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Alla Fondazione Bevilacqua La Masa, cinque artiste alla ricerca delle proprie identità

30 gennaio 2019



Cosa spinge Anna Di Prospero a ritirarsi in camera prima di affrontare una nuova città? Perché si fotografa mentre osserva una porta chiusa? Vuole forse autorizzare attraverso il suo autoritratto la sua presenza, sentirsi al sicuro in uno spazio nuovo, capire che tipo di incidenza ha la sua esistenza in un altro posto che non sia casa per lei. È come una cura di prossemica la sua fotografia. E perSimona Ghizzoni, che significa fotografarsi di spalle di fronte a una casa in rovina sul lago di Comacchio e con l’abito rosso? Perché Silvia Camporesi nel momento di maggior successo del suo lavoro ha capovolto e girato l’obiettivo? Per vedersi meglio da fuori? Gli altri decretando i suoi trionfi non la vedevano più o forse, ne hanno costruito un’altra immagine. Forse una che non corrispondeva alla sua idea di sé. E allora ecco perché parte la ricerca. Perché è necessaria a conoscersi, a seguire il susseguirsi delle fasi della vita. E Guia BesanaMoira Ricci? Perché sono quasi esclusivamente le donne artiste a ricercarsi con la fotografia? 

È questo l’obiettivo della mostra “Chi sono io? autoritratti, identità, reputazione” a cura di Maria Livia Brunelli. CInque artiste e una cinquantina di foto, foto già acquisite e quindi in prestito, per mostrare attimi rubati alla frenesia del vivere ma non solo: sono tutti click che come attimi sospesi, bloccati in fotogrammi, organizzati in un loop eterno, costringono a guardare la vita delle donne. Quella che vogliono e quella che subiscono. Quelle fotografie messe dappertutto lungo le sale della Fondazione Bevilacqua La Masa, sono un assillo, quasi rimbombano, rimbalzano in occhi, visi, paure, cadute, travestimenti. Sono come un urlo, come un grido silenziato a volte troppo a lungo, senza rumore, senza voce: la fotografia funziona cosi. Hanno un suono assordante quando ti cadono negli occhi, un tonfo sordo che ti si riversa dentro. 

Ma perché? Per quale ragione l’immagine che ritraggono ti si appiccica addosso come una colla di cui non potersi più liberare? È per il peso inconscio di una storia millenaria o perché il fardello è troppo ingombrante da caricare ancora addosso? Volevo sapere questo da chi ha visitato la mostra, Concita De Gregorio se l’è chiesto nel catalogo e chi scrive se lo chiede adesso. 

Dal preciso istante in cui ho perlustrato, una a una, le stanze della Bevilacqua La Masa, mi sono accorta di ripercorrere la mia vita attraverso quei fotogrammi. Sia chiaro, non in tutte le immagini mi sono rivista. Ci sono istantanee in cui mi riconosco, altre in cui mi ritrovo solo dopo essermi cercata a lungo, comunque stanno li quasi come un riassunto troppo scomodo. Ed è quando viene superato il primo “ostacolo” che ho bisogno di ritrovarmi, intercettare il senso di me in mezzo a quel vortice di immagini che incorniciano scene di donne intrappolate in una vita che forse non hanno voluto, donne schiacciate in regole e ruoli prestabiliti, donne imbavagliate, donne sempre e comunque vittime di secoli di condizionamenti. Ed è questo quello che la mostra racconta, questo fa scardinare il grimaldello della loro vita per avere una visione più profonda, questo è anche il segno distintivo dell’autoritratto femminile, e la domanda da cui parte l’indagine, nel libro-catalogo di Concita de Gregorio. 

Il tema che percorre la mostra intreccia tutto i lavori delle 5 fotografe. Ma perché? Perché l’immagine di sé, l’autoritratto è cosi rilevante? Perché è solo delle donne artiste ritrarsi come in continua ricerca di se? E non degli uomini fotografi. Non c’è una risposta, almeno non una sola, anche se è vero, poiché sul volto, sul corpo delle donne da sempre si è riversato di tutto, forse è per questo che c’è bisogno di riflettersi puntando su di sé l’obiettivo. Forse era l’unico modo per proporre un’altra immagine da ammettere come una controcultura, contro tendenza, contro. E anche provare l’autoritratto come una medicina per curare le ferite. Si sa, le peggiori abiezioni accadono lungo il corpo femminile che da tempo è luogo in cui scaraventare frustrazioni e incapacità, un corpo anche preso dalle donne stesse a emblema di forza quando è vestito di rosso, il colore assunto per rivendicare il proprio posto nel mondo. 

