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rivista
DOPPIOZERO
W
la clitoride!
Francesca
Serra
8
marzo 2022
Intanto
noi lo chiamavamo al maschile: il clitoride. E adesso che si sente
dire al femminile, la clitoride, ci fa un certo effetto. Un misto di
sconcerto ed entusiasmo. Sconcerto per il fatto, abbastanza
umiliante, di non averci pensato noi prima: ce lo siamo tenute al
maschile, come ci avevano insegnato e siamo andate avanti. Obbedienti
come le brave ragazze che volevano che fossimo. Entusiasmo perché al
femminile suona indubbiamente meglio.
W
la clitoride, dunque. Organo tra i più misteriosi, non solo e non
tanto nella storia della sessualità che lo ha ignorato per secoli,
come se non esistesse o fosse pressoché invisibile: un minuscolo
dettaglio di dubbio gusto e scarsa funzione. Dedicandosi a oggetti
molto più ingombranti e soprattutto dominanti. Ma per l’anatomia
vera e propria. Per la medicina e la fisiologia. Il clitoride era uno
zero che non contava nulla. La clitoride avrà il compito di
vendicarsi di tutta quella indifferenza, fino a dimostrare di essere
il grande spauracchio di una cattiva coscienza secolare.
Siamo
appena all’inizio. Varie questioni ci aspettano ai blocchi di
partenza: il problema della sua grandezza. Quello della sia forma.
Quello della sua funzione. Lui, anzi lei è sempre stata lì. Ma
restava profondamente sconosciuta. Naturalmente per colpa sua, non di
chi non voleva vederla. Era lei, la clitoride, che non voleva farsi
vedere. Si ritraeva, si nascondeva, senza alcuna ambizione di
apparire alla luce del sole: condivideva con le femmine alle quali
apparteneva, il senso dell’umile e dell’insignificante. Insieme
certo a quello stratosferico del pudore, che la cultura aveva fatto
apparire natura, relegandole al ruolo d’infanti per sempre dedite
al gioco del nascondino.
Però,
se qualcuna di quelle insignificanti escrescenze si sottraeva a un
simile gioco da bambini o da schiavi, sporgendosi e mostrandosi più
del dovuto, ecco che la gogna e la punizione del mostruoso scattava
immancabilmente. La clitoride ribelle doveva essere subito umiliata,
tagliata, mutilata. E anche se non si fosse dimostrata in alcun modo
ribelle, mutilarla prima ancora che le venisse in mente di diventarlo
era sempre meglio.
Il
problema della sua grandezza sembrava liquidare fin da subito ogni
necessità di attenzione. Era piccola piccola. Una piccola bolla che
a volte si faticava perfino a trovare. C’era sempre qualcosa, nella
sua descrizione, che apparteneva all’ordine dell’abbozzo: del non
finito, oppure del mai nato. Qualcosa, anche, che riverberava il mito
del puer aeternus,
o meglio della puella
aeterna. Di ciò, insomma, che
non cresce mai, rimanendo in uno stato di minorità infinita.
Qualcosa, inoltre, dell’immaginario evoluzionistico, che dissemina
sulle autostrade genetiche organi deperiti e rattrappiti, accanto a
quelli che si sviluppano e perfezionano. Lasciando piccole tracce del
loro fallito tentativo di entrare in competizione con gli organi
vincenti: come un embrione di coda che ci ricorda cosa eravamo o cosa
potevamo essere.
La
competizione, in effetti, non ha mai giovato alla notorietà della
clitoride. Intanto quella storica e ovvia con il fallo maschile. Come
fossero Davide e Golia, rovesciando però la storia e ammettendo che
Golia vinca sempre: il nano e il gigante rappresentano la coppia
antinomica per eccellenza che lega la clitoride al fallo. Poiché non
c’è gigante senza l’effetto di derisione e schiacciamento di un
nano accanto, né possibilità di vedere un nano senza immaginarsi il
confronto con un gigante che lo sovrasta. All’ombra del fallo che
si erge sempre più in alto, la minuscola clitoride non può che
appassire e starsene buona. Umiliata anche da una seconda
competizione, che si lega strettamente alla prima: quella con la
vagina. E la sua vastità, che deve contenere non solo il gigante ma
addirittura l’origine del mondo, i figli della specie e i figli dei
figli in una catena di produzione che non si ferma mai. Nella vagina
deve poterci entrare tutto: maschi, femmine, oggetti, fantasie,
simboli, consolazioni e angosce le più varie. In equilibrio tra il
giardino dell’Eden e la cloaca, la vagina è immensa. Come un
castello o un mare aperto. Rispetto a questa immensità, la minuscola
clitoride di nuovo non può che naufragare, alzando bandiera bianca.
