa ambiguità che in parte può anche riscattarli: Il visconte di Valmont, con tutto il suo cinismo, dimostra, ad un certo punto, accenti di vera pas­sione e persino di delicatissimo sentimento per la sua amante – vittima; la marchesa di Marteuil, pur essendo donna di “genuina perfidia” che ha da “sempre esercitato il distacco stringendo i pugni fino ad affondare le unghie nel palmo delle mani senza perdere il sorriso sulle labbra”, appare, a volte, gelosa proprio come una donna innamorata. Il regista che veste gli attori con complicati rituali settecenteschi e li spoglia con moderna disinvoltura, ama scolpire i loro volti e non esita, alla fine, a strappare la maschera marmorea dal volto della marchesa: donna -attrice che merita di rimanere sulla scena fino all’ultimo a raccogliere gli allori di una sconfitta che finalmente “tra­scende ogni controllo”.

Il regista: Stephen Frears

Nasce a Leichester nel 1941, dopo avere girato parecchi films, molti dei quali per la televisione, si stabilisce in America. La sua filmografia compren­de Liam, The Snapper, My beautiful Laundrette ecc. Ma è il film “Le rela­zioni pericolose” del 1988 che gli vale una serie di “nominations” agli Oscar e che vanta un “cast“ d’eccezione. C’è da dire che Frears, pur rifacendosi al romanzo epistolare “Les Liaisons Dangereuses” di Choderlos de Laclos attra­verso la versione teatrale e la sceneggiatura di Hampton, resta alquanto ade­rente al testo.

Vincitore di 7 premi Oscar.

Regista: John Madden Musiche: Stephen Warbeck Costumi: Sandy Powell Montaggio: David Gamble Scenografia: Martin Childs Direttore della fotografia:

Richard Greatrex Produttori: David Parfitt e Donna Gigliotti Sceneggiatura: Marc Norman e Tom Stoppard. Personaggi ed Interpreti: Viola: Gwyneth Paltrow

W. Shakespeare: Joseph Fiennes Elisabetta I: Judi Dench Conte di Wessex: Geoffrey Rush

*a cura di Mara Gaudioso

Mercuzio: Ben Affleck.

Il Film

“Shakespeare in love”, è una commedia romantica, brillante, avvincente, dal ritmo incalzante e coinvolgente, interpretata magistralmente da un cast ecce­zionale di attori.

Ambientato alla fine del 500, il film registra con dovizia di particolari: l’atmosfera, l’ambiente, la mentalità, l’ideologia dell’epoca.

Siamo a Londra nel 1593, la città era stata sconvolta dalla peste ed i teatri erano stati chiusi per paura del contagio. Nelle strade brulicanti di gente, un puritano condanna apertamente il teatro considerato luogo di peccato e di perdizione ed invita la folla a disertarlo. In realtà i teatri rappresentavano un momento di aggregazione per tutte le classi sociali che desideravano riconoscersi e vivere i drammi e le emozioni del palcoscenico. In quest’atmosfera di tensione e di atte­sa per le opere da rappresentare, di gelosie e di invidie tra i teatranti e gli atto­ri, Shakespeare sta vivendo una grave crisi ispirativa, non riesce a scrivere. L’incontro fortuito con Viola, donna anticonformista, amante della poesia e del teatro, costretta a travestirsi da uomo per poter essere libera di recitare, (sol­tanto alla fine del 600 le donne potranno farlo), gli darà l’impulso necessario per scrivere la tragedia d’amore più bella di tutti i tempi: Giulietta e Romeo. Viola, la protagonista femminile, è una donna alla ricerca di se stessa, della sua identità, ama la poesia ed il teatro più di qualsiasi cosa al mondo, ma non può esprimere la sua vera essenza, può farlo solo diventando un uomo per 2 settimane: 14 giorni in cui sarà libera d’amare, recitare ed essere per una volta se stessa. Ma purtroppo il sogno finisce, la realtà è lì pronta a fagoci­tarla nello squallore di tutti i giorni: un matrimonio imposto a cui non può sottrarsi, come Giulietta.

William Shakespeare le dedicherà la sua opera successiva: ”La dodicesima notte”, la cui protagonista porterà il suo nome: Viola. Il film si snoda tra vita e palcoscenico, realtà e finzione, rendendo le sequenze suggestive, intense, indimenticabili. Torna anche in questo film il binomio inscindibile arte-vita, in cui uno Shakespeare innamorato, all’apice della sua passione riesce a creare una storia indimenticabile, sempre attuale. L’opera di Shakespeare viene resa in modo superbo ed impariamo ad apprez­zarne la profondità proprio dalla bravura degli attori. Che dire poi della Regina Elisabetta, interpretata magicamente dall’attrice Judi Dench? Impeccabili e perfetti i costumi, la scenografia, la ricostruzione storica. Ma il film, oltre ad evidenziare, ancora una volta, la grandezza e l’unicità di que­sto grande drammaturgo, pone una dovuta riflessione. Ci sarebbe potuta esse-re una Shakespeare donna a quell’epoca? A questo interrogativo mi aiuta a rispondere Virginia Woolf, la più grande scrit­trice inglese del 900, nonché attenta osservatrice del mondo femminile. Nel suo saggio: ”Una stanza tutta per sé” (1929), raccolta di due conferenze sul tema: ”Le donne e la narrativa”, tenute nel 1928 alle studentesse di Cambridge, esor­ta le donne a procurarsi un’indipendenza economica ed una stanza dove poter scrivere in quanto donne ed orgogliose di esserlo. Riguardo al periodo di Elisabetta anche la Woolf si chiede: ”È un perenne rom­picapo la ragione per cui nessuna donna abbia scritto una sola parola di quella letteratura straordinaria; quando qualunque uomo, pare, era capace di scrivere canzoni e sonetti. In quali condizioni vivevano le donne? Innanzitutto le donne all’età di 15 anni si sposavano ed avevano figli, nella maggior parte dei casi non avevano istruzione. Consentitemi di immaginare, cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella dotata, di nome Judith. Molto probabil­mente Shakespeare frequentò la scuola secondaria, dove avrà imparato il lati­no, Ovidio, Virgilio ed Orazio, ed elementi di grammatica e di logica. A 18 anni si dovette sposare di tutta fretta in quanto mise incinta una donna di 26 anni, la madre dei suoi figli, ma ciò lo spinse a fuggire a Londra dove cominciò a fare la guardia ai cavalli all’ingresso degli attori. Cominciò prestissimo a recitare, diventò un attore di successo e di seguito il grande drammaturgo che noi tutti conosciamo. Intanto sua sorella restava a casa. Non era meno avventurosa, fan­tasiosa e desiderosa di conoscere il mondo di quanto lo fosse lui. Ma non l’a­vevano mandata a scuola...di tanto in tanto, forse prendeva un libro. Ma poi arrivavano i genitori e le dicevano di rammentare le calze o di ricordarsi dello stufato, e di non perdere tempo fantasticando tra libri e carte. ...Ancora adole­scente era stata promessa in sposa, la ragazza protestò ma fu picchiata da suo padre. Poi lui smise di rimproverarla e la pregò invece di non arrecargli la ver­gogna di rifiutare quel matrimonio . Le avrebbe regalato una collana di perle, oppure una bella gonna, diceva con le lacrime agli occhi. Come poteva disubbidirgli? Come poteva spezzargli il cuore? Solo la forza del suo talento la spinse a questo. Una sera d’estate fece fagotto, si calò dalla finestra e prese la strada di Londra. Non aveva ancora 17 anni. Gli uccelli che cantava­

no non erano più musicali di lei. Aveva, come suo fratello, la più vivace fanta­sia per la musica delle parole. Come lui, si sentiva attratto dal teatro. Bussò alla porta degli attori. Voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia. Il capoco­mico sghignazzò e disse che nessuna donna poteva fare l’attrice. Alluse inve­ce...potete immaginare a cosa. Nessuno le avrebbe insegnato l’arte. D’altronde, poteva mangiare nelle taverne o girare per le strade di notte? Eppure il suo genio era letterario e desiderava nutrirsi della vita degli uomini e delle donne, e dello studio dei loro costumi. Alla fine , l’attore-capocomico, ebbe pietà di lei; si trovò incinta di questo signore, e così si uccise, una notte d’inverno. Così, più o meno, sarebbe andata la storia, penso, se a quei tempi una donna avesse avuto il genio di Shakespeare. ...È indubbio che qualunque donna, nata nel 500 con un grandissimo talento, sarebbe certamente impazzita, o si sarebbe uccisa, o avrebbe finito i suoi giorni in qualche capanna solitaria fuori del villaggio, metà strega, metà maga, temuta e schernita.-… Vivere una vita libera nella Londra del 500 avrebbe significato per una donna, che fosse poetessa o drammaturga, una tensione nervosa da ucciderla. E se pure fosse sopravvissuta, i suoi scritti sarebbero stati comunque contorti e deformi, appunto per il fatto di essere il prodotto di un’immaginazione forzata e morbo­sa. E senza dubbio...le sue opere non sarebbero circolate con la sua firma. ...Currer Bell (Charlotte Bronte), George Eliot, George Sand, tutte e tre cercaro­no di nascondersi dietro un nome maschile e con loro siamo già nell’800. Scrivere un’opera d’arte non è cosa facile, ma per le donne queste difficoltà erano infinitamente più grandi. Il mondo diceva sghignazzando: ”Scrivere? A che serve che scriviate?” Oscar Browning che esaminava le studentesse di Girton e Newnham era solito dichiarare che dopo aver preso in visione le prove scritte, la migliore delle donne era intellettualmente inferiore al peggiore degli uomini. ...Perciò è chiaro ed evidente che perfino nell’Ottocento la donna non era incoraggiata a diventare artista. Al contrario, venivano disprezzate, schiaf­feggiate e ammonite. Una poetessa inglese del 600, Lady Winchilsea, nobile per nascita e per matri­monio; non aveva figli ed amava scrivere poesia, in alcune di esse la sentiamo scoppiare di rabbia e d’indignazione per la situazione in cui vivevano le donne: Come siam decadute, per regole sbagliate! Più dall’Educazione che non dalla Natura Raggirate; impedita ogni crescita mentale, ignoranti per norma e per destino; e se una vuol levarsi sulle altre, con calda fantasia, spinta dall’ambizione, appare tanto forte la fazione contraria che mai speranza alcuna di crescita può vincere il timore. È chiaro che la sua mente è turbata e dilaniata dall’odio e dal risentimento. Per lei gli uomini sono “la fazione contraria”; sono odiati e temuti, perché hanno il potere di impedirle di fare ciò che lei vuole, cioè scrivere:

Ahimè! La donna che tenta la penna è stimata creatura tanto presuntuosa che nessuna virtù può redimerne il fallo. Ci dicono: è un peccato contro il sesso e il costume; buone maniere, moda, ballo, giochi e vestiti, sono queste le doti che dovremmo bramare; scrivere , leggere, indagar, pensare, ci oscurerà la grazia, ci consumerà il tempo, ci impedirà le conquiste amorose; ma l’ottuso governo di una casa servile per noi è ritenuto unico impiego ed arte.

Infatti, per darsi il coraggio di scrivere, deve supporre che ciò che scrive non sarà mai pubblicato; deve consolarsi con la malinconica strofa: Canta per pochi amici, e per le pene tue, perché i rami di lauro non crescono per te; sia oscura la tua ombra, e di questa sii paga.

Il regista: John Madden

John Madden, regista di “La mia regina” (Mrs Brown, 1977), ha cominciato la sua carriera come regista teatrale per poi passare alla televisione ed alla radio. Nel 1975 si è trasferito in America e nel 1990 ha esordito al cinema con “Ethan Frome-La storia di un amore proibito”, seguito da “Golden Gate” (1994) .Nel 1998 dirige “Shakespeare in love”, vincitore di 7 premi Oscar: Miglior film, Attrice protagonista (Gwyneth Paltrow), Attrice non pro­tagonista (Judy Dench), Sceneggiatura originale, Direzione artistica, Costumi, Colonna sonora per commedia. Attualmente vive a Londra.

Regia: Franco Zeffirelli Genere: Drammatico Durata: 100 minuti Produzione: Italia 1993 Costumi: Piero Tosi Direttore della Fotografia: Ennio Guarnieri Musiche: Claudio Capponi e Alessio Vlad Sceneggiatura: Allan Baker,

F. Zeffirelli, Piero Mattei Prodotto da Mario e Vittorio Cecchi Gori. Personaggi ed interpreti Maria: Angela Bettis Nino: Jonathan Schaech Suor Agata: Vanessa Redgrave Madre Superiora: Valentina Cortese.

*a cura di Mara Gaudioso

Il Film

È il 1854. La Sicilia è devastata da un’epidemia di colera. Maria rinchiusa dalla ricca matrigna in un convento, per evitare il contagio lascia il chiostro e rag­giunge la casa paterna alle falde dell’Etna. Qui incontra Nino, un amico di fami­glia, di cui s’innamora perdutamente. Incapace di lottare e di contrastare aper­tamente le decisioni della sua famiglia che la vogliono suora a tutti i costi, per motivi patrimoniali, impazzirà e morirà di dolore, nella completa indifferenza . Il film è interamente tratto dal romanzo giovanile di Giovanni Verga, scritto nel 1869 e pubblicato nel 1871. Il libro si basa sulle lettere che la giovane Maria, costretta alla vita del convento pur senza vocazione, scrive all’amica Marianna durante un breve soggiorno con la famiglia in campagna. Queste lettere testi­moniano il suo turbamento di giovane novizia che al di fuori della vita monaca­le riscopre nuovi orizzonti, soprattutto l’esistenza dell’amore che, osteggiato da tutti, la porterà pian piano alla morte. Considerato a suo tempo una polemica denuncia della condizione femminile, questo romanzo, adattato per il cinema da Zeffirelli, è un grande dramma intimo, sentimentale, umano, estremo. La critica cinematografica si è espressa in modo alquanto positivo sul film. Possiamo leggere infatti: ”Il meglio di questa capinera di Zeffirelli è nella sua funebre coralità, nel gusto con cui il desiderio viene sfiorato e negato. “Io amo il mio peccato”! grida la novizia davanti al nudo crocifisso...”(da l’Espresso). “Quel colera di Catania del 1854 con cui si apre il film è ricostruito con un respi­ro spettacolare che scavalca Verga per ispirarsi alla peste manzoniana….” (Tullio Kezich, Corriere della sera).

