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Parole
avvelenate nelle cronache sulla violenza di genere
Sempre
più viene richiesta ai media una narrazione deontologicamente
corretta e non lesiva della dignità delle donne nella redazione di
articoli relativi a vicende connotate da violenza sessista
di
Maddalena Robustelli

Lunedi,
16/11/2020 - Negli ultimi giorni la narrazione relativa a due casi di
violenza familiare e di genere è stata oggetto di innumerevoli
rimostranze da parte dei lettori di vari giornali e quotidiani on
line. L’episodio più recente, riguardante l’arresto di un noto
imprenditore, Alberto Genovese, così come è stato raccontato da Il
Sole 24 ore, induce a chiedere una verifica sui propri giornalisti,
al riguardo del modo con cui scrivere di violenza di genere.
Trattando della figura del suddetto manager, che ha drogato,
torturato e stuprato una giovane donna per 24 ore, in un articolo del
giornale in questione inizialmente si poteva leggere al proposito
dell’arrestato come quel “vulcano di idee e progetti” “per il
momento, è stato spento”, perché “costretto a fermarsi almeno
per un po’ “. A tale resoconto si è scatenata una
bufera d'indignazione sui social, al punto che Il Sole 24 ore ha
provveduto a correggere in tal modo “Alberto Maria Genovese, 43
anni, imprenditore napoletano lombardo di adozione, è stato fermato
con l’accusa di violenza sessuale il 7 novembre 2020 in una storia
che, giorno dopo giorno, si arricchisce di nuovi terribili
particolari. Ma le società in cui è presente come socio,
amministratore o consigliere restano e sono tante.” Una
serie di domande sorgono spontanee, ossia è davvero così importante
per il quotidiano sottolineare il ruolo professionale dello
stupratore? Forse che la circostanza che sia “socio, amministratore
o consigliere” in varie società ha valore di fronte ad un così
efferato reato? Forse che la sue qualità imprenditoriali sono in
grado di lavare l’onta di stupratore? Sembrava quasi che
Il Sole 24 ore non si rendesse conto di quanto fosse grave il crimine
compiuto da Alberto Genovese, eppure è stato finanche rimosso dalla
carica di CEO di Prima Assicurazione da parte del suo consiglio
d’amministrazione, che ha subito preso in seria considerazione le
gravi accuse, specificando in una nota della società che i pensieri
«sono rivolti a tutte le persone colpite». Potremmo dire
che la toppa, ossia la rettifica, sia stata peggiore del buco, se non
fosse che, l’altro giorno il giornale ha provveduto a formulare
anche le sue scuse ai lettori “perché né per l’autore né per
la redazione è accettabile l’equivoco che Il Sole 24 Ore possa
difendere persone accusate di fatti così terribili”. E’ di ieri
la notizia che sarebbe stato “deferito all’Ordine dei Giornalisti
chi sul Sole24Ore ha fatto questa inammissibile descrizione di
Alberto Maria #Genovese, imprenditore arrestato mentre stava in
partenza per altri lidi perché accusato di aver sequestrato, drogato
e violentato ragazzine di 18 anni ed anche meno” (fonte Cristina
Perozzi, Articolo 21). In fondo, però, ci accorgiamo
come, al di là della vicenda che ha toccato Il Sole 24 ore, sia
costante compiere errori di tal genere, quali quelli di narrare di
casi relativi alla violenza di genere, offuscando parzialmente o del
tutto le loro vittime, se non addirittura facendole apparire agli
occhi del pubblico colpevoli di quanto accadutole. Come è successo
in un altro caso che ha occupato le pagine nei primi giorni della
settimana scorsa, ossia il femminicidio e duplice figlicidio di
Carignano. Scrivere che fosse "la crisi del rapporto
tra marito e moglie dietro la tragedia di questa mattina nel
Torinese”, è quel che di più sbagliato possa farsi per una
vicenda del genere, causata invece dalla volontà dell'uomo di
possedere e fare propria la vita dei suoi familiari, come anche la
loro morte. Tale modo di esporre i fatti sempre più trova in una
specifica espressione la sua caratterizzazione. Si parla infatti di
narrazioni tossiche, ogniqualvolta il racconto della violenza di
