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Alla
Fondazione Bevilacqua La Masa, cinque artiste alla ricerca
delle proprie identità
30 gennaio 2019
![](archivio/2020/prospettive-dalla-stampa/05_ALLA_FONDAZIONE_BEVILACQUA_LA_MASA_CINQUE_ARTISTE%20ALLA_RICERCA_DELLA_PROPRIA_IDENTITA'_di_%20Anna_De_Fazio_Siciliano_html_m6507b7b.png) Cosa
spinge Anna
Di Prospero a
ritirarsi in camera prima di affrontare una nuova città? Perché si
fotografa mentre osserva una porta chiusa? Vuole forse autorizzare
attraverso il suo autoritratto la sua presenza, sentirsi al sicuro in
uno spazio nuovo, capire che tipo di incidenza ha la sua esistenza in
un altro posto che non sia casa per lei. È come una cura di
prossemica la sua fotografia. E perSimona
Ghizzoni,
che significa fotografarsi di spalle di fronte a una casa in rovina
sul lago di Comacchio e con l’abito rosso? Perché Silvia
Camporesi nel
momento di maggior successo del suo lavoro ha capovolto e girato
l’obiettivo? Per vedersi meglio da fuori? Gli altri decretando i
suoi trionfi non la vedevano più o forse, ne hanno costruito
un’altra immagine. Forse una che non corrispondeva alla sua idea di
sé. E allora ecco perché parte la ricerca. Perché è necessaria a
conoscersi, a seguire il susseguirsi delle fasi della vita. E Guia
Besana? Moira
Ricci?
Perché sono quasi esclusivamente le donne artiste a ricercarsi con
la fotografia?
È
questo l’obiettivo della mostra “Chi sono io? autoritratti,
identità, reputazione” a cura di Maria Livia Brunelli.
CInque artiste e una cinquantina di foto, foto già acquisite e
quindi in prestito, per mostrare attimi rubati alla frenesia del
vivere ma non solo: sono tutti click che come attimi sospesi,
bloccati in fotogrammi, organizzati in un loop eterno, costringono a
guardare la vita delle donne. Quella che vogliono e quella che
subiscono. Quelle fotografie messe dappertutto lungo le sale della
Fondazione Bevilacqua La Masa, sono un assillo, quasi rimbombano,
rimbalzano in occhi, visi, paure, cadute, travestimenti. Sono come un
urlo, come un grido silenziato a volte troppo a lungo, senza rumore,
senza voce: la fotografia funziona cosi. Hanno un suono assordante
quando ti cadono negli occhi, un tonfo sordo che ti si riversa
dentro.
Ma
perché? Per quale ragione l’immagine che ritraggono ti si
appiccica addosso come una colla di cui non potersi più liberare? È
per il peso inconscio di una storia millenaria o perché il fardello
è troppo ingombrante da caricare ancora addosso? Volevo sapere
questo da chi ha visitato la mostra, Concita De Gregorio se
l’è chiesto nel catalogo e chi scrive se lo chiede adesso.
Dal
preciso istante in cui ho perlustrato, una a una, le stanze della
Bevilacqua La Masa, mi sono accorta di ripercorrere la mia vita
attraverso quei fotogrammi. Sia chiaro, non in tutte le immagini mi
sono rivista. Ci sono istantanee in cui mi riconosco, altre in cui mi
ritrovo solo dopo essermi cercata a lungo, comunque stanno li quasi
come un riassunto troppo scomodo. Ed è quando viene superato il
primo “ostacolo” che ho bisogno di ritrovarmi, intercettare il
senso di me in mezzo a quel vortice di immagini che incorniciano
scene di donne intrappolate in una vita che forse non hanno voluto,
donne schiacciate in regole e ruoli prestabiliti, donne imbavagliate,
donne sempre e comunque vittime di secoli di condizionamenti. Ed è
questo quello che la mostra racconta, questo fa scardinare il
grimaldello della loro vita per avere una visione più profonda,
questo è anche il segno distintivo dell’autoritratto femminile, e
la domanda da cui parte l’indagine, nel libro-catalogo di Concita
de Gregorio.
Il
tema che percorre la mostra intreccia tutto i lavori delle 5
fotografe. Ma perché? Perché l’immagine di sé, l’autoritratto
è cosi rilevante? Perché è solo delle donne artiste ritrarsi come
in continua ricerca di se? E non degli uomini fotografi. Non c’è
una risposta, almeno non una sola, anche se è vero, poiché sul
volto, sul corpo delle donne da sempre si è riversato di tutto,
forse è per questo che c’è bisogno di riflettersi puntando su di
sé l’obiettivo. Forse era l’unico modo per proporre un’altra
immagine da ammettere come una controcultura, contro tendenza,
contro. E anche provare l’autoritratto come una medicina per curare
le ferite. Si sa, le peggiori abiezioni accadono lungo il corpo
femminile che da tempo è luogo in cui scaraventare frustrazioni e
incapacità, un corpo anche preso dalle donne stesse a emblema di
forza quando è vestito di rosso, il colore assunto per rivendicare
il proprio posto nel mondo.