Anche questo è un tratto comune alle 5 artiste. Tutte si sono vestite di cremisi o corallo per battere forte i piedi e farsi vedere. Simona nell’autoritratto di spalle mentre guarda la casa in rovina. Anna nell’autoritratto con Eleonora, dove sono le due donne che si stringono in un abbraccio sull’erba. E non troppo diverse sono le donne riverse, (avvelenate?) di Guia. Una per tutte, tutte per una sola Biancaneve. Fiabe che non hanno più senso, finalmente. Le foto in fondo sono chiari indizi, prove schiaccianti per spingersi anche oltre la mostra. Tra le tante domande e riflessioni è utile notare che, anche se sottili, ci sono spesso differenze geografiche dell’immaginario femminile. 

Lo dice anche Fatema Mernissi: «Mentre l’uomo musulmano usa lo spazio per stabilire il dominio maschile, quello occidentale manipola il tempo e la luce. Egli dichiara che la bellezza per una donna è dimostrare 14 anni. Le donne devono apparire infantili e senza cervello». Gli atteggiamenti degli occidentali quindi sono decisamente più pericolosi e sottili di quelli musulmani, «Perché l’arma usata contro la donna è il tempo». Proprio cosi, il tempo è il perno su cui si incardina il percorso espositivo, la traccia su cui si impernia gran parte del discorso nei lavori in mostra, e non a caso, «è la scelta del tempo – l’istante – la materia prima del fotografo», sostiene De Gregorio. 

Un punto da cui per esempio Simona Ghizzoni non può prescindere. La sua è una ricerca sul tempo, e parallelamente una ricerca di tempo. Le ore è una foto scattata a distanza di 30 minuti per esempio. Voleva vedersi nella fase di cambiamento. Guia invece si fotografa quando per portare avanti la gravidanza ha dovuto fermarsi, e in quel momento ha “sceneggiato” le foto. La più emblematica è quella della bambina che stringe in mano una coppa. Ha vinto un trofeo, ma quanto ha perso per vincere? E Moira cosa tenta di farci capire entrando “a posteriori” nelle foto da giovane della mamma? È curioso, è tutto un altro modo di guardarsi quello femminile. 

Guardando e ripensando a quelle foto ho scoperto tanto delle donne e tanto altro di me. E per la prima volta in un articolo uso la prima persona. Le implicazioni di questa scelta sono molteplici e, anche se su queste mi taccio volentieri, invece punto il dito sulla forza che le donne devono attivare per superare ostracismo maschile e secoli di una cultura che ha tentato, il più delle volte riuscendoci, di schiacciarla. Solo a titolo esemplificativo parlo brevemente di me: ho scelto non a caso il mestiere di scrivere, abbandonando per sempre un lavoro, cioè un modo di vivere, che per me (ma soltanto per me) rappresentava un ricatto, l’ennesimo di fronte al quale non volevo soccombere, dover accettare un ruolo costruitomi attorno da altri, dalla famiglia, dalla storia, dagli uomini. Nei giorni seguenti alla visita ho rivisto la mia vita alla luce di alcune immagini della mostra che mi sono rimaste impresse, e sul mio “ruolo” in famiglia. 

Curiosamente mi sono rivista in quella giraffa di Simona che, eccessivamente alta, maestosa, straborda dallo spazio in cui è costretta. Ma ci sono anche quelle gambe troppo grandi in cui mi rivedo, perche non stanno più dentro la scatola dei giochi. E i tentativi degli altri di ricacciarle in quell’armadio sono infiniti. E questo succede, nonostante gli anni di una donna siano lontani e non poco dall’età dell’innocenza. Anche in famiglia devi avere sempre 14 anni? Ho chiesto ad altre donne, una ero io. Ho chiesto “chi sono”, chi sentono di essere, cosa provano rispetto alle immagini della mostra. Attendo risposte prima di ricominciare a scrivere sulle prossime tappe che “Chi sono io” farà. Madrid, Roma, altri luoghi per parlare di donne e fotografia.

(Anna de Fazio Siciliano)



 
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