Sei su Archivio / 2020 / prospettive-contributi
GUERRA
RUSSIA-UCRAINA – SERVONO PAROLE PER LA PACE
di
Maria Procopio
In
questi giorni difficili, pervasi da dolore, angoscia, incredulità,
smarrimento, rabbia, mi appare urgente il bisogno di parole che
possano significare ciò che di drammatico sta accadendo. Le immagini
di quanto sta avvenendo in Ucraina ci scuotono nel profondo: le vite
distrutte, i morti, donne e bambini in fuga in cerca di salvezza, i
bombardamenti, le macerie, la “vita” nei bunker; ogni giorno,
inoltre, le aggressioni da parte delle forze armate di Putin si fanno
più intense e più violente. Una delle parole che ricorre più
di frequente è “escalation”. Viene pronunciata quasi come un
dato di fatto, fatalistico, inarrestabile. E gli atti sembrano dare
ragione. Lo scenario politico è abitato dal dispiegarsi di prove di
forza violente da una parte, dalla richiesta di un coinvolgimento
armato allargato dall’altra, ed in mezzo una politica di mediazione
da parte dell’Unione Europea che non sembra riuscire a trovare il
ruolo che dovrebbe avere: quello di promuovere con forza e a gran
voce la pace e di adoperarsi con tutti i mezzi di mediazione per
ricercarla.
L’orrore,
l’indignazione e la condanna che proviamo di fronte all’attacco
di uomini, donne e bambini ucraini, alle uccisioni e alla distruzione
dei loro luoghi di vita, può avere come risposta quella di “guerra
chiama guerra”? Pongo questa domanda perché mi sembra di
avvertire una grande invocazione all’uso delle armi come mezzo per
fronteggiare il conflitto in atto. E perché mi sembra anche
pericoloso stigmatizzare quanti, uomini e donne, cercano di
affrontare questa grave questione con una interpretazione del
conflitto che prova ad allargare la comprensione del contesto storico
in cui avviene e che cerca di non limitarlo in una visione dualistica
aggressore/aggredito, dittatore/eroe.
La
mediazione ha bisogno di parole che orientino verso la pace, per
evitare il pericolo concreto che il terreno di guerra si allarghi e
che morti si aggiungano a morti, distruzione a distruzione, con gli
effetti devastanti che tutti stiamo già immaginando e prevedendo.
Esprimo questo pensiero partendo dalla mia soggettività di donna, ma
so che è largamente condiviso anche da tanti uomini. Le immagini di
guerra ci rendono ancora una volta evidente il fatto che il conflitto
si inscrive come sempre nel sistema patriarcale. Un sistema che
assegna le funzioni “tradizionali”: da una parte, gli uomini a
combattere, dall’altra le donne che piangono i morti e il loro
mondo distrutto e che, nello stesso tempo, si fanno carico della cura
(è incredibile la capacità dispiegata in questi giorni in Italia
dalle donne ucraine e da tante italiane nella raccolta di aiuti da
inviare in Ucraina e nell’accoglienza delle profughe e dei loro
bambini).
Queste
azioni di aiuto sono evidentemente necessarie ed è importante
compierle, ma è anche necessario andare al di là, se non vogliamo
che la situazione si trasformi in una tragedia di proporzioni immani.
Dobbiamo assumerci la responsabilità della parola, come stanno
facendo anche tante donne in Russia a rischio della propria libertà.
Occorre trovare parole per continuare a dire che il mondo è fatto di
relazioni che attraversano i luoghi e il tempo: relazioni tra noi
umani e la natura, tra i popoli, tra i gruppi, tra gli individui e
relazioni con noi stessi/e. Dobbiamo affermare una visione del mondo
in cui le relazioni siano confronto, siano dialogo, siano attenzione
ai diversi punti di vista per trovare una possibilità di mediazione.
Ci sarebbe bisogno di maggiore intersoggettività, nel senso in cui
la definiva la grande pensatrice, Edith Stein, per permettere uno
spazio di incontro con l’altro/a come possibilità di scambio e per
trovare un nuovo linguaggio che consenta alla politica di affrontare
in maniera diversa i conflitti.
E’
questa la pace che vorremmo, che non è neutralità, che non è un
non voler parteggiare o schierarsi né per l’uno né per l’altro,
ma è capacità di dare alla parola valenza di azione politica per
affermare la vita contro il pericolo di creare il deserto, come ha
scritto in maniera efficace Hanna Arendt nel suo testo Che cos’è
la politica : “se le guerre tornassero a essere guerre di
sterminio, scomparirebbe quello che sin dai romani è l'aspetto
specificamente politico della politica estera, e le relazioni tra i
popoli rientrerebbero di nuovo in quello spazio privo di legge e di
politica che distrugge il mondo e crea il deserto. Poiché ciò che
viene distrutto in una guerra di sterminio è ben più del mondo del
nemico vinto: è soprattutto lo spazio tra i contendenti e tra i
popoli, che nella sua totalità forma il mondo sulla terra....Ma se
questo mondo di relazioni viene devastato, allora alle leggi
dell'agire politico, i cui processi sono in effetti difficilmente
annullabili all'interno del politico, si sostituisce la legge del
deserto; e trattandosi di un deserto tra uomini, esso scatena
processi devastanti che recano in sé la stessa smodatezza insita nel
libero agire dell'uomo, dal quale si creano le relazioni. Tali
processi devastanti ci sono noti dalla storia, e non conosciamo un
solo caso in cui sia stato possibile arrestarli prima che
trascinassero nella rovina un intero mondo con tutta la sua ricchezza
di relazioni”.
Soverato,
17 marzo 2022
|