Anche
questo è un tratto comune alle 5 artiste. Tutte si sono vestite di
cremisi o corallo per battere forte i piedi e farsi vedere. Simona
nell’autoritratto di spalle mentre guarda la casa in rovina. Anna
nell’autoritratto con Eleonora, dove sono le due donne che si
stringono in un abbraccio sull’erba. E non troppo diverse sono le
donne riverse, (avvelenate?) di Guia. Una per tutte, tutte per una
sola Biancaneve. Fiabe che non hanno più senso, finalmente. Le foto
in fondo sono chiari indizi, prove schiaccianti per spingersi anche
oltre la mostra. Tra le tante domande e riflessioni è utile notare
che, anche se sottili, ci sono spesso differenze geografiche
dell’immaginario femminile.
Lo
dice anche Fatema Mernissi: «Mentre l’uomo musulmano
usa lo spazio per stabilire il dominio maschile, quello occidentale
manipola il tempo e la luce. Egli dichiara che la bellezza per una
donna è dimostrare 14 anni. Le donne devono apparire infantili e
senza cervello». Gli atteggiamenti degli occidentali quindi sono
decisamente più pericolosi e sottili di quelli musulmani, «Perché
l’arma usata contro la donna è il tempo». Proprio cosi, il tempo
è il perno su cui si incardina il percorso espositivo, la traccia su
cui si impernia gran parte del discorso nei lavori in mostra, e non a
caso, «è la scelta del tempo – l’istante – la materia prima
del fotografo», sostiene De Gregorio.
Un
punto da cui per esempio Simona Ghizzoni non può prescindere. La sua
è una ricerca sul tempo, e parallelamente una ricerca di tempo. Le
ore è una foto scattata a distanza di 30 minuti per
esempio. Voleva vedersi nella fase di cambiamento. Guia invece si
fotografa quando per portare avanti la gravidanza ha dovuto fermarsi,
e in quel momento ha “sceneggiato” le foto. La più emblematica è
quella della bambina che stringe in mano una coppa. Ha vinto un
trofeo, ma quanto ha perso per vincere? E Moira cosa tenta di farci
capire entrando “a posteriori” nelle foto da giovane della mamma?
È curioso, è tutto un altro modo di guardarsi quello femminile.
Guardando
e ripensando a quelle foto ho scoperto tanto delle donne e tanto
altro di me. E per la prima volta in un articolo uso la prima
persona. Le implicazioni di questa scelta sono molteplici e, anche se
su queste mi taccio volentieri, invece punto il dito sulla forza che
le donne devono attivare per superare ostracismo maschile e secoli di
una cultura che ha tentato, il più delle volte riuscendoci, di
schiacciarla. Solo a titolo esemplificativo parlo brevemente di me:
ho scelto non a caso il mestiere di scrivere, abbandonando per sempre
un lavoro, cioè un modo di vivere, che per me (ma soltanto per me)
rappresentava un ricatto, l’ennesimo di fronte al quale non volevo
soccombere, dover accettare un ruolo costruitomi attorno da altri,
dalla famiglia, dalla storia, dagli uomini. Nei giorni seguenti alla
visita ho rivisto la mia vita alla luce di alcune immagini della
mostra che mi sono rimaste impresse, e sul mio “ruolo” in
famiglia.
Curiosamente
mi sono rivista in quella giraffa di Simona che, eccessivamente alta,
maestosa, straborda dallo spazio in cui è costretta. Ma ci sono
anche quelle gambe troppo grandi in cui mi rivedo, perche non stanno
più dentro la scatola dei giochi. E i tentativi degli altri di
ricacciarle in quell’armadio sono infiniti. E questo succede,
nonostante gli anni di una donna siano lontani e non poco dall’età
dell’innocenza. Anche in famiglia devi avere sempre 14 anni? Ho
chiesto ad altre donne, una ero io. Ho chiesto “chi sono”, chi
sentono di essere, cosa provano rispetto alle immagini della mostra.
Attendo risposte prima di ricominciare a scrivere sulle prossime
tappe che “Chi sono io” farà. Madrid, Roma, altri luoghi per
parlare di donne e fotografia.
(Anna
de Fazio Siciliano)
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