Unico
organo del piacere sessuale nel corpo umano che sia perfettamente
inutile dal punto di vista riproduttivo, la piccola clitoride non
solo faceva un po’ pena, ma anche paura. Infatti ci si immaginava
che le tribadi scatenate ne avessero uno fuori norma, con il quale
imitavano come scimmiette l’erezione dei maschi, attentando al loro
potere fisico e simbolico. La storia della clitoride entra in una
zona infiammata quando si sovrappone a quella di due categorie
speciali di persone: le lesbiche e le ninfomani. Solo loro pare che
ce l’avessero per davvero, questa fantasmatica clitoride, e solo
loro pare che la usassero. Sia pure a fini altamente perversi. E
compulsivi, come una macchina impazzita che spinge a masturbarsi a
tutte le ore.
Organo
senz’aura, la clitoride giace da secoli nella melma dell’ignoranza
e della maldicenza. La sua presunta invisibilità non riguarda
soltanto il fantasma della misura o della dismisura, tenuto a bada
per difendere l’aura della ben più importante coppia che unisce la
vagina-mondo al fallo intento eroicamente a penetrarla. Ma tocca temi
ancora più cocenti, a partire da quello della sua pensabilità. Per
arrivare a quello della sua rappresentabilità. Sono tre livelli
diversi ma osmotici: l’invisibile appartiene all’ordine di ciò
che chiamiamo i fatti, ma anche a quello dei pensieri e delle
rappresentazioni. Nel primo ci si chiede se la clitoride esista, e se
davvero esiste, se sia per esempio grande o piccola. Nel secondo si
passa a domande più filosofiche, riguardo alla nostra capacità
collettiva di rifletterci sopra. Nel terzo si tocca il nocciolo della
questione: se infine siamo giunti a vederla, la piccola e invisibile
clitoride senz’aura, e quindi arriviamo insieme a pensarla, come ce
la possiamo rappresentare? Se non fosse, che probabilmente
dovremmo rovesciare l’intero discorso: finché non saremo in grado
di rappresentarla, in realtà, non potremo neanche pensarla e
vederla.
Passeggiando
per un parco in mezzo alla città, un giorno di qualche anno fa ho
visto un gigantesco gonfiabile rosa, alto diversi metri.
Avvicinandomi l’ho potuto guardare meglio: aveva una punta più
sottile che si appoggiava su due terminazioni più ampie, formando
una specie di monumentale piramide. Il suo nome era Cli-Cli: una
scultura-castello gonfiabile in plastica di 6,20 metri di altezza e 6
di larghezza, che rappresentava un modello della clitoride. Il suo
compito, serio e insieme giocoso, era antico: quello di divertire
istruendo. Bambine e bambini potevano giocarci quanto volevano,
rimbalzandoci sopra, mentre nella loro retina s’imprimeva per
sempre l’immagine mai vista fino ad allora di cosa fosse una
clitoride. Io stessa a cinquant’anni suonati non avevo idea che
fosse così: quel gonfiabile rosa sembrava sceso dalla luna. Eppure
ce l’avevo tra le gambe da mezzo secolo.
Scoperta
solo recentissimamente nella sua reale forma anatomica, e studiata
ancora oggi venti volte meno rispetto al suo corrispettivo maschile
(nel 2019 più di 50.000 studi in scienze biomediche sono stati
pubblicati sul pene, e soltanto 2.500 sulla clitoride), quest’ultima
entrava infine spettacolarmente nel nostro orizzonte visivo, come
fosse una montagna da scalare, per poi scivolare giù urlando qualche
parolaccia verso chi ancora non ci credesse. Intorno al gonfiabile si
organizzavano dei Cli-Cli Tour e tutta una serie di attività
ludico-scientifiche: attraverso degli atelier interattivi, delle
osservazioni al microscopio, delle immagini animate il pubblico di
grandi e piccini poteva scoprire finalmente l’anatomia della
clitoride e la sua storia. A partire dal 2016 (sì, appena 6 anni
fa), quando il primo modello 3D di quest’organo è stato sviluppato
dalla ricercatrice francese Odile Fillod, abbiamo visto la clitoride.