Alle origini della Storia di una Capinera ci sono esperienze e ricordi autobio­grafici: i racconti della madre dello scrittore, educata nella badia di Santa Chiara, prospiciente alla casa di Catania; il precedente di alcune zie, che ave­vano abbracciato la vita del chiostro e allo stesso tempo c’è anche un proble­ma storico e sociale, quello delle monacazioni forzate, rispetto a cui il romanzo verghiano intende in qualche modo porsi come una presa di coscienza pubbli­ca ed in ultimo ragioni letterarie ben precise, (molti autori, Manzoni, Diderot, avevano affrontato questo tema nelle loro opere). Maria, la protagonista del romanzo, è una giovane timida ed insicura, già ras­segnata al corso della sua esistenza priva di emozioni. “Nacqui monaca”, con­stata senza nemmeno presumere di potersi ribellare. Tra lei e la vita ci sono le mura di un chiostro, insormontabili. Maria infatti è come una capinera e Verga lo spiega perfettamente nella prefazione del romanzo. “Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malatic­cia ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gab­bia, e allorchè udiva il canto allegro degli altri uccelli che cinguettavano sul verde del prato o nell’azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avreb­be potuto dirsi pieno di lacrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi le volevano bene, cari bambini che si trastullavano con il suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La pove­ra capinera cercava di rassegnarsi, la meschinella, non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche con il suo dolore, poiché tentava di beccare tristemente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due gior­ni chinò la testa sotto l’ala e l’indomani fu trovata stecchita nella sua prigione. Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta per­ché in quel corpicino c’era qualcosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete. Allorchè la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccel­lino, mi narrò la storia di un’infelice di cui le mura del chiostro avevano impri­gionato il corpo, e la superstizione e l’amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorge­re le sue lacrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiusa nel suo dolore ed era morta; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attra­verso le grate della sua prigione, che non cantava, che beccava tristemente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l’ala ed era morta. Ecco perché l’ho intitolata: Storia di una capinera.“

La narrazione si pone come confessione; le lettere però non sono inviate all’a­mato, bensì ad una confidente, a una testimone passiva, Marianna, sua com­pagna di convento che finirà per sposarsi. La confessione di Maria è perciò un monologo doloroso, senza risposta, la sua vita è la storia di una repressione. Maria non è votata alla vita monasti­

ca, ma la sua mitezza la spingerebbe a una graduale rassegnazione. Irrompe invece l’amore che sconvolge il suo fragile equilibrio emotivo: Maria a que­sto punto potrebbe diventare una Monaca di Monza, trovare anche lei il suo Egidio, ma ciò non avviene, resterà stritolata nella tonaca nera a languire nella sua prigione, non le sarà consentito volare e morirà come la capinera nella sua gabbia dorata. La storia di questa repressione non può che portare all’esplosione di una nevro­si, della pazzia della protagonista. Maria finisce nella cella dei matti, in com­pagnia di suor Agata, con la quale finisce con l’identificarsi. Il film ha reso perfettamente l’atmosfera tragica e drammatica del romanzo verghiano che accompagna la presa di coscienza e la maturazione indivi­duale di Maria; una consapevolezza che purtroppo non la salverà dalle sbar­re del convento. L’amore per la vita, per la natura e per Nino non cambie­ranno il suo triste e scontato destino, il suo debole tentativo di ribellione non viene preso in considerazione, le tagliano le ali, le impediscono di volare, di seguire il suo cuore e le sue emozioni più profonde. La sua pazzia è un atto di protesta contro chi le ha impedito di essere donna ed un modo per fug­gire dalla realtà del convento che odia, che le è divenuto insopportabile. Morire è per lei l’unica salvezza, l’unica via d’uscita possibile all’inferno della sua atroce esistenza.

Lo scrittore: Giovanni Verga (Catania 1840-1922) Dal 1865 a Firenze, dove compose i primi romanzi (Una peccatrice, Storia di una capinera), si trasferì a Milano, dove, a contatto con la Scapigliatura, rappre­sentò artisticamente il mondo aristocratico-borghese e le sue passioni (Eva, Tigre reale, Il marito di Elena), per trovare la sua vera via, mediante l’adesione al Verismo, nei racconti e romanzi di ambiente siciliano (Nedda, 1874; Vita dei campi, 1880; I Malavoglia, 1881; Novelle Rusticane, 1883; Mastro don Gesualdo, 1889). L’arte di Verga rappresenta un mondo di primitivi, in lotta con l’avverso desti­no, in cui inesorabilmente soccombono quando si staccano dalla religione della famiglia e del lavoro. La lingua di Verga, innovatrice, raggiunge effetti di gran­diosa coralità. D’intensa drammaticità è il suo teatro: Cavalleria Rusticana, Dal tuo al mio, In portineria.

Il regista: Franco Zeffirelli

Nato a Firenze il 12 febbraio 1923, si diploma all’Accademia di Belle Arti della sua città e, dopo aver frequentato architettura, s’interessa di prosa lavorando a Radio Firenze (1946). Debutta nel cinema nel 1947, interpretando il ruolo di Filippo Garrone ne “L’onorevole Angelina” di Luigi Zampa ed assistendo Luchino Visconti sul set de “La terra trema”, esordisce come regista teatrale due anni dopo con “Lulù”, ed in seguito si dedica con notevole successo alla regia di opere liriche, attività che svolge con continuità.

Il primo film da lui diretto è “Camping” (1958), una commedia di sentimenti piuttosto convenzionale; più personale egli sarà ne “La bisbetica doma­ta”(1967) ed in “Romeo e Giulietta” (1968), brillanti trascrizioni shakespearia­ne realizzate con notevole gusto e sorvegliata eleganza figurativa. All’insegna del manierismo sono invece i successivi “Fratello sole, sorella luna”(1971) ed il Kolossal televisivo “Gesù di Nazareth”(1977); il remake di “The champ”, diretto nel 1979, il melodrammatico “Amore senza fine”(1981) risulta sufficientemente godibile. Rigoroso nella trasposizione schermica de “La Traviata”(1982), più leggero in quella di “Otello” (1986), Zeffirelli incappa in un autentico infortunio con il ridi­colo e gigionesco “Il giovane Toscanini” (1988), parzialmente riscattato da un “Hamlet” (1990) contraddistinto da un’insolita fisicità e da un inusuale vigore. Infine, “Storia di una capinera” che rende merito alle pagine di Verga, e la tra­sposizione del brontiano “Jane Eyre” (1995) va ascritta al novero delle sue pel­licole più riuscite. Il suo ultimo film è “Un tè con Mussolini”.

Titolo orig. The way we were Usa 1973 Regia: Sydney Pollack Sceneggiatura: Arthur Laurents Musica: Marvin Hamlisch Fotografia: Harry Stradling Jr ScenografiA: William Kiernan Montaggio: Margareth Booth Personaggi e Interpreti: Hubbell: Robert Redford Katie: Barbra Streisand Bradford Dillman Lois Chiles; Patrick O’Neal; Viveca Lindfors Murray Hamilton; Herb Hendelman Produzione: Ray Stark Per Columbia/Warner Durata: 118’

* a cura di Paola Nucciarelli

Il Film

Katie e Hubbel ex compagni di università convivono, nonostante una sostan­ziale incompatibilità nell’America di Roosevelt: lei è fermamente convinta delle idee comuniste, lui, uomo intelligente e affascinante, vuole tenersi fuori dalla mischia e lavorare come sceneggiatore e scrittore a Hollywood. Ritoccato nel montaggio dai produttori, il film è una delle migliori prove di Pollack per la caratterizzazione di due psicologie forti e decise, per la direzione degli atto­ri molto diversi, ma efficacemente amalgamati, per la regia sorretta dagli ottimi dialoghi di Laurents che non cede mai al sentimentalismo nonostante questo sia un film d’amore. (Ci pensa la bellissima colonna sonora del film) L’impianto del film è quello di una storia sentimentale che accompagna le vicende collettive di un periodo storico cruciale: il rooseveltismo, la guerra fred­da, i processi ai comunisti. Le attività antiamericane, il reinserimento umano e professionale dei reduci della seconda guerra mondiale nella società. Dopo la seconda guerra mondiale, mentre l’Europa era divisa in due blocchi contrapposti, negli Stati Uniti il presidente Harry Truman promulgò la cosiddet­ta ‘dottrina di Truman’ che consisteva nell’esplicito impegno degli U.S.A. di aiu­tare i popoli liberi nella lotta contro i tentativi di sopraffazione da parte di mino­ranze armate o di pressioni esterne e di aiutarli se fossero stati aggrediti da qualche regime autoritario. Questo andava anche considerato come un preciso monito all’U.R.R.S: qualunque suo tentativo di interferire all’interno del blocco occidentale avrebbe visto scendere in campo gli Stati Uniti d’America. Tali decisioni ebbero gravi ripercussioni psicologiche all’interno del paese. Rendendo esplicito il ‘pericolo rosso’, la politica di Truman fece degenerare il

sentimento anticomunista, già molto vivo tra gli Americani, in “caccia alle stre­ghe”. Con questa espressione si intendono le accuse e l’emarginazione di cui rimasero vittime coloro che erano sospettati di simpatie per il pensiero comuni­sta, soprattutto gli intellettuali, gli scrittori, i registi e gli attori e tutti quelli che occupavano posti di rilievo nell’amministrazione e nella vita pubblica. Si distin­se in questa crociata anticomunista, che fu poi rinnegata dagli stessi america­ni, il senatore Joseph Mac Carthy, che diede origine al fenomeno chiamato maccartismo e che costrinse molti innocenti e personaggi illustri ad emigrare (Charlie Chaplin e molti altri).

Quando si guarda un film, molte sensazioni affiorano e ognuno può leggerci quello che vuole, indipendentemente da ciò che intendeva il regista. Per chi scrive, “Come eravamo” è un film d’amore, è un film storico, ma è anche un film su una donna che sacrifica l’amore della sua vita per tenere fede ai propri principi. Katie è ebrea (lo è anche la Streisand), è bruttina, povera, ma è tenace, ama la politica, la libertà di pensiero e rifugge il perbenismo. È una donna piena di cer­tezze che si innamora del ragazzo più carino del college, Hubbel, che ‘era come la nazione in cui viveva: aveva tutto troppo facilmente’. Hubbel si lascia travolgere dall’uragano Katie, l’ammira per i suoi interessi, la invidia per le sue certezze, la stima per le sue capacità, ma si rende conto che non appartengono allo stesso mondo, in quanto, a suo modo di vedere, Katie prende tutto troppo sul serio, spinge troppo, non si integra perché lei vuole essere se stessa a tutti i costi, anche a rischio di mandare in fumo il loro rapporto. Questo è un film degli Anni Settanta, in pieno periodo femminista: la nostra eroina vive da sola a New York, lavora, è indipendente, ha rapporti sessuali prima del matrimonio, è una donna emancipata, un termine che sa di antiqua­to, di superato, oggi che si parla di valorizzazione delle differenze.

Il regista: Sidney Pollack

Nato a South Bend, Indiana il I luglio 1935 è regista, produttore e attore. Poliedrico, geniale, intuitivo il cineasta americano, è un esponente del cosid­detto New Hollywood: un filone artistico che emerge dalle sue regie, carat­terizzato da una visione pessimistica della realtà. Accentuata dalla rievocazio­ne del passato amara e disincantata, volta a confermare la sconfitta idealisti­ca dei valori del presente. Per svelare attraverso il film il disinganno attuale. Emblematiche, in questo senso le pellicole quali Non si uccidono così anche i cavalli? del 1970 e il memorabile Come Eravamo con uno dei suoi inter­preti preferiti: Robert Redford. Anche il suo modo di raccontare il western è particolare: detesta la violenza e la morte fine a se stessa e preferisce deli­neare personaggi eroici e solitari, ma realistici. Con Joe Bass L’implacabile e Corvo Rosso non avrai il mio scalpo del 1972 ebbe due successi intensi che fecero epoca.

Geniale nei thriller sottili e psicologici uscì nel 1974 con Yazuka e I tre giorni del Condor l’anno successivo. Uscì con una spietata analisi del gior­nalismo con Diritto di cronaca nel 1981 e ebbe un gran successo con Tootsie nel 1982. Tra i lavori degli ultimi anni sempre con Redford, La mia Africa del 1985 dove ottiene uno fra i più grandi successi commerciali della sua carriera, oltre che vin­cere 6 Oscar fra cui quello per la regia e come miglior film. Nel 1993 dirige Il Socio con Tom Cruise e Gene Hackman e nel 1995 il remake di Sabrina con Harrison Ford e Julia Ormond. Cineasta controcorrente, polemico e idealista, resta il sognatore che si arrende al pragmatismo, a volte necessario. Il personaggio tipo che porta sullo schermo si muove tra ciò che deve essere in quanto inserito nella società e ciò che vor­rebbe. Diffidente verso le istituzioni resta liberale. Vedere le sue direzioni è sem­pre interessante e l’elenco dei suoi film non si ferma quì.

