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GUERRA RUSSIA-UCRAINA – SERVONO PAROLE PER LA PACE

di Maria Procopio



In questi giorni difficili, pervasi da dolore, angoscia, incredulità, smarrimento, rabbia, mi appare urgente il bisogno di parole che possano significare ciò che di drammatico sta accadendo. Le immagini di quanto sta avvenendo in Ucraina ci scuotono nel profondo: le vite distrutte, i morti, donne e bambini in fuga in cerca di salvezza, i bombardamenti, le macerie, la “vita” nei bunker; ogni giorno, inoltre, le aggressioni da parte delle forze armate di Putin si fanno più intense e più violente.  Una delle parole che ricorre più di frequente è “escalation”. Viene pronunciata quasi come un dato di fatto, fatalistico, inarrestabile. E gli atti sembrano dare ragione. Lo scenario politico è abitato dal dispiegarsi di prove di forza violente da una parte, dalla richiesta di un coinvolgimento armato allargato dall’altra, ed in mezzo una politica di mediazione da parte dell’Unione Europea che non sembra riuscire a trovare il ruolo che dovrebbe avere: quello di promuovere con forza e a gran voce la pace e di adoperarsi con tutti i mezzi di mediazione per ricercarla.

L’orrore, l’indignazione e la condanna che proviamo di fronte all’attacco di uomini, donne e bambini ucraini, alle uccisioni e alla distruzione dei loro luoghi di vita, può avere come risposta quella di “guerra chiama guerra”?  Pongo questa domanda perché mi sembra di avvertire una grande invocazione all’uso delle armi come mezzo per fronteggiare il conflitto in atto.  E perché mi sembra anche pericoloso stigmatizzare quanti, uomini e donne, cercano di affrontare questa grave questione con una interpretazione del conflitto che prova ad allargare la comprensione del contesto storico in cui avviene e che cerca di non limitarlo in una visione dualistica aggressore/aggredito, dittatore/eroe.

La mediazione ha bisogno di parole che orientino verso la pace, per evitare il pericolo concreto che il terreno di guerra si allarghi e che morti si aggiungano a morti, distruzione a distruzione, con gli effetti devastanti che tutti stiamo già immaginando e prevedendo. Esprimo questo pensiero partendo dalla mia soggettività di donna, ma so che è largamente condiviso anche da tanti uomini. Le immagini di guerra ci rendono ancora una volta evidente il fatto che il conflitto si inscrive come sempre nel sistema patriarcale. Un sistema che assegna le funzioni “tradizionali”: da una parte, gli uomini a combattere, dall’altra le donne che piangono i morti e il loro mondo distrutto e che, nello stesso tempo, si fanno carico della cura (è incredibile la capacità dispiegata in questi giorni in Italia dalle donne ucraine e da tante italiane nella raccolta di aiuti da inviare in Ucraina e nell’accoglienza delle profughe e dei loro bambini).

Queste azioni di aiuto sono evidentemente necessarie ed è importante compierle, ma è anche necessario andare al di là, se non vogliamo che la situazione si trasformi in una tragedia di proporzioni immani. Dobbiamo assumerci la responsabilità della parola, come stanno facendo anche tante donne in Russia a rischio della propria libertà. Occorre trovare parole per continuare a dire che il mondo è fatto di relazioni che attraversano i luoghi e il tempo: relazioni tra noi umani e la natura, tra i popoli, tra i gruppi, tra gli individui e relazioni con noi stessi/e. Dobbiamo affermare una visione del mondo in cui le relazioni siano confronto, siano dialogo, siano attenzione ai diversi punti di vista per trovare una possibilità di mediazione. Ci sarebbe bisogno di maggiore intersoggettività, nel senso in cui la definiva la grande pensatrice, Edith Stein, per permettere uno spazio di incontro con l’altro/a come possibilità di scambio e per trovare un nuovo linguaggio che consenta alla politica di affrontare in maniera diversa i conflitti.

E’ questa la pace che vorremmo, che non è neutralità, che non è un non voler parteggiare o schierarsi né per l’uno né per l’altro, ma è capacità di dare alla parola valenza di azione politica per affermare la vita contro il pericolo di creare il deserto, come ha scritto in maniera efficace Hanna Arendt nel suo testo Che cos’è la politica : “se le guerre tornassero a essere guerre di sterminio, scomparirebbe quello che sin dai romani è l'aspetto specificamente politico della politica estera, e le relazioni tra i popoli rientrerebbero di nuovo in quello spazio privo di legge e di politica che distrugge il mondo e crea il deserto. Poiché ciò che viene distrutto in una guerra di sterminio è ben più del mondo del nemico vinto: è soprattutto lo spazio tra i contendenti e tra i popoli, che nella sua totalità forma il mondo sulla terra....Ma se questo mondo di relazioni viene devastato, allora alle leggi dell'agire politico, i cui processi sono in effetti difficilmente annullabili all'interno del politico, si sostituisce la legge del deserto; e trattandosi di un deserto tra uomini, esso scatena processi devastanti che recano in sé la stessa smodatezza insita nel libero agire dell'uomo, dal quale si creano le relazioni. Tali processi devastanti ci sono noti dalla storia, e non conosciamo un solo caso in cui sia stato possibile arrestarli prima che trascinassero nella rovina un intero mondo con tutta la sua ricchezza di relazioni”.

Soverato, 17 marzo 2022

 
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