E una volta vista, l’abbiamo potuta pensare. O meglio, ancora
rovesciando: grazie al modello 3D “inventato” da Odile Fillod
abbiamo tutte insieme pensato con stupore “Oh ecco la clitoride”.
E solo a quel punto abbiamo cominciato a vederla.
Quella
rappresentazione svelava per la prima volta la misteriosa anatomia
dell’intero organo, molto più grande e articolato di quanto la
punta dell’iceberg visibile facesse pensare. Era insieme
stilizzata, fino al punto di diventare una specie di logo da spedire
in giro per il mondo (enorme, minuscolo, colorato, in bianco e nero,
di carta, di gomma, di pixel) ed estremamente realistica: l’irreale,
bizzarro e imponente gonfiabile che avevo incontrato nel parco era
l’immagine più realistica che avessi mai visto o pensato intorno
alla clitoride fino a quel momento. D’altra parte sappiamo bene che
realtà e simbolo, natura e cultura non sono in nessun altro luogo
tanto mescolati quanto nei nostri organi genitali. Così la clitoride
è diventata un logo, dunque un segno, che si può finalmente
riprodurre sui muri, per terra, ovunque ci venga in mente. Dalla data
fatidica del 2016, che ha segnato l’inizio della sua pensabilità e
quindi della sua diffusione globale, occupa multipli spazi mentali e
geografici. Si è appropriata, soprattutto, dello spazio della città,
tradizionalmente fallica sia in verticale che in orizzontale: nella
tensione materiale dei suoi edifici verso il cielo, come nella
proliferazione terrestre del logo a forma di pene, onnipresente in
graffiti, scarabocchi e disegni di ogni tipo.
Quando
arriveremo a scarabocchiare sui quaderni di scuola la clitoride,
forse saremmo arrivate in fondo a questa storia. Che non è una
semplice storia di rivalsa, sotto il segno dell’eterna competizione
nano-gigante di cui parlavamo all’inizio. Il nano che infine si
rivela gigante anche lui, contendendo i riflettori all’altro: se
fosse solo questo, ci troveremmo alla fine con due diversi gradi
dello stesso problema e ce ne faremmo ben poco. Ma certo è una
storia di empowerment,
che quindi dovrà costruire intorno a quel concentrato di materia e
simbolo che riguarda il piacere femminile una sua mitologia anche di
rivalsa e potere. Facendo attenzione, però, a tenersi in equilibrio
sulla soglia di ciò che vale la pena di essere pensato in modo
nuovo, per non ricadere nella trappola dei vecchi fantasmi: ci
aiutano, in questo percorso non sempre facile, le storiche come
Delphine Garday che nel 2019 ha pubblicato Politique
du clitoris per le
edizioni Textuel, o le filosofe come Catherine Malabou, che l’anno
seguente si è dedicata allo stesso argomento, completamente ignorato
se non disprezzato dalla filosofia, ancora di più che dalla medicina
o dalla storia.
Quest’ultima,
nel suo libro Il piacere rimosso. Clitoride e pensiero,
appena tradotto da Mimesis con la prefazione di Jennifer Guerra, ci
mette in guarda sui pericoli della semplificazione di un oggetto di
pensiero tanto stratificato e scottante, aiutandoci a districarci tra
Freud, Lacan e le psicanaliste, tra femminismo storico e
transfemminismo, tra ninfe e mutilazioni. Uno slalom gigante
necessario per arrivare a scorgere laggiù, come è successo a me nel
parco, qualcosa di mai visto: “La clitoride interrompe la logica
del comando e dell’obbedienza. Non governa. Per questo dà
fastidio”, scrive in fondo al suo libro Malabou, celebrando la
clitoride come una potente forma di anarchia. Necessaria per
sforzarsi di guardare diversamente al mondo che verrà.
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