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PERCHE’
STUDIARE LA RISPOSTA IMMUNITARIA DELLE DONNE
AL
COVID-19 E’ NECESSARIO PER TROVARE PIU’ RAPIDAMENTE UNA CURA
di
Veronica Tosetti - 25 maggio 2020 - da The Vision
Agli
occhi della medicina tradizionale, la donna è sempre stata
considerata un “piccolo uomo”, e di conseguenza presa in
considerazione nella sua specificità solo per quanto riguarda
l’apparato riproduttivo (seno, utero, ovaie): la cosiddetta
“sindrome
da bikini”
di cui a soffrire è la medicina stessa, ma di cui ne fanno le spese
tutte le donne. La
disparità di trattamento tra uomini e donne nella Sanità,
che riguarda numerosi aspetti, dai pregiudizi dei medici nei
confronti delle donne che lamentano dei sintomi, all’ostracismo
di procedure ginecologiche come l’Ivg (Interruzione
volontaria di gravidanza), fino a sovrastimare o sottostimare a
seconda dei casi, ma sempre ingiustificatamente, la loro soglia del
dolore. Un altro aspetto che viene costantemente ignorato è la
differenza fisiologica che intercorre tra i corpi degli uomini e
delle donne: pur essendo soggetti alle medesime patologie, infatti,
possono presentare sintomi, progressione di malattie e risposta ai
trattamenti molto diversi tra loro. Questo aspetto è emerso anche
per quanto riguarda il COVID-19: l’infezione da SARS-CoV-2 produce
effetti diversi negli uomini e nelle donne.
La
medicina di genere è nata per colmare questo grave vuoto di
conoscenza e di trattamento: già negli anni Ottanta si iniziava a
parlare della “questione femminile” in medicina, ma è solo nel
1991 che la cardiologa americana Bernardine Healy pubblicò sul New
England Journal of Medicine un
editoriale intitolato “The
Yentl Syndrome”,
che evidenziava le differenze nella gestione dell’infarto nei due
sessi. Nelle donne, infatti, l’infarto si presenta con segnali
diversi rispetto agli uomini – dolore alla schiena o alla mandibola
contro dolore al petto e al braccio sinistro di questi ultimi, eppure
scommetto che non lo avete mai sentito dire. Le malattie
cardiovascolari sono la prima causa di morte delle donne e il motivo,
semplicemente quanto tristemente, “è che i medici non se ne
accorgono”, secondo l’attivista
e giornalista britannica Caroline Criado-Perez. La possibilità delle
donne di ottenere una diagnosi errata di infarto è infatti del 50%.
Si tratta di un dato messo in evidenza anche nel libro Invisibili,
che fa leva sui big
data per
illustrare la sistematica subalternità femminile in numerosi ambiti,
tra cui quello sanitario. Le disparità che impattano direttamente
sulle donne riguardano ad esempio la maggiore incidenza della
depressione, delle malattie autoimmuni e
i ritardi nelle diagnosi di endometriosi,
ma anche il fatto che i modelli di cura sono ancora per larghissima
parte creati sui corpi maschili.
Nella
medicina sussistono ancora molti bias legati
al genere: i test in vitro sono condotti per la maggior parte su
cellule maschili, perché sono le cellule più studiate e meglio
conosciute. Visto che la ricerca farmacologia è strettamente legata
a fattori economici e finanziari, inoltre, è più comodo e
remunerativo continuare a muoversi in questa direzione: si pensi ad
esempio che i test sul Viagra vengono
finanziati 5 volte di
più di quelli sulla PMS (Sindrome Pre-Mestruale). Inoltre, per i
ricercatori, le donne costituirebbero un fattore di complicazione: le
fluttuazioni ormonali del ciclo mestruale influiscono infatti
pesantemente sui risultati e perciò spesso risulta più semplice
escluderle. Gli uomini, dunque, pur avendo a loro volta fluttuazioni
ormonali costituiscono il paziente modello, l’essere umano di
default, mentre le donne costituiscono la “deviazione”.
Come
spiegato dalla sociologia, gli uomini dalla medicina vengono
considerati neutri dal punto di vista del genere, anche se
evidentemente non è così. Per i ricercatori, le donne costituiscono
un fattore di complicazione. Il lavoro di Criado-Perez si è rivelato
particolarmente attuale in questo momento caratterizzato dalla
pandemia di COVID-19: l’autrice, forte di uno studio su una forma
di influenza a cui aveva avuto accesso durante le sue ricerche per il
libro e in cui l’estrogeno
veniva usato come protezione da
parte delle cellule femminili, ha
sollevato a livello mediatico la
necessità di includere nei test per le cure dell’epidemia di
SARS-CoV-2 anche le donne. Le ricerche e i trial del
vaccino devono essere intatti effettuati sia su uomini che su donne
in fase preliminare, affinché siano efficaci – e sicuri – su
entrambi, fatto
che non è sempre garantito.
Escludere le donne dai trial crea un disequilibrio, perché gli
uomini non possono fornire un valido sostituto: eppure, a oggi, le
stesse medicine prescritte a milioni di uomini e donne sono state
testate quasi esclusivamente su uomini.