Sophie’s Choice Usa: 1982 Drammatico: 2h e 31’ Regia: Alan J. Pakula Personaggi e Interpreti Sophie: Meryl Streep Nathan: Kevin Kline Stingo: Peter McNicol Yetta: Rita Karin Morris Fink: Josh Mostel Larry: Stephen D.Newman Sceneggiatura: Alan J.Pakula Fotografia: Nestor Almedros Musiche originale: Marvin Hamilisch Scenografie: Gorge Jenkins Notizie: Oscar alla Streep come attrice protagonista

* a cura di Teresa Ciaccio

Il Film

Siamo nel 1947. Sophie, un ebrea scampata ai campi di concentramento, vive ora col compagno a New York, ma un giovane scrittore si innamora di lei e ne scopre un terribile segreto del passato.

Sophie Zawistowska, cattolica, polacca, sopravvissuta ad Auschwitz, si stabili­sce in America alla fine della II guerra mondiale. Sophie è molto bella…colta…preziosa nei gesti e nei pensieri. Vive a New York con il marito, un nevrotico intellettuale, un rapporto di coppia folle, romantico; un perverso gioco al massacro; le umiliazioni fisiche e psicolo­giche si alternano a momenti dolcissimi di gioiosa e creativa follia…. Una storia femminile crudelmente dolorosa.. Tutto in lei rimanda alla tragedia… La tragedia d’essere donna e madre... Racconta… distilla i ricordi popolati dalle ombre... dai rimorsi... da una vita offesa. Dalle sequenze del film…emerge lentamente una trama di sofferenza profondissima... senza tregua... senza pacificazione... che lascia lo spetta­tore con il fiato sospeso. Non basta a quietare il dolore martellante... l’amore nevrotico del marito.. tene­rissimo generoso, la passione dell’amico scrittore. Non basta l’intermezzo di una parola poetica... di una musica.. di una gita... che spezza il silenzio, che va oltre il grido...oltre il deserto del dolore.

Film drammatico..intensissimo..magistralmente interpretato da una delle migliore attrici americane (Merly Streep) e da un Kevin Kline (Nathan) perfetta immagine del nevrotico.

Ci racconta una versione personale e commovente del dramma dell’olocausto... attraverso la vicenda esistenziale di una sopravvissuta. Ci racconta la tragedia collettiva di una generazione devasatata dalla distruzio­ne aberrante il senso della vita... È un Film che fa male... una drammatica testimonianza... per allargare le coscienze... Una denuncia... un ammonimento per le generazione future... Per non “dimenticare”

Il Regista: Alan J.Pakula

È nato il 7 aprile 1928 a The Bronx, New York, USA. È morto il 19 Novembre 1998, in un incidente stradale a Melville, Longo Island. Ha diretto: L’ Ombra del Diavolo Il rapporto Pellican Presunto innocente

Cast Tecnico Artistico Regia: Shekhar Kapur Aiuto regista: Tommy Gormley Sceneggiatura: Michael Hirst Fotografia: Remi Adefarasin Scenografia: John Myrne Musica: David Stephenson Costumi: Alexandra Byrne Montaggio: Jill Bilcock Produttore: Alison Owen, Eric Fellner Inghilterra: 1997 Durata: 124’ Produzione: Working Titles Films Distribuzione: Polygram Film International

Personaggi e interpreti Elisabetta I: Cate Blanchett Sir Francis Walsingham: Geoffrey Rush Duca di Norfolk: Christopher Eccleston Robert Dudley, Conte di Leicester: Joseph Fiennes Sir William Cecil: Richard Attenborough * a cura di Maria Grazia Riveruzzi Maria di Guisa: Fanny Ardand

Il Film

Inghilterra 1554: con la regina Maria I al trono, cattolica zelante, nel paese regna l’instabilità economica e religiosa. Nulla in quegli anni sembrava più lon­tano da lei, Elisabeth, dal trono d’ Inghilterra; anni che la giovane donna tra­scorre però a studiare, danzare come vi fosse predestinata, anni in cui gli ingle-si turbati dalle lotte di palazzo intorno ad Edoardo VI e sconvolti dalla ferocia con cui Maria vuole riportare il paese all’obbedienza cattolica, guardano sem­pre più a lei, Elisabeth con speranza ed ammirazione (scena del passaggio della carrozza regale di Elisabeth tra i tumulti e le invocazioni di aiuto del popolo). Sfuggita alla condanna a morte per tradimento, il 17 novembre del 1558, Elisabeth riceve l’anello di Maria Tudor da sir Nicolas Throckmorton come pegno di consacrazione. Incoronata regina, Elisabeth si trova a dover affronta­re nemici interni, la bancarotta, l’aggressione della Francia… un esercito in disfacimento. Difficile credere all’improvvisazione: Elisabeth all’epoca venticinquenne (era nata dalle criticatissime seconde nozze di Enrico VIII e Anna Bolena) rivela fin dal primo momento il temperamento prudente e calcolatore e il gusto per la scene teatrali, per le danze (era un’ottima ballerina e un’ottima cacciatrice) che l’avrebbero contraddistinta per 44 anni di regno.

 

Legata sentimentalmente a Robert Dudley, il suo scudiero, alto e bellissimo, dal viso bruno di zingaro e chiacchierato per lo stretto legame con la regina (ritrat­to storico), Elisabeth rifiuta di sposare il duca d’Anjou e tiene in scacco tra vaghe promesse e vaghe assicurazioni sia il papa, sia il neovedovo cognato spa­gnolo Filippo II. In politica interna il compito che le spetta è immane. Il paese è sconvolto dalla contesa tra cattolici e protestanti, da quando Enrico III nel 1534 l’ha separato dall’obbedienza papale: chiusi i monasteri le ricche terre, i tesori d’arte sono stati venduti a nobili borghesi che subito si erano schierati col re e con la Chiesa anglicana. Ma i loro capi spirituali furono i primi a salire sul patibolo, quando Maria, la cattolica, innamoratissima del marito, ha sini­stramente illuminato l’Inghilterra di roghi degli eretici nell’assurdo voto di diventare madre in età matura. Colta e pragmatica, nei confronti del problema religioso, Elisabeth assume una posizione scettica derivata dalla sua educazione umanistica (illumi­nanti sono le parole pronunciate durante la scena dell’interrogatorio “Le lotte religiose sono cose meschine... in fondo siamo tutti credenti”): non prende posizioni di condanna rispetto ai cattolici, ma ragioni economiche e politiche la portano sulle orme del padre. Con l’atto di supremazia il Parlamento la dichiara prontamente “ governatore della Chiesa” e l’Atto di uniformità impone a tutti i sudditi il Libro protestante delle preghiere. Per Elisabettta sono anni di duro lavoro: vuole restituire al suo paese l’u­nità, l’ordine e la pace. Il sentimento nazionale si coagula intorno alla snel­la ragazza dai capelli rossi e i vivaci occhi azzurri che sembra avere a cuore prima di tutto il destino del suo popolo. Elisabetta non lo deluderà mai. Due sono i problemi che impegnano i primi anni del suo regno: convince-re il Parlamento che non desidererà sposarsi e prevenire le insidie dei par­tigiani di Maria Stuart, regina di Scozia, cattolica e sua legittima erede. Sventate le cospirazioni e confidando in sir Francis Walsingham, riuscirà a diventare la leggendaria regina Elisabetta, formidabile, imbattibile, intoc­cabile...: la Regina Vergine. Di regina Elisabetta sullo schermo ce ne sono state tante; cominciando dalla tre­molante Sarah Bernhart e continuando con il volto soave di Jean Simmons, o spaventoso di Bette Davis, o superbo di Glenda Jackson, o sorprendente del tra­vestito Quentin Crisps. L’ultimo Elizabeth, presentato fuori concorso, al Lido di Venezia (settembre 1998) dal regista Shekhar Kapur la più umana, ingenua e intelligente, crudele e affascinante, esitante e decisa, perdente e vittoriosa, dal viso luminoso ed inquietante di Cate Blanchett che, nella sua assoluta modernità, fa pensare più delle altre ai ritratti ingioiellati e austeri della grande regina che si avvolgeva in abiti ricchi e sontuosi come un idolo orientale. Elizabeth I d’Inghilterra piace perché consente spesso di porsi la domanda: era vergine o no? In ogni caso in quest’ultimo film, Elizabeth di sicuro vergine non lo è, se si deve tener conto delle scene di danze sensuali con il conte di Leicester

e dell’entusiasmo con cui la regina lo accoglie nella sua stanza molto frequen­tata da dame di corte e da dignitari. Può darsi che nella realtà non sia andata proprio come costruisce il film (anzi la storia lo smentisce), ma è un bel momento del cinema di cinema, il processo attraverso il quale Elisabetta, ormai saldamente sul trono, ripudia la sua carna­le femminilità per “farsi” regina vergine e sposare l’Inghilterra: pallida e irrag­giungibile come una Madonna diventa simbolo eterno di un paese raccolto e trasformato nel più potente d’Europa. Cate Blanchett, vulnerabile nella vaga trasparenza della sua pelle e perforante grazie agli occhi chiari e talmente penetranti da invadere l’animo di chiunque la guardi; presta tutta la sua bravura e sensibilità, nonché la sua tizianesca bel­lezza, al ruolo d’Elisabeth, regina innamorata del potere, della vita, dell’amore e della fedeltà ai propri ideali. In un’intervista di Natalia Aspesi, l’attrice dichiara: “ogni mattina stavo due ore al trucco e altre due ore ci volevano per indossare i pesanti abiti-corazza. E ho segnato il passaggio di questa vita regale proprio attraverso il mutare delle pet­tinature, dei costumi, del trucco, sino a trasformare, come si vede nei ritratti d’epoca, il mio volto in una maschera bianca, senza sesso e senza tempo”. Splendida lettura cinematografica di un personaggio storico assurto a mito, che ha fatto dell’uso dell’abbigliamento solo in piccola parte, la soddisfazione della sua vanità femminile. Era prima di tutto uno strumento di governo offrire di sé l’immagine di una remota dea, senza tempo, che appariva ai sudditi idealizza­ta, immortale e rassicurante. Il film è di straordinaria modernità, una lezione di come sia possibile fare un film storico senza annoiare, con un cast perfetto e una messa in scena impeccabile. Il tutto per raccontare il travaglio e la metamorfosi di una donna che da adole­scente inquieta e appassionata si trasforma in feticcio della regalità. “Il corpo e la persona di sua Maestà non appartengono più a lei ma allo Stato” le ricorda Sir Williams (?), non appena Elisabetta diventa regina d’Inghilterra e ancora giovane e ardente freme sotto le carezze audaci di Lord Robert come la sua terra, l’Inghilterra, sta fremendo sotto lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli che annunciano la guerra. La ragione di Stato non ascolta le voci del cuore ed esige la rinuncia del­l’amore. Congiure, complotti, e guerre, sangue e morti, nell’Inghilterra del ‘500, esigo­no da Elisabeth un governo spietato ed intelligente. “ Sarò pure una donna, ma posso avere il cuore di un uomo”. “Ho liberato l’Inghilterra dai miei nemici. Devo, dunque, essere di pietra! Non potrò più intenerirmi?”. Frasi emblematiche di Elisabetta che preannunciano il rito di una spoliazione dolorosa dell’identità femminile per assumere la nuova vestizione di genere maschile: Elisabetta si taglia la splendida chioma, il cui colore rimanda alla pas­sione così evirata e lo stesso fa subire al roseo colorito della sua pelle, tingen­dola di bianco. Si tramuta così in una statua apparentemente impenetrabile e

indistruttibile come la statuetta della Madonna che tanto l’ ha ispirata: ”Ho liberato l’Inghilterra della sua presenza, devo prendere il posto di quell’intocca­bile simbolo”. Così diventa Elisabetta la regina vergine e rinuncia alla sua fem­minilità per sposare l’Inghilterra e il suo popolo.

Il Regista: Shekhar Kapur

Nato in Pakistan nel 1945, si trasferisce a Londra negli anni ’70 dove lavora come contabile. Comincia qui a interessarsi di fotografia e di cinema e, a 25 anni, deciso a cambiar vita, ritorna in India e intraprende la carriera di atto­re. Pur continuando a recitare, nel 1983 passa dietro la macchina da presa e dirige Masoom. Il successo del film lo impone come uno dei maggiori gio­vani talenti del cinema hindi. Quattro anni più tardi realizza Mr. India, un altro enorme successo, ora diventato un classico. Entrambi i film ottengono numerosi riconoscimenti in patria. Nel 1994 presenta Bandit Queen, proi­bito in India, ma festeggiato in molti festival occidentali gli ha dato la noto­rietà internazionale.

