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“Quel
tipo di donna”
di
VALERIA PARRELLA
a
cura di Adriana Esposito
Chi
è innanzitutto Valeria Parrella?
Nasce
a Torre del Greco 20 gennaio 1974 e cresce a Nocera Inferiore dove si
diploma al Liceo Classico G.B. Vico. Si laurea in Lettere
all’Università di Napoli per poi specializzarsi come interprete
nella lingua dei segni. Esordisce nella narrativa nel 2003 con la
raccolta di racconti “Mosca più balena” con la quale vince il
premio Campiello Opera Prima. Prosegue e, due anni dopo, arriva fra i
cinque finalisti dello Strega. Nel 2008 il primo romanzo “Lo spazio
bianco” da cui viene tratto l’omonimo film diretto da Francesca
Comencini. Ne seguono altri, fino ad arrivare all’ultimo “Quel
tipo di donna”.
La Parrella è una delle poche
scrittrici italiane ma anche di scrittori che ha avuto dalla sua
parte critica e pubblico e che ha raccontato molto di sé nei suoi
romanzi attraverso ritratti di donne autonome e forti. E non fa
eccezione quest’ultimo libro dove, fra l’altro, parla anche del
femminismo. Oltretutto, vive in un contesto familiare che favorisce
la sua formazione femminista. Emblematica è una foto che
rappresenta, per così dire, “il suo debutto in società”. Lei
bambina che entra nella cucina di casa accolta da un gruppo di donne:
la madre, la zia e altre due donne. Due proletarie, la madre e la
zia, una borghese e una quasi aristocratica, la professoressa che
avrebbe poi insegnato all’Università: tutte donne che studiavano e
che stavano cercando di affermarsi. Nasce da qui il suo apprendistato
alla sorellanza. Nel libro scrive: “noi eravamo figlie di quelle
lì, e i mariti di quelle lì, cioè i nostri padri, erano stati
femministi quanto le loro mogli”. E di suo padre, lo testimonia un
episodio che la scrittrice racconta quando, sedicenne, rimprovera la
mamma di non averle stirato bene la piega della minigonna e il padre
che le intima di non parlare in quel modo alla mamma “perché è
una donna che lavora”. Anche uomo del ’68, il padre che, insieme
alla mamma, avevano manifestato contro la guerra nel Vietnam ed
avevano votato la legge per l’aborto. Ed in questa onda lunga,
prende corpo la sua formazione di donna cioè di “quel tipo di
donna”.
L’incipit
del romanzo recita così: “Non siamo quel tipo di donne lì, o quel
tipo di uomini, dico quelli che stendono una tovaglietta sotto il
piatto per mangiare da soli. Abbiamo mangiato tante volte da sole ma
per la tovaglietta non abbiamo avuto tempo: c’è sempre stato altro
da fare, da leggere, entrare in carcere, organizzare uno spettacolo,
cercare le mutande nel letto disfatto di un altro”. In poche
parole, quelle donne lì sono quelle costruite dagli uomini a misura
delle loro necessità e dei loro bisogni.
Sono
quattro amiche, Dolores, Carola, Camilla, Valeria (la scrittrice)
alle soglie di un viaggio in Turchia e radunate da una perdita troppo
grande per essere affrontata in solitudine: la scomparsa della figlia
di Dolores, Saciko. Quattro amiche, due Gemelli, Dolores e Carola,
solari, allegre, serene ma non superficiali, due Capricorno, Camilla
e Valeria, molto assertive e precise che rendono ancora più speciale
il viaggio con le loro diversità caratteriali salvandosi
vicendevolmente le prime da situazioni particolari, le seconde dalla
noia. Perché le amiche sono fatte così. Ognuna di loro, in nome
della vera amicizia, ha lasciato temporaneamente un lavoro, un amore,
un figlio, per stringersi tutte insieme al vuoto di una perdita e
colmarlo di nuove storie, nuove scoperte e anche di una conoscenza
più profonda di loro stesse che solo un’esperienza comune può
dare.
Attraversano
la Turchia in pieno Ramadan, da Istanbul, metropoli libera e moderna,
ai camini delle fate in Cappadocia e alle coste selvatiche di
Antalya. Si perdono nella Moschea Blu di Istanbul, dove si prega su
lunghi tappeti polverosi ma dove lo sguardo si posa anche su
lampadari splendidi e lanterne di ottone dorato. Nella moschea si
prega e la preghiera è un momento di devozione e raccoglimento. Dopo
Istanbul, il viaggio prosegue per conoscere la Turchia interna fatta
di strade polverose in cui solo le direttrici principali sono
asfaltate e portano cartelli stradali. Il che rende il viaggio più
faticoso anche per farsi riconoscere. E solo la mediazione di
Dolores, per la sua propensione immediata a capire le lingue e a
parlarle, riduce i disagi degli approcci umani ma non della mancanza
di igiene, dei bagni a muro (come se la zona fosse abitata solo da
uomini).