genere si focalizza su aspetti che valgono a creare attenuanti o
giustificazioni di sorta per il suo autore, ingenerando nel lettore
un giudizio che è ben lungi dall’attenersi ai fatti in sé
stessi. Eppure nel 2017 fu varato, dalla Commissione Pari
Opportunità della Federazione nazionale stampa italiana, il
Manifesto di Venezia, un protocollo con il quale le giornaliste e
giornalisti suoi firmatari, come si afferma nel documento, “si
impegnavano per una informazione attenta, corretta e consapevole del
fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali,
sociali e giuridiche”. In tale protocollo si prevedeva all’uopo
un decalogo di priorità che sostanziavano l’impegno, sulla base
dell’assunto per il quale” Il diritto di cronaca non può
trasformarsi in un abuso. Ogni giornalista è tenuto al rispetto
della verità sostanziale dei fatti. Non deve cadere in morbose
descrizioni o indulgere in dettagli superflui, violando norme
deontologiche e trasformando l’informazione in sensazionalismo”. Da
allora sono state portate avanti dalla Fnsi e dalle sue articolazioni
territoriali azioni di sensibilizzazione sul tema, così come dagli
Ordini regionali, con corsi di formazione ad hoc e iniziative comuni
con il mondo della scuola, dell’università, delle professioni,
dell’associazionismo, del sindacato. E’ stato finanche richiesto
un Osservatorio per monitorare l’applicazione del Manifesto di
Venezia, ma la realtà è che in questi due anni non si è modificata
da parte dei media la narrazione relativa alla violenza di genere e
familiare. “Per favore basta. Basta con i servizi in cui si va
dal vicino a chiedere chi era l’assassino, per sentirsi rispondere
“una brava persona”. Scriverlo, mandarlo in onda, o sentirsi dire
che era una coppia felice. Cosa ne può sapere il vicino o il
barista? Scrivete di lei piuttosto. Fateci sapere chi era questa
vittima della violenza maschile. L’ennesima. Parlate di lei. Della
sua vita spezzata. E non per adombrare il dubbio che, in fondo, se la
sia cercata” (Sindacato Giornalisti Veneto). Se una richiesta
del genere viene avanzata dagli operatori del settore, figuratevi
noi, come fruitori dell’informazione, quali rimostranze potremmo
avanzare contro i media che continuano ad abbondare di termini come
“raptus, follia, passione” per raccontare di un femminicidio, che
molto spesso non viene usato neppure come termine per definire
l’omicidio di una donna in quanto tale. Oltre alle contestazioni ed
alle proteste, presenti soprattutto sui social, c’è stato chi, di
recente, proprio in occasione della vicenda relativa ad Alberto
Genovese, ha avanzato però una specifica proposta. Simona
Lanzoni, vice presidente di Fondazione Pangea Onlus e coordinatrice
rete Reama, si è difatti rivolta tre domande “Forse è ora di
mettere una sanzione pecuniaria alle testate giornalistiche che
continuano a pubblicare senza vergogna titoli e articoli che negano i
reati di violenza commessi dagli uomini sulle donne? Forse delle
multe farebbero riflettere e forse queste sanzioni pecuniarie
potrebbero finanziare i centri antiviolenza?”. Si potrebbe
intendere come forzosa una soluzione del genere, ma non possiamo
pensare che a risolvere una costante narrazione tossica sulla
violenza di genere bastino solo corsi di formazione ai giornalisti o
protocolli quali il, pur importante, Manifesto di Venezia. E’ ora
di dire basta alle parole sbagliate, sempre frequenti e per così
dire avvelenate da uno sguardo fuorviante, nel racconto di casi
relativi alla violenza di genere, in cui le donne vengono picchiate,
torturate, violentate, uccise, private di dignità e di diritti. In
fondo si chiede soltanto un’informazione corretta e attenta del
fenomeno della violenza sessista, un’istanza semplicemente
ordinaria, ma in una società come la nostra, caratterizzata
pesantemente da una narrazione ancora così piena di pregiudizi
contro le vittime e le sopravvissute alla violenza di genere, diventa
una richiesta a carattere specificamente straordinaria.
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