Titolo originale: ‘A price above rubies’ Cast Tecnico Artistico Regia: Boaz Yakin Soggetto e Sceneggiatura: Boaz Yakin Fotografia: Adam Holender Montaggio: Arthur Coburn Musica: Lesley Barber Scenografia: Dan Leigh Costumi: Ellen Lutter Produttore: Lawrence Bender, John Penotti Per A Band Apart USA: 1998 Durata: 110’ Produzione: Miramax Distribuzione: Pandora Personaggi e interpreti Sonia: Renee Zellweger Mendel: Glenn Fitzgeral Ramon: Allen Payne Rachel: Julianna Margulies * a cura di Paola Nucciarelli Mendicante: Kathleen Chalfant Feige: Edie Falco Rabbino: John Randolph Moglie del rabbino: Kim Hunter Sonia bambina: Jackie Ryan Yossi: Shelton Dane

“...Tu non credi, mamma, perché non ci vuoi credere, perché la tua è una saggezza collettiva, grande, immensa, che in questo deserto ti rende più forte e più sicura, ma poi ti senti sempre più spaurita e meschina di fronte a una minima goccia di mistero, e perciò quella goccia ti perseguita dappertutto, con una logica ferrea e chiara e lampante come il sole a mezzogiorno…ma io non mi spavento, mamma, e non mi sono spaventata”.

(Abraham Yehoshua, Il signor Mani, Einaudi -Torino, 1994, p.87)

Il Film

Nel chiuso universo ebraico ortodosso di New York, Sonia, una giovane donna cresciuta ed educata secondo gli schemi e i precetti rigidi della Bibbia, si ribella alle ipocrisie della Comunità in cui vive.

Secondo la Torà (il libro sacro degli ebrei) una donna virtuosa vale più delle pie­tre preziose e il titolo in lingua originale ‘A price above the rubies’, letteral­

mente ‘Un prezzo al di sopra dei rubini’, sintetizza perfettamente la trama di questo film, è denso di significato, perché quella pietra, nella vita della prota­gonista, ha un altissimo valore. Il film sembra ‘incastonato’ tra due momenti: nel primo, un bambino regala un rubino ad una bambina, ma la pietra è falsa. Nel secondo, un uomo regala un rubino ad una donna. Il gioiello è vero, è bellissimo, ma è troppo tardi. Al cen­tro del film, la valutazione di una spilla che è bella, di splendida fattura, ma è falsa, come falsa è la vita di Sonia. Non di una falsità immediata, evidente, ma sottile, difficile da notare per un occhio non esperto, come per un profano sco­prire che una spilla di ottima fattura è in realtà un falso. La vita di Sonia Horowitz rispecchia ciò che i suoi genitori volevano da lei: si è sposata con Mendel, un giovane professore erudito e fermamente credente, ha dato alla luce un figlio maschio, vive in un quartiere popolato da ebrei ortodossi come lei. La vita dovrebbe scorrere senza problemi ma, per Sonia, la casa, la famiglia, la vita matrimoniale, i rapporti intimi con il marito, non sono soddi­sfacenti perché deve costantemente combattere con le sue passioni latenti che diventano, con il passare del tempo, più impetuose e incontenibili. Sonia intreccia una relazione adulterina e angosciante con il cognato Sender, con il quale ha dei rapporti sessuali freddi e ostili. Questa esperienza fa riflet­tere la protagonista e la spinge a capire se stessa, le sue vere esigenze di per­sona e di donna e ad intraprendere una carriera nel commercio dei gioielli. Il lavoro permetterà a Sonia di avere contatti con il mondo esterno alla comu­nità dove scoprirà un mondo diverso da quello in cui è cresciuta, lotterà con il marito, con la sua famiglia, nonché con se stessa per affrancarsi dai tabù e conquistare quella libertà che tanto anelava. Per vivere libera ed essere se stessa, Sonia dovrà pagare un prezzo altissimo, ben più alto di tutti i gioielli e dei rubini che vende.

La storia è raccontata dal punto di vista della protagonista che, contrariamente agli insegnamenti ricevuti, mette al primo posto le sue esigenze individuali e personali davanti a quelle del gruppo in cui vive: Sonia non è disposta a sacrifi­care se stessa in cambio di una stabilità familiare e del benestare della comu­nità in cui vive. Il film apre la porta quindi all’antica questione (ricordiamo la figura di Antigone) e sempre attuale: i bisogni e le credenze del singolo sono più importanti della stabilità della comunità in cui si vive, delle leggi? È giusto sacrificare una stabilità familiare ed emotiva, una rispettabilità, per ricercare la propria libertà? Sono più importanti le leggi dettate dalla comunità che garan­tiscono, nel bene e nel male, la stabilità della comunità stessa, o le aspirazioni e convinzioni individualistiche e personali? E quale prezzo è giusto pagare per aver infranto determinate regole? La protagonista del film è come Antigone, risponde alla domanda con una scelta individualistica e ne paga il carissimo prezzo: la perdita del suo bambino, degli affetti familiari, della sicurezza eco­nomica. Sonia diventa un’eroina a tutti i livelli perché ha il coraggio di guardarsi dentro e di accettare le conseguenze della sua lucidità.

Il film è privo di retorica, non sembra esserci, da parte del regista, la volontà di emettere un giudizio sul modo di vita della comunità ebraico-ortodossa : se si appartiene per cultura, per educazione, o per convinzione e credo personale ad una certa comunità e non si sente il bisogno di cambiare, nessuno ha il diritto di giudicare se questa appartenenza sia giusta o sbagliata, ma se si ci si sente diversi è sbagliato continuare a percorrere tale strada. Se una convinzione è profonda e vera va sempre rispettata: il marito di Sonia che è un uomo buono e profondamente credente, non infierisce sulla moglie, alla fine comprende la sua diversità e l’accetta. L’aspetto più rilevante di questa pellicola è quello di voler delineare una sorta di laicismo emancipato di cui Sonia è l’elemento caratterizzante. La donna, infat­ti si schiera contro le ipocrisie della comunità in cui vive, ma solo perché lo zelo religioso è quello che la priva della sua femminilità e del suo essere donna nel senso più pieno. Il gioco dei rubini è un film sul laicismo necessario all’emanci­pazione di una donna da regole ed obblighi che non capisce. Il Dio nominato da tutti è, nella mente della protagonista, solo un vecchio maschio bisbetico che non ha alcuna pietà per gli esseri di sesso femminile. Ed è per questo, forse, che la statuetta della ‘Madonna consolatrice delle donne’ che sta sul tavolo del giovane artista ispanico, scrutata da Sonia con tanta curiosità, è la concretizza­zione (un po’ semplicistica) di quella richiesta di affetto e comprensione da parte di un universo femminile spesso inascoltato da un Dio che sembra rivol­gersi soprattutto ai fedeli maschi.

Il regista: Boaz Yakin

Appartiene a quel gruppo di giovani registi indipendenti che affrontano le diversità culturali che convivono in un territorio così multicolore, come gli Stati Uniti. Yakin nasce in Israele e da bambino si trasferisce con la famiglia a New York, per poi arrivare ad Hollywood alla ricerca della fama e del successo. Scrive la sceneggiatura di The Rookie (1990) diretto da Clint Eastwood con Martin Sheen, un dramma sulla corruzione della polizia. Un film mediocre, che lo spinge a interessarsi solo di società multiculturali, con l’eterna lotta dell’indi­viduo alla ricerca di se stesso. Quattro anni più tardi esce Fresh (1994), storia di un afro-americano che cerca di scappare dal violento e opprimente ghetto, dove ha sempre vissuto e dove le uniche leggi sono costituite dalla corruzione, dalla droga e dalla violenza. Nel 1998 torna alla regia con Il gioco dei rubini, nel 2000 ha diretto Remember the titans con Denzel Washington.

Titolo originale: Dayereh Regia: Jafar Panahi Personaggi e Interpreti Fereshtel: Sadr Orafai Nargess: Parvin Almani Mojgan: Faramarzi Coproduzione: Mikado e Lumière Distribuzione: Mikado Durata: 90’ Leone d’Oro Venezia 2000

*a cura di Marisa Rotiroti

Il Film Ambientato nell’Iran integralista e teocratico, il “Cerchio” è insieme la narrazione simbolica di un “girotondo di dolore” e un “inno alla libertà”, urlato dalle donne oppresse dal fondamentalismo islamico.

Nel film non ci sono protagonisti assoluti, ma vengono narrate le microstorie di otto donne alla ricerca della propria libertà; storie incomplete, che rappresen­tano la condizione femminile iraniana in un ritratto collettivo: la tremenda e costante ansia in cui vivono le donne nel timore di sbagliare, di essere colpevo­lizzate, di venire rimproverate e punite. Tengono, infatti, gli occhi sempre bassi, camminano a passo veloce rasente i muri e si coprono quanto più è possibile.

Le donne che il regista prende a campione vivono situazioni estreme: di loro non si sa nulla, tranne il fatto che abbiano scontato una pena detentiva e che condividano una condizione di precarietà e di costante pericolo; “escono tutte da una piccola prigione (dove sono state rinchiuse per il solo fatto di essere donne) ed entrano in una prigione più grande, quella della società; per tutto il tempo del film, quindi, si trovano rinchiuse in un recinto, in un cerchio(da un’intervista al regista Panahi). I loro nomi sono tutti poetici ed evocativi di libertà:

Pari -farfalla – pur essendo nubile, aspetta un figlio da un compagno che è morto, per questo è scappata dal carcere. Cerca di abortire, ma non è possibi­le senza il consenso di un marito o di un padre. Arezù – speranza – è uscita di prigione con un permesso temporaneo. È molto nervosa, infastidita dal com­portamento degli uomini per strada e non può neanche fumare in pubblico, ma nel suo doloroso peregrinare è molto fiera. Il suo unico obiettivo è quello di aiu­tare la sua amica Nargess a ritornare nel suo villaggio di origine, che nel sogno assomiglia al Paradiso. Nargess – fiore – innocente e tenera, ama la vita, tende a smarrirsi nel mondo che la circonda, ma vuole fortemente tornare a casa.

Elam è l’unica che, uscita dal carcere, grazie al matrimonio con un medico, si è ben inserita nel mondo del lavoro e nella società. Il costo di questa “norma­lità” è, però, l’annullamento del suo passato e quindi della sua identità. Monir tornata a casa dalla prigione deve accettare la seconda moglie del marito alla quale persino la figlia si è affezionata più che a lei. Nayereh, madre nubile, tenta di abbandonare la propria figlia, pur amandola disperatamente, perché spera che in una famiglia vera si troverà meglio. Mojgan è una donna orgo­gliosa: non mente e non nasconde di essere una prostituta. È l’unica che riu­scirà a fumare la...tanto agognata sigaretta!... Solmaz Gholami ha partorito una femmina e non un maschio come sembrava dall’ecografia. La madre è ter­rorizzata perché teme il divorzio per la figlia, di contro sono sereni e gioiosi i volti delle donne che le sono state vicine durante il parto e sembrano invitare all’accettazione della bambina. E’ l’unica che nel film non si vede mai, ma è importante perché rappresenta la saldatura del cerchio!…

Il suo futuro, però, non è roseo nonostante il significato del suo nome: fiore eterno. Speriamo che non sia femmina....Due episodi significativi stimolano il regi­sta Jafar Panahi a girare il film: la nascita della propria figlia nel giorno della sua laurea e la lettura di un trafiletto di giornale “donna si toglie la vita dopo aver ucciso le sue due figlie”...nulla più... Essere donna è difficile dovunque (promozioni mancate nel lavoro, aumenti salariali non concessi, mobbing nell’ambito lavorativo e familiare…), ma lo è molto di più nel mondo islamico. Il toccante film di Panahi è molto eloquente nella sua forza espressiva e ci mostra con stile rigoroso ed asciutto la difficoltà di essere donna in Iran; infatti il primo vagito di una neonata è già un grido che, soffocato, sommesso, accompagnerà per sempre la sua condizione di donna.

Per descrivere l’atmosfera di un paese dove alle donne sono negate le libertà più elementari il regista sceglie una narrazione circolare efficacemente metafo­rica, che si evidenzia nettamente nell’analogia creata tra la prima inquadratura e l’ultima, nelle immagini di feritoie che aprono o chiudono il varco allo sguar­do, nella chiusura di porte (simbolo di negazione di libertà), nell’annullamento della corporeità di tutte le donne occultata da informi soprabiti grigi e chador neri, nella sensazione che ogni donna possa essere sostituita da un’altra in un cerchio di emarginazione che annulla le differenze. Lo stesso cerchio si allarga e racchiude le donne del mondo occidentale imponendo una riflessione: pur avendo il boom economico e il movimento femminista degli anni ’70 spazzato via quei divieti, dovuti più alle consuetudini sociali che alle leggi, anch’esse sono prigioniere di qualcosa: dell’emancipazione, della loro bellezza ad ogni costo, dei centri commerciali per lo shopping, dell’omologazione al modello maschile, che annulla le differenze e nega il diritto di esistere per sé. Gli otto brevi ritratti di questo bel film corale, denso e toccante, ci parlano con la loro ricchezza umana e i loro drammi leggibili sui forti volti ripresi in intensi primi piani, ci rendono partecipi del loro cammino in cui ogni donna “si vede” nell’altra e le passa il testimone della propria esperienza.

Nel film di Panahi motivi storici e culturali racchiudono anche gli uomini in un cerchio di arretratezza e di isolamento: non si nota mai alcun tipo di maltratta­mento o di collera maschile verso le donne. Elle, però, hanno paura della poli­zia che, vista in campo lungo, ha un aspetto minaccioso per cui si nascondono e fuggono; in campo medio invece il poliziotto ha un aspetto gentile e quando alla fine si trovano a bordo del cellulare sono finalmente immerse in un’atmo­sfera di umanità. Per Panahi il “giocoliere” che tiene le donne nelle sue mani è lo Stato mai nomi­nato, ma sempre presente; lo Stato come potere e organizzazione sociale, come religione, ideologia, tradizione e costume.