Non
solo, Criado-Perez ha indicato come sia necessario anche che
i dati in
merito all’epidemia siano disaggregati, ovvero
separati ed esplicitati in base al sesso e
anche all’età, sia una responsabilità non solo accademica, ma
anche governativa. I cosiddetti gender-bias,
quando riguardano i dati, possono avere delle conseguenze molto più
gravi di quanto pensiamo, perché la mancanza di un quadro completo
può influire sull’accesso alle cure e di conseguenza penalizzarle.
Raccogliere più dati, dunque, può salvare la vita di moltissime
donne ma anche degli uomini, come evidenziano le statistiche sul
COVID-19. Il termine tecnico per questo tipo di dati
è sex-disaggregated (disaggregati
in base al sesso) e l’Italia, in questo, ha avuto un comportamento
virtuoso rispetto a molti altri Paesi. I numeri raccolti fino a marzo
parlano infatti del 71% di morti per COVID-19 di sesso maschile
(in Spagna
si parla invece del doppio rispetto alle donne).
Queste cifre da sole, però, dicono poco: è infatti necessario che i
dati raccolti siano molto più specifici per quanto riguarda tre
punti in particolare. Per prima cosa dovrebbero confermare quanti
individui sono stati testati, in secondo luogo chi è risultato
positivo e infine quanti sono i morti.
Il
fatto che questo approccio specifico non
sia adottato sistematicamente dall’inizio e
in tutto il mondo sta portando ad avere un quadro parziale. Solo
riconoscendo le differenze di genere tra uomini e donne si possono
capire a fondo gli effetti primari e secondari di un’emergenza
sanitaria su individui e comunità, affinché vengano create
politiche e interventi efficaci. Sebbene i casi di contagio secondo i
dati raccolti sembrino uguali in uomini e donne, in generale vi è
un’evidente disparità in letalità e vulnerabilità. Si pensa che
questo dipenda soprattutto da potenziali differenze immunitarie
basate sul sesso e il genere, e quindi sociali. Va ricordato anche
che la stragrande maggioranza della forza lavoro in ambito
sanitario è
composta da donne,
in Italia come nel resto del mondo (l’Onu stima che le donne siano
il 70% e guadagnino il 12% in meno degli uomini), e che questo rende
le donne le più esposte.
Proprio
in seno ad alcune ricerche in merito alla medicina di genere, era
emerso che
la funzione immunitaria differisce tra i sessi – motivo per cui ad
esempio esiste
una preponderanza femminilenelle
malattie autoimmuni – e può determinare la differenza tra donne e
uomini nella risposta al SARS-CoV-2, come
divulgato dall’Istituto Superiore di Sanità.
La risposta immunitaria delle donne, sia innata che adattiva, è più
pronta ed efficace e ciò determina una maggiore resistenza alle
infezioni. Bisogna però evidenziare anche le differenze che
intercorrono tra donne e uomini quando si entra nei meccanismi alla
base dell’infezione, sia di tipo ormonale che genetico. Osservando
da vicino i meccanismi alla base dell’infezione, è stato notato
che gli estrogeni hanno un ruolo di protezione particolare sulle
cellule femminili. Specifici studi, anche retrospettivi, saranno
utili a valutare il ruolo degli ormoni sessuali nelle differenze di
genere riscontrate, incluso ad esempio il ruolo della terapia
ormonale sostitutiva in donne colpite da COVID-19.
Oltre
ai fattori biologici legati al sesso, non vanno sottovalutati i
fattori strettamente legati al genere, ovvero all’espressione
sociale. Si stima per esempio che alcuni fattori che penalizzino gli
uomini siano la propensione al tabagismo e l’assunzione di
comportamenti potenzialmente più rischiosi. Una coppia di
ricercatori ha
sottoposto ad analisi un
ulteriore aspetto legato al genere: l’impiego di dispositivi di
protezione dal virus (soprattutto le mascherine). Emerge che, per
quanto riguarda le intenzioni a indossare una mascherina, gli uomini
sono meno propensi delle donne a farlo, a meno che vi sia una
disposizione legislativa che lo rende obbligatorio. Inoltre, un
maggior numero di uomini sostiene di essere meno esposto al rischio
di contrarre il coronavirus. A ciò si aggiungono le reazioni e le
emozioni negative legate al fatto di indossare una mascherina: gli
uomini dichiarano infatti che indossarla provochi in loro vergogna,
che sia un segno di debolezza, che non sia cool e
che addirittura crei uno stigma.
Se
a oggi non è ancora possibile capire fino a che punto sesso e genere
influenzino l’esposizione al SARS-CoV-2, è certo che siano
importanti indicatori di rischio e di risposta per l’infezione. A
questo proposito, in Italia, il 13 giugno 2019, il
ministro della Salute ha approvato formalmente il “Piano per
l’applicazione e la diffusione della medicina di genere”
firmando il decreto attuativo relativo alla Legge 3/2018, rendendo
l’Italia il primo Paese in Europa a formalizzare l’inserimento
del concetto di “genere” in medicina. Questo dato, insieme alla
cura dimostrata nella raccolta dei dati disaggregati per sesso, può
costituire un primo tassello per costruire una sanità inclusiva ed
equa, che dovrebbe essere l’obiettivo da perseguire da tutti i
governi e le organizzazioni internazionali.
(Condiviso
da Casa Internazionale delle Donne di Roma su Facebook)
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