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E’ un piacere per me stasera sedere a questo tavolo per dare il mio contributo alla lettura delle poesie di Rosa Tuccio, ed è un piacere in più dopo averla conosciuta di persona, nella sua fisicità
Soverato,
13 aprile 2002
“Cocci
e Balestre” di
Rosa Tuccio
intervento
di Marisa Rotiroti
E’ un piacere
per me stasera sedere a questo tavolo per dare il mio contributo alla
lettura delle poesie di Rosa Tuccio, ed è un piacere in più dopo
averla conosciuta di persona, nella sua fisicità. Il che è avvenuto
appena qualche giorno fa e ringrazio Pina Tropea per aver proposto il
coinvolgimento della Biblioteca delle donne e me nell’ intervento
di questa sera. Non sono una critica letteraria né di poesie, e non
pretendo di esserlo; sono solo una donna che ha letto un’altra
donna per il tramite dei suoi versi; perciò ho voluto incontrarla
per parlarle e guardarla negli occhi; per capire.
Esprimo i sentimenti che ho
provato prendendo in prestito le parole della scrittrice algerina
Assia Dejebar: “una donna che parla
di fronte ad un’altra che guarda: quella che parla sta raccontando
l’altra; colei che guarda, nell’ascoltare ricorda e vede… se
stessa”
Non
conoscevo Rosa, ma avevo sentito parlare di lei un paio di anni fa,
al tempo dell’organizzazione dei lunedì letterari - assessora alla
cultura Francesca Sacco - e mi aveva colpita la sua sensibilità
verso la Fondazione “Roberta Lanzino” cui aveva deciso, allora
come oggi, di devolvere i proventi della sua pubblicazione. E’ un
gesto il suo che riporta qui, tra noi, (per non dimenticare) Roberta
coi “suoi riccioli al vento”; quell’ immagine che mi è rimasta
negli occhi e…. nel cuore perché a quel tempo mia figlia aveva la
stessa età di Roberta e come lei frequentava l’Università…. in
una sede diversa.
Ho
provato dolore, dolore di madre, dolore di Matilde, la quale ha
trasceso il proprio dolore creando con coraggio la Fondazione
“Roberta Lanzino”.
Dopo
qualche anno è nato anche il “Centro contro la violenza “Roberta
Lanzino” che, mi pare, si sia costituito parte civile nel processo.
Anche
Rosa Tuccio a quel tempo era madre, giovanissima madre!
Dedicando
questo suo canto a Matilde alza gli occhi verso le stelle “per
incontrare e toccare il dolore terrigno e feroce della perdita” -
dicono Matilde e Franco nella loro lettera.
Il
suo è un canto di libertà….”e
l’anima mia non magnifica alcun signore”
dice Rosa; le emozioni le fanno capire il suo “dentro”, scenario
idiosincratico inaccessibile agli altri, ma che sa sporgere il suo
sguardo su altro e sugli altri/e. Ha perciò scelto, da alcuni anni,
di fare l’insegnante di sostegno per capire, attraverso i bambini/e
difficili, come nascono e come si sviluppano i desideri, le abitudini
e le passioni: amore, odio, invidia, gelosia sono infatti delle
presenze biologico - universali sulle quali e con le quali possiamo
ricamare, fantasticare, arricchire o impoverire la nostra vita
psichica.
Il
linguaggio di Rosa sa tenere assieme parole ed essere, esprime il “di
più” del
sapere femminile, creazione di senso, che risignifica l’esperienza
ricucendo pazientemente realtà e sentire in un’estrema vicinanza
con quanto vi è di misterioso, di inconcepibile nella condizione
umana.
In
un secolo tragico e luttuoso qual è il nostro, da consegnare
volentieri alla storia, che senso ha scrivere poesie? Per
me……esprimere una condizione interiore con le parole, parole che
“vengono fuori e
che poi restano fuori” dice
Gertrude Stein.
Oggi,
più che in passato, uomini e donne leggono libri di poesie di donne
e se ne nutrono “come
del pane quotidiano”.
Mi piace fare questo accostamento perché il pane che si compra tutte
le mattine sotto casa è il frutto del lavoro di chi si sveglia nella
notte, quando noi dormiamo, e
io mi sono da poco addormentata perché vado a letto molto tardi,
e impasta, inforna e attende il momento della cottura perché niente
bruci e vada perduto.
Le
donne che scrivono poesie impastano linguaggio ed esperienza con la
pazienza degli artigiani che conoscono il valore del tempo e
dell’attesa. (Pag. 53)
Chi legge le
poesie delle donne va a pescare nel fiume carsico dell’arte
femminile; nell’arte di una parola maneggevole ed economica (e la
parola di Rosa Tuccio è per me una parola maneggevole ed economica
!….), capace di parlare anche del rapporto con l’uomo senza
renderlo un oggetto esterno alle proprie emozioni; diversamente da
quanto avviene nella poesia degli uomini, in cui la donna diventa
oggetto sublime, in quanto figura del desiderio.
Nella sua poesia
quindi Rosa, attraverso il linguaggio, traduce in parola la propria
esistenza, la propria esperienza e comunica; induce chi legge a
fermarsi su di sé, a far viaggiare il pensiero, a ripercorrere la
propria vita sull’onda anche di una sola parola.
Io ho letto le
poesie di Rosa Tuccio con il “mio occhio” e le ho ascoltate
dentro di me con il “mio orecchio”.
Partendo da
un’esistenza sociale già guadagnata Rosa stenta ad entrare in
contatto con se stessa: “vorrei
dire parole senza dolore…”
Ma...con la
scrittura Rosa ha svelato,
ha tolto il velo
al suo dolore, a quel dolore coltivato nel silenzio
della sua anima e si è autorizzata a nascere
come Donna, a
correre libera per il mondo. “Va’,
corri verso la libertà! ” fa
dire Louisa May Alcott da mamma March alla figlia Jo in “Piccole
Donne”.
Un grazie di
cuore a Rosa per avere scritto le sue poesie e al marito che, con
amore, le ha organizzato questo incontro.
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