Il Regista: Jafar Panahi

Nato nel 1960 a Mianeh (Iran), Jafar Panahi ha studiato regia alla scuola di Cinema e Televisione di Teheran. Dopo aver girato diversi cortometraggi per la televisione iraniana, ha lavorato come aiuto regista di Abbas Kiarostami al film “Sotto gli ulivi” (1994). Nel 1995 realizza il suo primo lungometraggio, “Il Palloncino bianco”, alla cui sceneggiatura collabora Kiarostami. Il film ottiene la Camera d’or per la Miglior Opera Prima ed il Premio Fipresci della Critica Internazionale al Festival di Cannes del 1995. “Lo Specchio” suo secondo film, ha ricevuto il Pardo d’Oro al Festival di Locarno nel 1997, confermando le sue doti di regista sensibile e innovativo. “Il Cerchio”, terzo lungometraggio del regista ha conquistato il Leone d’Oro a Venezia nel 2000.

Regia: Norman Jewison Personaggi e Interpreti Martha Livingston: Jane Fonda Madre Superiora: Anne Bancroft Agnese: Meg Tilly Fotografie: Sven Nykvist Colore -1985 Drammatico -Durata: 95 minuti Nominatin Oscar 1985: migliore attrice: Anne Bancroft migliore attrice non protagonista: Meg Tilly migliore colonna sonora: Georges Delerue

*a cura di Maria Grazia Riveruzzi

Il Film

In un’atmosfera surreale, riscaldata dai colori cupo-rossastri di un cielo al tramonto, si staglia su un colle solitario il convento di clausura de “Les petites soeurs”. L’obiettivo si sposta all’interno del luogo e indugia nel simbolismo scenografi­co di lunghe file di “capinere” in preghiera e di quadri di sante in estasi; le scene sono accompagnate da musiche e canti religiosi che concorrono a crea­re nello spettatore suggestioni remote e infantili. Ma...un grido acuto squarcia il silenzio della notte e riporta bruscamente lo spet­tatore ad una cruda realtà, dominata da sangue e da sgomento: una giovane suora, Agnese, partorisce nella propria cella e strangola il proprio neonato. Miracolo o profanazione? Questo dilemma sovvertirà l’ordine dei pensieri e delle emozioni della dott.ssa Martha Livingston (Jane Fonda), psichiatra, nominata dalla Corte e incaricata dalla Magistratura di scoprire la verità. Siamo negli anni settanta del XX secolo e la storia si svolge in una Montreal dinamica e moderna; eppure nei suoi dintorni vive un mondo a parte, chiuso da mura secolari e rinchiuso in un reticolato di abitudini e di vite lontane, dove, ancora una volta, si ripropone l’incontro-scontro tra ragione e fede. Agnese (Meg Tilly), la giovane e angelica novizia, sostiene di non avere nessun ricordo né della nascita né del concepimento, parla di unione con Dio, evoca visioni mistiche e apparizioni della “Signora“, che chiama “mammina”. La Madre Superiora (Anne Bancroft) crede nella sua storia, crede nei miraco­li (sanguinamenti, concepimento per opera di Dio) e crede in Agnese quale sposa di Dio.

Martha non crede nei miracoli, ma resta colpita dall’ingenuità infantile di Agnese e dalla sua sincera devozione. Vuole capire e spiegare l’intricato e delit­tuoso mistero con la forza della ragione e della verità. Con la complicità di un luogo, lontano dal tempo e dallo spazio e dalle pastoie di morali laiche o religiose che siano, s’intrecciano, tra queste donne così diver­se, rapporti affettivi, confidenze e trasgressioni maliziose (sigarette), storie di vissuti dolorosi e di desideri di amore e di riscatto. Si sciolgono, alla luce dei ricordi, le reciproche diffidenze e per pochi momenti vacil­lano le certezze della ragione (Martha) e le certezze della fede (Madre Superiora).

Entrambe sono mosse da un unico desiderio: quello di salvare Agnese a tutti costi, di sottrarla allo spietato e “troppo umano “giudizio delle autorità patriar­cali, ricorrendo l’una ai metodi dell’analisi psicanalitica e l’altra alle menzogne di una fede filistea. Il volto candido e puro, il canto angelico e l’anima innocente fanno di Agnese una creatura celestiale e tale appare a Martha; il suo scetticismo vacilla di fron­te a tanta ingenua e assoluta devozione in Dio e nell’umanità. Crede in Agnese, che, seppur contaminata nel corpo, non lo è di certo nello spirito e, pertanto, vuole dimostrare la sua innocenza. La verità verrà svelata e con essa emergerà il dramma psicologico della giovane Agnese, che si trasforma in una battaglia tra il rapporto con la vita e con la sua stessa anima. L’anamnesi dell’infanzia di Agnese porta alla luce un misterioso intrigo di lega­mi familiari e di alienazione ed evoca anche nella psichiatra tristi ricordi d’in­fanzia: il conflitto con la propria madre, la frustrazione quotidiana di non esse-re da lei accettata, la ricerca di luoghi segreti dove vivere la propria solitudine e sfuggire alle amarezze della vita. La trama del film si snoda disegnando magistralmente il parallelismo tra le scel­te esistenziali e radicali delle tre donne: la Chiesa, Dio, il lavoro-carriera ...e sem­bra suggerire allo spettatore a non concepire le proprie scelte (teologiche, ideo­logiche e quant’altro) come qualcosa di definitivo e di estremo. Non è da escludere che il regista JEWISON, incline ad un’esegesi laica della materia religiosa, si sia ispirato alla tradizione mistica del Cattolicesimo per rap­presentare l’esperienza mistico-carnale di Agnese come frutto di alienazione e d’isterismo, ma anche come una via di evasione e di liberazione, come un’aspi­razione alla perfezione ed alla felicità. Isterismo mistico e devozione assoluta, quindi, potrebbero essere la chiave di lettura dell’intricata vicenda; ciò non toglie che la fede svolga un ruolo impor­tante e faccia di Agnese “un caso speciale”..., “una creatura di Dio” destina­ta a restituire fiducia nella vita alla Madre Superiora e ad infondere amore nel­l’animo ormai inaridito della psichiatra. Significative risuonano le parole di speranza con cui Marta dà voce al suo cuore e che accompagnano “fuori scena” le ultime sequenze del film: “Volli pensa­re che fosse toccata dalla Grazia”.

Non bisogna dimenticare che il matrimonio mistico è un topos del Cristianesimo dalla storia lunga e complessa che risale al Medioevo, compren­dente l’esegesi biblica, la liturgia, cerimonie pubbliche (scena dell’investitura della novizia), misticismo e vita monastica. Già a partire dal IV secolo d.C., i teologi cristiani consigliavano alle religiose di pensare alla loro vita come ad un matrimonio con Cristo. Con lo sviluppo della vita claustrale nel Medioevo, le monache ebbero sempre presente come modello la Vergine Maria, sposa di Dio, in un’unione mistica. Un testo anonimo tedesco di questo secolo, il St. Trudperter Hohelied,dà un’in­terpretazione mariologica del Cantico dei Cantici proponendo un paragone continuo tra la Vergine Maria e le monache, spose di Dio. L’idea del matrimonio mistico nel XII secolo, oggetto di predicazione maschile e clericale rivolta alle monache, entrò nei secoli successivi nella tradizione delle religiose, rendendola parte integrante per la comprensione di se stesse. Basti ricordare due sante del XIII secolo, Chiara d’Assisi e Gertrude di Helfta; quest’ultima, nell’organizzare la vita monastica in 7 gradi, introdusse nell’exer­citium divini amoris, al 5° grado, il desiderio della “unio mistica” come parte della devozione quotidiana della monaca. In effetti, la propria autorappresentazione come sposa di Dio diventò una com­ponente essenziale della spiritualità femminile fino alle soglie dell’età moderna. Rudolph M. Bell ha preso in esame quasi duecento storie di religiose, beate o sante, e vissute tra il XIII e il XVI secolo per essere state famose per i loro pote­ri spirituali in imitatio Christi e in unione Christi. In tutti questi secoli e in tutti i cambiamenti sociali e etici ,il matrimonio mistico ha mantenuto un potenziale liberatorio perché sia nella sua forma comunitaria che in quell’intima personale, esso implicava sempre un lega­me con Dio, ovvero l’unione mistica che il Cristianesimo interpretava come il potere massimo.

Regia: Luc Besson Interpreti: Milla Jovovich, John Malkovich, Faye Dunaway, Dustin Hoffmann Tchecky Karyo, Vincent Cassel. Musica: Eric Serra Costumi: Catherine Leterrier Colore -1999 Durata: 152 minuti Produzione: Francia, 1999 Durata: 161’ Sceneggiatura: Luc Besson -Andrew Birkin

Fotografia: Thierry Arbogast Scenografia: Hagues Tissandier Montaggio: Sylvie Landra Musiche: Eric Serra * a cura di Mara Gaudioso Costumi: Catherine Laterrier

Il Film

Giovanna D’Arco giovane contadina francese, analfabeta, viene incaricata da Dio, di liberare la Francia dagli inglesi. Diventata scomoda al potere costi­tuito per le sue inspiegabili capacità divinatorie e anche perché donna, dopo le sue innumerevoli vittorie, verrà fatta cadere nelle mani degli inglesi. Processata per eresia verrà condannata al rogo nella piazza di Rouen il 31 maggio 1431. Il regista del film, Luc Besson, da buon francese ha realizzato un’opera intensa, vivendo con trasporto e partecipazione questa drammatica storia e anche per la straordinaria interpretazione degli attori, tutti di indiscutibile bravura. Il film ha inizio con Giovanna bambina, che vive in un villaggio di campagna. La sua vita scorre tranquilla fino a quando non assiste, impotente, alla distruzione della sua casa e allo sterminio della sua famiglia per opera degli inglesi. Da quel momento in poi è ossessionata dall’idea di cacciare gli invasori dalla sua terra, così dopo diversi tentativi falliti si reca dal re e lo convince ad affidarle un eser­cito per liberare la Francia dagli inglesi, lui accetta, così Giovanna, guidata da Dio, porta inspiegabilmente le truppe francesi alla vittoria. Sebbene tutti all’ini­zio la guardano con sospetto, la deridano e la denigrino con insulti ed umilia­zioni gratuite perché non accettano che una donna, da sola, possa compiere un simile prodigio, alla fine cominciano a rispettarla e ad avere fiducia in lei : tutto ciò che lei presagisce, si avvera sempre. Così come aveva previsto, il re verrà incoronato sovrano di una Francia non ancora del tutto libera, ma incredibilmente Giovanna viene privata dell’eserci­to, mentre è pronta a liberare Parigi. È chiaro quindi che Giovanna da eroina instancabile e guerriera, è diventata scomoda per il potere costituito che la vede

come una minaccia per la propria tranquillità politica e come una possibile fomen­tatrice di popolo; così i francesi che lei aveva aiutato vigliaccamente la consegna­no nelle mani degli inglesi che avevano tutto l’interesse di eliminare quella fan­ciulla che era riuscita da sola ad infliggere loro una sconfitta clamorosa. Durante la prigionia Giovanna “incontra” la sua coscienza, interpretata dallo straordinario Dustin Hoffmann, che farà nascere in lei il dubbio che i suoi idea-li non erano opera di Dio, ma erano mossi da un suo personale spirito di ven­detta contro gli inglesi che si erano macchiati dell’assassinio della sua famiglia. L’ultima confessione, prima del rogo, negata più volte da una chiesa ipocrita, invischiata nei più squallidi giochi di potere, avverrà con la propria coscienza. La pace dello spirito non si ottiene con una fede razionale e meccanica schiava dei dogmi, ma con un’autocritica attenta e severa del proprio comportamento, con un’analisi sincera dei propri errori. Giovanna alla fine si rende conto che tutte le sue azioni sono stata una sua libera scelta non un’imposizione venuta dall’al di là. Da qualsiasi punto di vista si consideri Giovanna, una santa o una donna piena di coraggio che vuole farsi giustizia da sola, in entrambi i casi è più che evidente che questa donna faceva paura al potere, un potere maschilista che prima si era servito di questa indomita guerriera e poi ottenuto ciò che voleva, l’abbandona a se stessa e la vende nel modo più bieco al nemico. È questo quello che mi fa maggiormente indignare, il tradimento più abietto, l’azione più bassa che un uomo possa fare. E questo straordinario film è una ventata di verità sugli anni bui della nostra storia. Giovanna d’Arco è senza dubbio un ottimo film, con grandi interpreti, con una ricostruzione storica apprezzabile, con degli splendidi costumi, con delle sequenze di battaglie veramente realistiche. In definitiva un bel film, concreto, non scontato, che dà un punto di vista intel­ligente ad un personaggio straordinario ed enigmatico che trascinò un popolo oppresso alla propria liberazione. Detta la Pulzella (dal francese antico pulcele, “fanciulla non sposata”) d’Orleans, eroina francese, nata a Domremy nel 1412 e morta a Rouen nel 1431. La storia di questa fanciulla sembra leggendaria , in realtà le vicende della sua breve vita sono tutte vere, storicamente comprovate. Esse hanno come sfondo la Francia nella guerra dei Cent’anni: verso il 1425 il suolo francese era occupato per tre quarti dagli inglesi di Enrico VI e dagli uomi­ni del duca di Borgogna ( i “Borgognoni”); sull’altro quarto regnava un sovra­no debole, Carlo VII. Parigi era nelle mani degli inglesi e il re si era ridotto a vive­re a Bourges. In questa situazione tutte le città passavano al nemico : la dina­stia dei Valois sembrava avere vita breve, solo un miracolo avrebbe potuto sal­vare la Francia. E il miracolo venne da un oscuro paese della valle della Mosa, dove una ragazza di 13 anni diceva di avere delle visioni e di sentire delle voci che la incitavano a combattere per la salvezza della patria. Si convinse quindi di avere una missione da compiere : liberare la Francia dagli inglesi e restituir­la al suo re, Carlo VII.