Non
si perdono d’animo e, in nome della sorellanza che le incoraggia e
le unisce, noleggiano una macchina per dirigersi in Cappadocia. Lungo
il percorso, si invertono, si mischiano per poi ricomporsi anche i
segni zodiacali. Arrivano ai Camini delle Fate, pinnacoli di pietra
che trovano un loro eguale forse solo nei sassi di Matera. Sebbene si
alzino verso il cielo, non rappresentano che l’opposto dei pozzi
nei quali si scende per raggiungere le città sotterranee. Non una
novità per loro provenienti da una città come Napoli che non ha
nessuna difficoltà a svolgersi in verticale e che vanta sotterranei
d’eccellenza tali da non avere uguali in Europa. E alle città
sotterranee erano ricorsi anche i Frigi per difendersi dai Persiani
come riferisce Senofonte nell’Anabasi. “Proteggersi più che
sfidarsi perché la forza non è essere forti ma quando non lo puoi
essere”. Poi visite a ritiri cavi degli anacoreti, a chiese
rupestri, a negozi polverosi per acquisti di rito e la visita ai
dervisci, sorta di santoni, che si esibiscono in una particolare
forma di danza nella quale ruotano vorticosamente su se stessi
perseguendo l’unione mistica con Dio. Un rito che ha il senso della
“sfuggenza”: la vorticosità della danza ti fa diventare un
elemento diverso da te e quindi imprendibile. Comunque, non tutte le
scelte di visitare e scoprire sono condivise perché “c’è sempre
un momento in cui si è coppia e un altro in cui si ha il piacere di
stare soli per poi tornare ad essere gruppo. E l’amicizia, cioè
l’amore nella sua prima forma, questa cosa deve saperla per forza”.
Antalya,
sulla costa, ultima tappa del viaggio, è una città molto bella,
intricata di strade passate a calce che sarebbe potuta sembrare
Grecia se non fosse stato per i bagni turchi. Ma prima di arrivare in
questa città, la sosta in un piccolo villaggio sul mare, dà loro
l’opportunità di stupire lo skipper di una barca a vela presa a
noleggio dicendogli che la sua presenza era superflua, che avrebbero
fatto da sole “l’uomo le guardò e non disse niente”. Non erano
quel tipo di donna, quella che ha il tempo per la tovaglietta sotto
il piatto. Di uomini si parla poco in questo libro se non per
incontri occasionali, sporadici tentativi di approcci erotici, inizi
di storie che forse saranno. C’è un gineceo assoluto.
Ma la
scoperta più importante di questo viaggio che volge alla fine, è
quella di capire che di donne non ce ne sono state solo quattro ma
molte di più, nonne, madri, figlie, di ogni generazione, sedimentate
nella loro anima. C’è nonna Elettra che Valeria ricorda per le sue
passioni: l’amore per il teatro, per la politica, per gli animali,
per lo spettacolo ma anche per una coraggiosa vita privata quando
“acchiappa” il primo fidanzato che trova per uscire dal paese che
le stava stretto e per arrivare a Napoli dove si separa da lui, dopo
aver fatto tre figli, per vivere una nuova storia d’amore da cui
nasce la madre di Valeria.
E
Gabriella, la madre di una loro amica. Orfana di madre, sedicenne, fa
da madre alle sorelle più piccole. Si laurea in matematica e, dopo
aver vinto il concorso a cattedra, va ad insegnare in un paese del
Sud dove si accorge che più che insegnare matematica deve portare le
sue allieve a conoscenza di altre cose, di altri mondi. Non sapevano
che cosa fosse un grande magazzino e quindi la visita alla Upim di
Crotone, una lezione sulla depilazione perché ignoravano cosa fosse,
una giornata al mare perché molte di loro non lo avevano mai visto e
così via..Per non parlare della mentalità dei padri, emigrati in
Germania per lavoro, per dotare le figlie di una batteria di pentole
o di altri “conforti” di casa per un ruolo già per loro
prestabilito quello cioè di mogli e di madri e della difficoltà da
parte di Gabriella di convincerli che era un modo antiquato di
considerare le donne avviate ormai verso il cambiamento. E poi Renata
che si ribella al padre che la costringe a lavorare nei campi e a
diciotto anni, a dormire sul tavolo della cucina per aver tagliato i
capelli e Maria che presenta, di nascosto dal padre, una domanda di
assunzione alla Upim e la sua felicità di andare a lavorare e di
potersi truccare e vestire ogni mattina prima di uscire. Mentre le
madri non esistevano.
Storie
di donne reali che cercano di prendere le distanze dagli stereotipi
del passato per assecondare i propri bisogni, i propri desideri;
donne che hanno combattuto, amato, sofferto, vissuto prima di loro,
per la difesa delle loro scelte e degli obiettivi da raggiungere. E
perché no, affrancarsi dagli uomini in nome dell’autonomia di
pensiero, di decisioni, di comportamenti. Chiudo con una frase di
Luisa Muraro riportata nell’epigrafe del romanzo: “Stringiti alla
comunità delle donne perché quando sarai vecchia saranno loro che
ti salveranno: non i maschi”.
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