Nel gennaio del 1429, Giovanna riuscì a farsi ricevere da Carlo VII e gli disse di aver ricevuto da Dio il compito di farlo incoronare re di Francia a Reims, che era allora in mano agli inglesi. Rincuorato dalle parole della fanciulla, il sovrano le assegnò un esercito di 8000 soldati. Prima di prendere le armi Giovanna scrisse al re inglese intimandogli di abbandonare il suolo francese, ma poiché non ottenne risposta si ritenne libe­ra di attaccare. Si recò prima ad Orleans dove costrinse gli inglesi alla resa, fu questo il suo primo successo visto dai francesi come un prodigio. A giugno del 1429 avvenne lo scontro decisivo a Patay, vicino ad Orleans, qui gli ingle-si furono duramente sconfitti: caddero in battaglia 2000 inglesi e solo 3 fran­cesi. La strada per Reims era aperta; il 17 luglio Carlo VII veniva incoronato re e la Francia era salva. Giovanna terminata la sua missione intendeva rientra­re a casa , ma la convinsero a restare perché bisognava conquistare Parigi. Ferita durante la battaglia, Giovanna tornò a combattere e durante una rico­gnizione fu catturata dai Borgognoni che la vendettero agli inglesi per 10000 scudi d’oro, nel novembre del 1430. La ragazza fu imprigionata a Rouen e sottoposta a processo. Il suo principa­le accusatore fu il vescovo di Beauvais, Pierre Cauchon, che incriminò Giovanna per eresia e stregoneria. Si voleva dare in questo modo, una par­venza di legalità alla condanna, ma lo scopo era quello di eliminare il simbo­lo della resistenza francese, di vendicarsi delle umiliazioni subite da una fan­ciulla. Fu arsa sul rogo, il 30 maggio 1431, nella piazza del mercato vecchio di Rouen. Con la morte della pulzella gli inglesi si illusero di soffocare lo spi­rito patriottico dei francesi. Ma così non fu: 20 anni più tardi la Francia era liberata quasi per intero. Carlo VII, riconquistata Rouen, fece rifare il processo a Giovanna d’Arco e la sentenza fu di piena assoluzione e riabilitazione. Dall’esame dei verbali del processo sembra che lei sia stata profondamente con­vinta di dover assolvere ad una missione soprannaturale. Giovanna è stata dichiarata patrona della Francia.

Il regista: Luc Besson

Luc Besson nasce a Parigi l’11 luglio 1936. A soli 24 anni gira la storia di fan­tascienza: ”Le dernier combat” (L’ultimo combattimento). Il secondo prodotto: ”Subway” viene accolto male a Cannes, ma ottiene un grande successo al bot­teghino. Ma la grande vetrina di Luc Besson è rappresentata sicuramente da “Nikita” e balza in vetta agli incassi. È poi la volta de “Il quinto elemento” infi­ne “Giovanna D’Arco.

Regista: Amoi Gitai Genere: Drammatico Sceneggiatura: Amos Gitai, Eliette Abecassis Fotografia: Renato Berta Scenografia: Miguel Markin Musica: Philippe Eidel Durata: 110’ Colore Israele: 1999 Personaggi e Interpreti Rivka: Yael Abecassis Meir: Yoram Hattab Malka: Meital Barda

* a cura di Teresa Ciaccio

Il Film

Nella comunità ultraortodossa di Mea Shearim, quartiere di Gerusalemme osti­le ad ogni progresso e segnale di modernità, vivono due sorelle, Rivka e Malka. Rivka ama ed è riamata dal religiosissimo marito Meir, ma nonostante siano sposati da dieci anni ancora non hanno figli. Il rabbino capo, preoccupato, ordina che Meir ripudi la moglie, ritenuta sterile. La sorella minore Malka è innamorata del cantante Yaakov, in fuga dalla comunità costretta a sposare il braccio destro del rabbino, un uomo rozzo che non la ama. Mentre Rivka si chiude nel suo dolore in preda a una lancinante solitudine, Malka decide di ribellarsi e tenta la fuga. “Benedetto il Signore per non avermi fatto nascere donna”, con questo versetto delle preghiere mattutine si apre Kadosh ed è subito…inquietudine...sgomento. Il filo conduttore di Kadosh, presentato al festival di Cannes nel 1999, sono le donne, la loro non vita, la negazione del desiderio, l’irrinunciabile manifestarsi dei sensi, i dolorosi silenzi…e allora...l’inquietudine...agita …brucia. Rivka, la moglie amata e ripudiata è commovente per l’intensità di gesti e silen­zi, dentro un corpo imprigionato nel desiderio e in una passione trattenuta, spinta al suicidio per un estremo tentativo di liberazione. Malka, ribelle e trasgressiva, inorridità per la fine della sorella, alla fine fugge da un matrimonio imposto, fuori degli spazi claustrofibici della comunità. Con Kadosh, si entra in una caverna ”smaltata” di simboli, comandamenti e rituali religiosi severissimi che schiacciano la vita… schiacciano le donne. Una trama di sottile sofferenza annunciata e prescritta da una religione, dura, bigotta e cattiva che scandisce implacabile i ritmi, le decisioni, le speranze e la vita delle donne, sottolineata da un collettivo che amplifica come “un coro” assurdi e lenti rituali sacrificando sentimenti e teneri affetti. Kadosh è drammaticamente intenso; fotografa in maniera ossessiva e spietata l’amarezza e la violenza di un sesso consumato in maniera fredda e atroce; la

disperazione dell’amore femminile; il rumore dei silenzi; la bellezza di corpi seducenti erotici e prigionieri; le passioni represse: Kadosh è straordinariamente commovente quando fa parlare i sentimenti e si concentra sulla dolorosa storia d’amore matrimoniale fra Rivha e Meir. Inquadrature scarne, spoglie e silenziose, scene fatte solo di pudichi baci, malin­conici sguardi, strazianti abbracci. Una pagina d’amore straordinaria. La legge di un Dio vendicativo e crudele chiuderà la vita di Rivha in un tragico silenzio. La sorella..sopravvissuta..si allontana dalla comunità e nella dissolvenza fra il giorno e la notte, respirerà “libera” sotto un cielo cupo di dolore. Kadosh è una spietata denuncia contro ogni forma di estremismo, una prova della crudeltà e dell’assurdo di cui è capace la fedeltà religiosa quando è con­dotta a sacrifici psicologici e sentimentali inaccettabili. Kadosh è un film di riflessione e di profonda inquietudine, perché ci costringe a riflettere sulla condizione della donna, sulla libertà continuamente “violata” sul tentativo vecchio ma sempre nuovo di “schiacciarla”.

Il regista: Amoi Gitai

Nato a Haifa-Israele 1950 Gitai è uno dei registi israeliani più noti fuori di Istraele, si è occupato di rappresentare la convivenza fra culture differenti, rac­contanto i nostri integralismi e quelli della sua società. Società “giovane”, perché appena cinquantenne, eppure per certi versi simile a una qualche arcaica dittatura del chador. Per Gitai, da sempre in polemica con lo stato d’Istraele, l’aspra requisitoria di Kadosh chiude una trilogia della riconciliazione. Devarim (le cose) parlava della moderna Tel Aviv e della generazione dei quarantenni, i sabra, figli dei pionieri nati in Palestina; mente YomYom, giorno per giorno, di spostava a Haifa, nella mescolanza tuttora arroventata di arabi e istraeliani, divisi dalla ragione di stato, ma spesso uniti da legami affettivi o familiari. Erano storie della modernità contraddittoria e affannata di un paese anomalo come Istraele, ma non colpivano ancora al cuore la questione dell’identità ebraica come fa lucidamente Kadosh. Unica via d’uscita è la fuga, l’autoesilio da una comunità fagocitante.. Gitai è egli stesso un autoesiliato: apolide per scelta, tra Parigi e l’Italia.

 

FILMOGRAFIA

Ester

1985

Berlin-Jerusalem

1989

Golem

1991

Devarim

1995

Milim

1996

Giorno per giorno

1998

Kadosh

1999

Kippur

1999

Eden

2001

 

* 92 *

Casella di testo: FILMOGRAFIA 
Ester 	1985 
Berlin-Jerusalem 	1989 
Golem 	1991 
Devarim 	1995 
Milim 	1996 
Giorno per giorno 	1998 
Kadosh 	1999 
Kippur 	1999 
Eden 	2001 

* 92 *

Soggetto: tratto da un racconto di Isaac Singer Regia: Barbra Streisand Sceneggiatura: Jack Rosenthal e Barbra Streisand Musica: Michael Legrand Fotografia: David Watkin Personaggi e Interpreti Yentl: Barbra Streisand Avigdor: Mandy Patinkin Padre di Yentl: Amy Irving, Nehemiah Persoff Steven Hill, Allan Corduner, Ruth Goring, Lynda Barron, Jack Lynn Prodotto da: Barbra Streisand USA: 1983, 133’

* a cura di Marisa Rotiroti

Il Film

Tratto dal racconto Yentl, lo studente della Yeshiva di Isaac Bashevis Singer, premio Nobel per la letteratura.

In un insediamento rurale tra Russia e Polonia vive una piccola comunità ebrai­ca: gli uomini lavorano e studiano la Bibbia, i giovani più dotati frequentano le Yeshivà, le scuole dove si studia e commenta la Bibbia. Le donne si occupano della casa, della famiglia e non possono studiare i testi sacri. La figlia di un rab­bino, che in segreto ha studiato le Scritture, dopo la morte del padre decide di frequentare la Yeshivà in abiti maschili, assumendo il nome del fratello morto prematuramente. Frequentando la scuola, per soli uomini, s’innamora di un compagno: Avigdor, bello e protettivo. Prigioniera della sua finzione, finirà con lo sposare la fidanzata di lui e dovrà fuggire dal paese per por fine alle ambiguità ed essere finalmente libera di stu­diare e vivere da donna.

Il film, che si ispira alla rock opera, è organizzato attorno a un nucleo narrativo preciso e ad un corpo di canzoni che costituiscono una scaletta di concerto. Tratto liberamente dal racconto di Isaac Singer fa rivivere in modo brioso e leg­gero una realtà [la donna moglie e madre, servizievole e ossequiosa nei con­fronti degli uomini] che, almeno nel mondo occidentale, oggi non esiste più. “Yentl” segna una pietra miliare nella storia del cinema, perché per la prima volta, dopo Ida Lupino, una donna, Barbra Streisand, ha prodotto, diretto, sceneggiato e interpretato tutto un film.

Barbra dedica questo film a suo padre e racconta la storia di un rapporto privi­legiato tra un padre rabbino e una figlia che non dovrebbe studiare, ma che egli non ha il coraggio di allontanare dai libri. Ogni volta che le spiega le Scritture però, il padre chiude le finestre per timore dei vicini, non per esorcizzare la proi­bizione divina sancita dal Talmùd. Nella rievocazione affettuosa del mondo scomparso sono evidenziati, senza nostalgia, i pregiudizi e l’immobilità sociale della piccola comunità ebraica: il venditore ambulante di libri tenta di convincere Yentl a comprare un romanzetto rosa e le vende il trattato di teologia solo quando lei dice che è per suo padre... Alla morte del rabbino la ragazza, messa di fronte al suo futuro di pentole e padelle, decide di tentare la sorte assumendo un’identità maschile col nome del fratello prematuramente scomparso. La seconda parte del film si sviluppa con garbo ed ironia sul gioco degli equivoci: Avidgor, lo studente di cui la ragazza s’innamora dopo essere stata ammes­sa nella scuola talmudica, dubita, ad un certo punto, di essersi forse trop­po affezionato all’amico; in realtà… la sua attrazione segue le inclinazioni naturali... Yentl, per aiutare Avigdor, accetta addirittura di sposare la sua fidanzata Haddass quando egli rischia di perderla perché rifiutato dalla famiglia di lei. Molto ben riuscite sono le scene di vita domestica della strana coppia; il pro­blema delle notti coniugali è brillantemente risolto perché Yentl non inizierà Haddass ai misteri del sesso, ma fornirà a lei una diversa fonte di piacere e di appagamento: la conoscenza, la cultura. Significativa anche la scena in cui Yentl riflette in uno specchio rotto la sua immagine, simbolo di un’identità divisa, scissa tra l’essere e gli obblighi delle convenzioni religiose – sociali. Barbra Streisand, anche se non giovanissima, veste bene i panni di un imberbe studentello del primo Novecento, con il berretto, gli occhialini e la gestualità un po’ impacciata da primo della classe che nasconde sempre il naso nei libri. La tematica, ispirata alla libertà di scelta delle donne, si stempera nella com­media impostata sul triangolo eccentrico: oltre alle scene in cui il travestimen­to provoca tutta una serie di comici imbarazzi (piccola agonia di Yentl durante il matrimonio religioso e la successiva festa da ballo in cui tutto per lei gira e si confonde fino allo stordimento) sono interessanti le ricostruzioni della vita bohèmienne degli studenti, i luoghi dove i giovani si riuniscono a studiare, il gioco a dadi nella taverna, i bagni nudi nel fiume, gli amori, ma anche le inter­minabili e accesissime diatribe sulla Legge con le citazioni a raffica e le presen­ze paterne dei saggi rabbini dell’Europa Orientale ad arbitrare. Il film è di semplice lettura, vuole divertire lo spettatore/trice raccontando una favola, e le favole hanno tutte una loro morale. Quella di Barbra Streisand propone garbatamente una piccola variante dell’episodio biblico della mela nel giardino dell’Eden: sarà direttamente Eva, la donna, ad assag­giare la mela della conoscenza.

“Che cosa c’era da aspettarsi da un film non solo interpretato ma anche pro­dotto e diretto e scritto da una superstar che non può mettere in gioco la pro­pria sudatissima popolarità? Proprio quello che Barbra Streisand ci ha dato: uno spettacolo facile e gradevole ad ogni latitudine del globo, tranquillamente inse­rito ne genere romantico con pieghe impertinenti, allietato da belle canzoni, simpaticamente femminista, argutamente imparentato con Victor, Victoria e con Tootsie in qualche riflessione sull’androginia e la moda dei travestiti, spiri­tosamente punteggiato di situazioni azzardose, traboccante colore locale, e così deciso a esaltare la forza di volontà da indurci a identificare la sua ostina­ta protagonista, che preferisce le dispute teologiche alle chiacchiere delle donne, con la sua caparbia interprete” (Giovanni Grazzini, “Corriere della sera” 31/3/1984)

La regista: Barbra Streisand

Nata a New York nel 1942, inizia la sua carriera di attrice nel 1968 interpretan­do Funny Girl. Lavora con i più famosi registi hollywoodiani da William Wyler a Gene Kelly, a Vincente Minnelli. Nel 1973 gira Come eravamo per la regia di Sidney Pollack. Nel 1983 debutta nella regia con Yentl, di cui è anche sceneg­giatrice e produttrice. Interpreta il difficile ruolo della protagonista nel film Pazza di Martin Ritt. Il principe delle maree del 1991 è la sua seconda prova come regista.

Regia: Norman Jewison Musiche: Andrè Previn Sceneggiatura: Melvyn Bragg

Personaggi e Interpreti

Gesù: Ted Neely Giuda: Carl Anderson Maddalena: Yvonne Elliman Colore Durata: 104 minuti Nomination all’Oscar come migliore colonna sonora

* a cura di Lilly Rosso

Il Film

Un musical rock del 1973 adattato dalla commedia musicale di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber con una superba colonna sonora affidata all’esecuzione di Andrè Previn per la quale ci fu una nomination all’Oscar come migliore ”colonna sonora adattata per il cinema”. La sceneggiatura è di Melvyn Bragg che aveva già lavorato ai film di tema epico diretti dal grande Cecil B.De Mille. Il film, per il quale sono stati stanziati 3,6 milioni di dollari, abbandona gli effetti strabilianti e la scenografia del musical già andato in scena a Broadway. Straordinaria la voce e l’interpretazione di Ted Neely nei panni di Gesù; strepitoso il lavoro di Carl Anderson già interprete di Giuda nel tour d’esordio del musical di Broadway; intensa l’immagine della Maddalena rappresentata molto efficacemente da Yvonne Elliman.

Il nudo paesaggio introduce in chiave moderna la storia di un popolo e del suo Messia; una chitarra elettrica ritmando musica cult passa in rassegna i luoghi; una corriera colorata giunge poco dopo alzando un polverone....La scena, in quel deserto della Palestina, in breve si popola per l’arrivo di un gruppo di figli dei fiori che circonda Lui, il Gesù conteso, che assume immediatamente nuove vesti. Tutto sembra dirci che lo Spirito soffia dove e come vuole, che Dio può far nascere i suoi figli anche dalle pietre e l’uomo ha proprio bisogno di un pezzo di deserto in cui rifugiarsi per ritrovare se stesso, non per rimanerci ma per sco­prire il senso della vita.

Gli hippies scandiscono il tempo storico, sono parte di quella generazione di giovani anni ’70 che, economicamente liberi, cominciano a distinguersi anche sul piano dei valori e intrecciano con le ragazze i fili del cambiamento con tutta l’energia e la fiduciosa illusione della loro età. Una delle prime inquadrature si sofferma sulle impalcature su cui i sacerdoti (neri corvi) salgono mentre tutte/i assieme invadono gli spazi intendendo forse che ”tra i pionieri della protesta si sono ormai arruolate le ragazze” e c’è una comunità di donne e uomini liberi pronta a rompere con il mondo tradizionale e gettare le basi di un nuovo ordine sociale. Tra le insegne del potere gli hippies hanno anche una grande croce. Non ci hanno detto forse che la croce non è un caso, un incidente sul lavoro? Cristo muore liberamente, non è sorpreso dalla violenza del potere, la sua non è la morte legata alla fragilità umana ma quella che tocca a quanti credono in Dio. Se però il Natale è, in qualche modo, senso e valore comune, Pasqua è scandalo e follia. Natale è un uomo che nasce: e che c’è di più consueto? Pasqua è un uomo che risorge: e che c’è di più inconsueto, di inaccettabile? Il mondo tollerante perché scettico, può accogliere anche un presepe in un giorno d’inverno ma c’è una dome­nica di primavera in cui chi si ostina a credere che davvero la morte è stata sconfitta ritorna ad essere un” ciarlatano ”come fu Paolo per gli intellettuali pagani di Atene. Non la nascita ma la morte di Dio è un evento che divide la storia dell’umanità. La parola di Dio nel film non è cambiata, il paradosso è sempre il medesimo: il Messia era atteso da secoli e quando si presenta non solo non viene accolto,ma gli specialisti in religione lo condannano. Invano Lui ha cercato la fede dove avrebbe dovuto trovarla nei sacerdoti, nei farisei, nei teologi, l’ha trovata, inve­ce, nei pescatori, nei peccatori, nelle prostitute. Esiste una sola storia, contemporaneamente sacra e profana e l’incontro con Dio si realizza sempre e per tutti attraverso lo spessore fragile del visibile umano. La mirra che Maria Maddalena offre a Gesù allude simbolicamente solo a una parte della sua triplice essenza, quella di uomo mortale. Osserviamo da vicino i personaggi fondamentali per lo svolgimento degli even-ti: ecco Maria Maddalena ”la donna peccatrice, peccatrice della carne che aveva espresso la sua cifra misogina”. Nel lavoro di Norman Jewison ha una visibilità forte, importante, perché riunisce in sé i molteplici aspetti della specificità fem­minile, capace di vivere sentimenti assoluti, turbamenti profondi, di rassicurare l’altro, di farsi anche da parte, disegnando la sua vita in relazione a Lui, sempli­cemente un uomo, molto difficile però da amare, smuovere, interpretare. La scena che la vede in una notte buia, sotto la tenda, assieme al Cristo, è molto intensa; struggente il suo canto in quanto la consapevolezza le appartiene, l’e­sperienza non le manca eppure sa che il suo futuro non può deciderlo da sola. Ai piedi della Croce la Maddalena,coperta da un manto rosso, con il capo chino, prende il posto di Maria, la Madre di Gesù; nella sublimazione della pas­sione d’amore partecipa della Passione di Cristo, si specchia nella sua sofferen­za, diventa una figura speculare e riconosce in Lui la propria immagine: ognu­no dei due fa sua la forza salvifica dell’altro.

Non più la Madonna-madre, simbolo di un culto interamente costruito dal maschile, non la donna distaccata e soprattutto muta ma una Maddalena vitale, frutto di un’e­mancipazione laica, accompagna Cristo quasi a indicare che è necessario fare ordine simbolico situando la donna sessuata accanto all’uomo nel posto che le compete. È un Cristo giovane e bello quello che si manifesta nel film, ricco di fascino, umano sino al miracolo, gioioso e amante della vita, che non ebbe paura di sporcarsi, si sedette accanto alla donna perduta e si lasciò toccare e baciare anche da lei. Giuda con il suo livore, il suo volto buio, riporta invece in primo piano la que­stione della leadership che all’epoca divide gli hippies con priorità anche sui contenuti, ci fa intendere che l’ideologia prevale sulle idee e parla di giustizia in maniera esasperata quasi a giustificare il suo tradimento e le tragiche conse­guenze generate dalla spinta radicale di giustizia predicata dal Cristianesimo. La scena in cui corre nel deserto inseguito dai carri e dagli aerei da guerra can­tando ”Damned for all time” parla di un sogno mai concluso (Mettete dei fiori nei vostri cannoni). Giuda è, in realtà, la voce del dissenso, degli scettici, non si unisce al coro dei seguaci, guarda sempre da lontano e dall’alto, cercando di ricordare a Cristo i suoi doveri: riscattare un popolo oppresso, non perdere tempo con una come lei. ”Per eliminarci loro hanno bisogno di un pretesto” incalza Giuda ma la risposta di Cristo è chiara: -Chi sei tu per criticarla ?-. Quelli che fanno di Dio un giudice, hanno di Lui un pagano e un pubblicano! Cristo è stato veramente un uomo ”mondano”, la sua regalità non si svolge nella sfera del sacro ma nell’ambito dell’esistenza e della storia profana, qui ha esercitato il suo magistero capovolgendo però le regole del gioco. Chi dicesse che la religione ha unificato i popoli, commetterebbe un errore storico, infatti i libri di storia sono pieni di scomuniche reciproche e di trattati in tal senso. La sua non è stata la religione della famiglia, della nazione, della maggioranza per cui il grido di Giuda, che dall’aldilà ricorda a Cristo che forse il suo sacrificio è stato inutile, perché Israele nel IV sec. non aveva mass media, mentre ora avreb­be potuto raggiungere una nazione, sembra provocatorio, perché Egli si pre­senta come ”impotenza di forza e onnipotenza d’amore”. Perché Giuda lo denuncia ai sacerdoti del tempio? Seguiamo le parole del brano musicale che dà il titolo al film “ Jesus Christ who are you? what have you sacrifice? Jesus Christ Superstar, do you thinh you’ re what they say you are? (Gesù Cristo, chi sei? Cos’hai sacrificato? Gesù Cristo Superstar, tu pensi di essere quello che loro dicono tu sia?). Giuda insinua il dubbio che Gesù si sia lasciato prendere la mano, non abbia saputo scindere il mito dall’uomo, abbia cominciato a crede­re a quello che gli altri dicevano di lui, divenendo più importante delle sue stes­se parole, gli contesta il disinteresse per un popolo occupato. Anche la folla gli chiede: -Gesù Cristo, ti batteresti per me? e Simone: -Aggiungi un briciolo di odio per Roma e noi guadagneremo la gloria e tu il potere ­Ma Cristo replica:-Non capite cos’è il potere, cos’è la gloria-E a coloro che gli chiedono la guarigione dice: -Io son troppo poco... non sta­temi addosso, lasciatemi in pace ­

Tutti sembrano volerlo scuotere dal suo ostinato pacifismo e non è facile capi­re che l’Uomo pacifico del Vangelo non misura il silenzio e le parole secondo criteri di opportunità istituzionale e che si è dichiarato re solo quando questa parola non correva il rischio di equivocità: ormai prigioniero, abbandonato, davanti a Pilato, condannato al legno. Sul Golgota Cristo è solo -il Singolo -proteso in un gesto di intatta fedeltà. Tutto intorno l’abbandono, il silenzio anche di Dio. Il tema dell’abbandono di Cristo da parte di Dio appare in molti passi del Nuovo Testamento. San Paolo dice: ”Dio inviò il proprio figlio, nato da donna, nato sotto la legge, allo scopo di riscattare quanti sono soggetti alla legge, allo scopo di conferirci l’adozione filiale”. Nella costituzione della famiglia antica, per adottare non si dovevano avere figli propri o, qualora ce ne fossero, bisognava espellerli, abdicando alla patria pote­stas su di loro. Dunque, probabilmente, Paolo pensa a questo. Dio in modo misterioso scaccia il figlio per poter adottare gli estranei ! Nel film, in verità, non si dà valore ai particolari narrativi ma all’analisi critica e realista dei fatti, anzi gli elementi mistici della storia passano tutti in secondo piano, secondo una rivisitazione alternativa e, forse all’epoca, piuttosto blasfe­ma del Vangelo, infatti lui il Cristo è visto solo come l’uomo che deve riscatta­re il popolo palestinese da Roma e invece per megalomania si è lasciato influen­zare da tutta quella gente che lo credeva il Messia. L’attenzione si concentra sui personaggi e sulle loro doti espressive e canore perché gli sfondi scenici sono del tutto naturali e molto semplici anche i costumi degli attori che indossano comuni camicie e jeans a zampa d’elefante come i tanti hippies del tempo che vedono in Gesù il loro antesignano. Quello che ci viene presentato è un evento che si radica nel tempo e nello spa­zio, cioè nella morte e in una tomba, e che perciò ammette una verificabilità storica, ma esso fiorisce nell’eterno e nel divino, ed è per questo che esige un’a­nalisi nella fede e nella teologia. Il film si conclude con la partenza degli hippies, sullo sfondo resta la croce, sim­bolo di Colui che è stato un uomo ”storico” più che un uomo ”religioso”. Nel suo Regno chi vince perde, il primo è chi arriva l’ultimo, il successo è nel fal­limento. È follia? Il film ci dice di sì ma la storia è lì ad insegnarci che esiste tanta sapienza in quella fol­lia e che in Cristo Dio si è rivelato totaliter Alius da come lo pensa l’umana ragione. Uno dei miti più grandi e potenti dell’Occidente, la Crocifissione di Gesù, è divenu­ta una pellicola rock di grande successo che continua a far discutere atei, agnostici

o cristiani per l’audacia con cui l’immagine del Figlio di Dio viene accostata a quel­la di una star, idealizzata e poi rinnegata, secondo i temi della moderna favola pop. ” uperstar ” è la parola emblematica che stigmatizza la storia degli ultimi giorni di Gesù, dall’entrata in Gerusalemme alla crocifissione, vista attraverso gli occhi di Giuda, l’apostolo che tradì Gesù e fu portatore del punto di vista dell’uomo, avido di potere solo terreno, ostile al ruolo significativo assunto da Maria Maddalena.

Regia: Màrta Mészàros Interpreti

Maia Morgenstern, Adriana Asti Elide Melli, Jan Nowicki Coproduzione: Italia -Ungheria -Francia -Polonia

1995; Durata: 110 minuti; colore

* a cura Marisa Rotiroti

Il Film “La settima stanza” è l’ultimo film di Marta Meszaros, presentato a Venezia nel 1995 fra le diverse iniziative organizzate in occasione della Conferenza mondiale delle donne di Pechino.

Qui comincia la storia raccontata dal film della Meszaros. Di questo film erano state preparate 15 sceneggiature, ma la regista ha deciso di darne una personale interpretazione limitandosi a rappresentare gli anni più difficili della sua esistenza, evidenziando quegli aspetti della protagonista che l’’hanno maggiormente colpita: la sua capacità di lottare contro ogni forma di potere, in particolare contro quello nazista, le sue capacità di ricercare dentro di sé in piena libertà interiore, le ragioni e le finalità del proprio esistere. Nel film Edith spiega a una sua consorella che, la sera prima del giorno dei voti, le chiede aiuto nella paura e confusione della grande scelta, quale sia il percor­so ideale dell’anima di cui parla Santa Teresa d’Avila: “Il cammino che ci porta al centro di noi stessi passa per sette dimore o sette stanze”. La giovane donna che non sarà mai suora intravede, attraverso il racconto di Edith, la strada chiara che vuole seguire: il desiderio di maternità troverà legit­timazione da parte di Edith. Edith così racconta: Nella I stanza l’anima è muta e sorda, ancora prigioniera del mondo esteriore (qui comincia il suo percorso); nella II stanza l’anima lotta contro le attrattive del mondo esteriore; nella III stanza l’anima si purifica attraverso la meditazio­ne, nella IV stanza domina l’immaginazione: la conoscenza, l’intelligenza e la memoria pesano sull’anima; nella V stanza il mondo profano non ha più influenza sull’anima che è libera da ogni costrizione; la VI stanza è la camera della sofferenza dove l’anima ha lasciato tutte le tentazioni del mondo e aspet­ta...quello che si trova nella VII stanza che lei ancora non conosce…”

Le tappe di tale percorso sono evidenziate nel film, simboleggiate da passaggi, da “soglie” che continuamente si chiudono dietro le spalle della protagonista nei vari periodi della sua vita. I diversi momenti del film sono collegati dal personaggio di Franz Heller, un uomo che ha abbandonato la scienza per servire il potere, perfettamente inte­grato nel sistema nazista. In lui convivono odio, stupore, incomprensione per tutto ciò che non riesce ad afferrare di Edith, ma che lo turba. Il rapporto madre – figlia percorre tutto il film, amore materno e amore filiale che non riescono a trovare l’incontro. Le annotazioni che la regista ci offre sulla madre e sulle sorelle ci rendono par­tecipi di un continuo riferimento alla genealogia femminile. La sorella Rosa infatti ripercorrerà le stesse scelte di Edith, diventerà portinaia nel convento di Colonia e morirà con lei nel campo di concentramento. La Meszaros nel film non sottolinea soltanto i rapporti contrastati di Edith con Heller, la madre, la famiglia e simbolicamente anche col popolo ebraico, ma sottolinea anche il conflitto con se stessa e con la vita all’interno del convento, luogo di relazioni tra donne che devono confrontarsi con la quotidianità. Il cammino interiore di Edith, il cammino della Croce, viene accentuato dal volto particolarmente intenso della protagonista (l’attrice rumena Maia Morgenster), viene messo in evidenza attraverso varie scelte espressive della regista. Per esempio: l’eliminazione al massimo dello spazio che circonda i personaggi; spesso la macchina da presa indugia su porte, cancelli, finestre e ostacoli di diverso tipo che si frappongono tra il mondo interiore di Edith con la sua ansia di ricerca e il mondo esterno.

I colori dominanti giallo e nero sembrano sottolineare i momenti dello spirito di Edith (nero era l’abito degli ebrei e giallo la stella di David). La scelta delle luci e delle ombre isola i personaggi per cui ogni episodio diven­ta simbolico. Alcune immagini si ripetono e ci ricordano che stiamo assistendo a un’ascesa spirituale. Penso alle diverse occasioni in cui Edith è allungata per terra, con le braccia a forma di croce, a simboleggiare la partecipazione alla passione di Cristo o all’immagine dell’entrata nella “settima stanza” tutta bianca di luce, prima della visione finale di Edith stretta alla madre in posizione fetale nella camera a gas in un ultimo grande abbraccio materno -filiale, un abbraccio d’amore ed anche un abbraccio simbolico di riconciliazione col popolo ebraico.

La scrittrice: Edith Stein

Edith Stein nasce a Breslavia il 13 ottobre 1891. Ebrea, orfana di padre, ultima di sette tra sorelle e fratelli, riceve dalla madre una rigida educazione ebraica. Edith è curata dalle sorelle più grandi e, d’intelligenza vivace, fin da piccola si dimostra molto chiusa; non si confida con nessuno, nemmeno con la madre che la predilige su tutti i figli\e perché è la più piccola e perché è nata nel gior­no del Kippur (festa dell’Espiazione).

All’Università di Gottinga, unica donna, studiò filosofia con Husserl. Si laureò con la lode in filosofia nel 1916 a Friburgo e a 25 anni diviene l’assistente di Husserl. È una donna curiosa e affamata di verità. Leggendo il filosofo cattolico Max Scheler entra in contatto con il Cristianesimo. Con la lettura della “Vita “ di Santa Teresa d’Avila approda alla conversione, al cattolicesimo. Attraverso l’esperienza mistica della santa intuisce che Dio è Amore. Nel 1922 ricevette il battesimo con il nome di Teresa Edvige. Questo è per Edith un perio­do di grande serenità oscurato solo dal dolore di sua madre che non accetta la sua conversione. Tutta la famiglia vive la sua scelta come un tradimento, un distacco dal popolo ebreo. Da questa data fino al 1931 si ritira nel convento delle domenicane a Speyer, dove insegna filosofia al liceo del convento. È molto cono­sciuta nell’ambiente colto di quegli anni per i suoi scritti filosofici e morali e viene spesso invitata per conferenze a Colonia, Monaco, Praga e Vienna. Nel 1932 le viene offerta una cattedra universitaria a Munster e lei comincia ad avvertire che qualcosa di terribile sta per accadere alla Germania. Nel 1933 a causa delle leggi razziali è obbligata a lasciare l’insegnamento all’Università. Nonostante le venga offerta una cattedra universitaria nell’America Latina, Edith sceglie di entrare in un Carmelo, convinta che la sal­vezza non stia nell’attività umana, ma nel portare la croce assieme a Cristo. Nel 1934 si fa suora di clausura nel Carmelo di Colonia.

La regista: Marta Meszaros

Nata a Budapest nel 1928, è figlia dello scultore Laszlo Meszaros fuggito in Russia nel 1936 per sottrarsi al regime fascista e scomparso in seguito alle purghe di Stalin. Marta torna in Ungheria nel 1946 giusto in tempo per sperimentare di persona il socialismo dal volto umano e la crudele repressione durante la rivolta del 1956. Certamente le sue esperienze personali, molto ben descritte nei lungometraggi ”Diari” (Diario per i miei figli, Diario per mio padre e mia madre, Diario per i miei amori), hanno creato un legame psicologico tra la regista e la donna Edith Stein. La regista ha dichiarato di essere stata colpita dalla figura di Edith Stein, morta a circa 50 anni nel campo di Auschwitz, (prima di sapere che era stata beatificata da Papa Paolo Giovanni II), dopo aver scoperto su un giornale di Cracovia la sua vicenda terre­na. A tale proposito la Meszaros dichiara, in un’intervista, di aver avuto l’impressione che Edith abbia posseduto una forza tale da non farsi scrupolo di lottare contro i mali della società e che quindi sia stata “uno spirito libero che ha attraversato il suo tempo usando la forza per cercare una verità interiore e non la conquista del potere”. La realizzazione di questo film che la Meszaros ritiene il suo miglior film è stata lunga e difficile. Affascinata dal profilo umano della Stein, dalle sue vicende umane ricche di forza e di coerenza ha atteso 7 anni fino a quando ha trovato un produttore, Francesco Panphili, e una casa di produzione, la Morgan film, che hanno accettato la sua impostazione e la sua scelta. Non si può, però, com­prendere l’importanza di Edith Stein, una delle donne più significative del nostro secolo, se non si conoscono le vicende della sua vita vissuta all’insegna di una tensione altissima e di una ricerca costante del proprio Sé.

 

 

INDICE

 

Chi siamo

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pag.

3

Prefazione

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pag.

4

La donna nel cinema e nella letteratura

 

 

Ragioneesentimento

-diAng Lee

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pag.

9

MrsDalloway

-diMarleen Gorris

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15

 

MariannaUcrìa-diRoberto Faenza

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19

 

Lacasadeglispiriti-diBille August

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23

 

D’amoreeombra

-diBetty Kaplan

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28

 

Ilcoloreviola

-diSteven Spielberg

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31

 

Donne e relazioni fra donne

 

 

Piccoledonne-diGillian Arm Strong

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pag. 39

 

Camilla-diDeepa Mehta

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42

 

Gliannideiricordi

-diJocelyn Moorhouse

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45

 

Annidipiombo-

diMargarethVonTrotta

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47

 

L’alberodiAntonia

-diMarleen Gorris

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50

 

Relazionipericolose

-diStephen Friars

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53

 

Donne nel cinema e nella storia

 

 

Shakespeareinlove

-diJohn Madden

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pag. 59

 

Storiadiunacapinera

-diFranco Zeffirelli

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63

 

Comeeravamo

-diSydney Pollack

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67

 

LasceltadiSophie-diAlan J. Pakula

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70

 

Elisabeth-diShekhar Kapur

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Donne e religioni

 

 

Ilgiocodeirubini-diBoaz Yakin

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pag. 79

 

Ilcerchio-diJafar Panahi

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AgnesediDio-diNorman Jewison

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Giovannad’Arco-diLuc Besson

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Kadosh-diAmoi Gitai

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Yentl-diBarbra Streisand

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JesusChristSuperstar-diNorman Jewison

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Lasettimastanza-diMarta Meszaros

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Casella di testo: INDICE 
Chi siamo	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. . 	. .	 . 	. .	 . . 	pag. 	3 
Prefazione	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. . 	. .	 . 	. .	 . 	pag. 	4 
La donna nel cinema e nella letteratura 	
Ragioneesentimento	-diAng Lee	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. 	pag. 	9 
MrsDalloway	-diMarleen Gorris 	. 	. .	 . .	 . 	. .	 . 	“ 	15 
MariannaUcrìa-diRoberto Faenza	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. 	“ 	19 
Lacasadeglispiriti-diBille August	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. 	“ 	23 
D’amoreeombra	-diBetty Kaplan 	. 	. .	 . .	 . 	. . 	“ 	28 
Ilcoloreviola	-diSteven Spielberg	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. 	“ 	31 
Donne e relazioni fra donne 	
Piccoledonne-diGillian Arm Strong	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. 	pag. 39 
Camilla-diDeepa Mehta	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. . 	. . 	“ 	42 
Gliannideiricordi	-diJocelyn Moorhouse	 .	 . 	. . 	. . 	“ 	45 
Annidipiombo-	diMargarethVonTrotta	 .	 . 	. . 	. . 	“ 	47 
L’alberodiAntonia	-diMarleen Gorris	 .	 . 	. . 	. .	 . 	“ 	50 
Relazionipericolose	-diStephen Friars	 .	 . 	. . 	. .	 . 	“ 	53 
Donne nel cinema e nella storia 	
Shakespeareinlove	-diJohn Madden	 .	 . 	. . 	. .	 . 	pag. 59 
Storiadiunacapinera	-diFranco Zeffirelli	 .	 . 	. . 	. . 	“ 	63 
Comeeravamo	-diSydney Pollack	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. 	“ 	67 
LasceltadiSophie-diAlan J. Pakula	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. 	“ 	70 
Elisabeth-diShekhar Kapur	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. . 	. 	“ 	72 
Donne e religioni 	
Ilgiocodeirubini-diBoaz Yakin	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. . 	pag. 79 
Ilcerchio-diJafar Panahi	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. . 	. . 	“ 	82 
AgnesediDio-diNorman Jewison	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. 	“ 	85 
Giovannad’Arco-diLuc Besson	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. . 	“ 	88 
Kadosh-diAmoi Gitai	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. . 	. .	 . 	“ 	91 
Yentl-diBarbra Streisand	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. . 	. . 	“ 	93 
JesusChristSuperstar-diNorman Jewison	 .	 . 	. . 	. . 	“ 	96 
Lasettimastanza-diMarta Meszaros	 .	 . 	. . 	. .	 . 	. 	“ 	100 

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Finito di stampare del mese di giugno 2002presso la Litografia SudGrafica88060 Marina di Davoli (Cz)Tel. 199 440 470

 

 
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